Sono più di vent’anni che ogni 20 luglio scrivo, scriviamo, del G8. Quest’anno fa 22, ventidue anni passati da quelle giornate potenti e drammatiche.

Questo articolo è dedicato a Carlo Giuliani, non era un eroe ma un ragazzo, e alla sua famiglia. Carlo fu ucciso tre volte in Piazza Alimonda: gli spararono sotto lo zigomo, gli passarono sopra con un defender dei carabinieri, venne preso a sassate in fronte fra vita e morte o forse già morto chissà per cercare un depistaggio impossibile.

Guardo Simone, 21 anni. Sta cercando di spiegare a una platea di quaranta cinquantenni abbienti perché è un attivista di Ultima generazione. Parla convinto, cita le pratiche della non-violenza. Il marketing degli attacchi lavabili al patrimonio artistico ha scatenato una campagna d’odio verso quelli che chiamano ecoterroristi. E che un personaggio di Antonio Manzini, nel giallo ELP, definisce più eco-terrorizzati che ecoterroristi, non sbagliando l’affondo.

C’era tutto a Genova, denuncia e soluzione, c’era già negli anni ’70 a ben vedere. E c’è ancora oggi. Soluzioni dell’establishment nel corso dei decenni? Il nulla.

Piccole cose, grandi summit, belle scenografie, per trattati inutili per la maggior parte delle volte. Si celebra la messa, ma nessuna resurrezione finale, andate in pace a bollire nelle città roventi.

Perché si torna sempre lì, per la mia generazione di 54enne, allora poco più di trentenne. Simone era nella pancia di sua madre nel luglio 2001, oggi ha trenta procedimenti penali a carico per le azioni di disobbedienza civile. Lo guardo con simpatia e un pizzico di invidia positiva. Un signore elegante e chiuso nelle sue ferree convinzioni di ordine gli dice che ha sbagliato metodi e obiettivi della sua battaglia. Lui non si scompone e replica, venga con. Me a imbrattare qualche monumento, andiamoci insieme, perché ognuno deve fare la sua parte.

Fare la propria parte. Sembra quasi una risposta individualistica, il che non sarebbe così strano dal momento che siamo imbottiti di individualismo nel consumo della nostra quotidianità. Eppure quel concetto risuona forte mentre ripasso mentalmente tutte le esperienze mutualistiche e solidaristiche che ho vissuto e visto crescere in questi ventidue anni.

I genitori di Simone erano due compagni che ci credevano. Da quel luglio del 2001 hanno appeso la rivolta al chiodo, il Movimento era stato colpito duro, troppo per molti. Che incredibile metafora di quel seme sotto la neve di cui parlò Leogrande sulla rivista Re Nudo e che ho ripreso in Genova per chi non c’era, per i tipi di Altreconomia. Il Movimento si è sciolto in rivoli, dopo un andamento carsico di alcuni anni, eppure ecco che ci spunta davanti agli occhi questa gemma.

Ventun anni e molta consapevolezza: sono un cittadino e voglio che i soldi del mio Paese, quelle che preleva dal gettito fiscale, siano destinati alla lotta contro i cambiamenti climatici. Vuol dire stop ai finanziamenti e alle assicurazioni di stato al fossile, stop alle banche che investono sulle fossili, stop al gas liquido naturale di cui si parla un gran bene, ma che inquina, anch’esso nonostante sia presentato come un buon compromesso.

E però non bastano i Simone, cui dico grazie. Grazie a lui e alle altre che se la giocano, in un meccanismo repressivo che è quello del capitalismo, che sfrutta e combatte con le polizie chi esige  non una semplice transizione, ma una transizione giusta, globale.

Il 20 luglio ci ricorda che quel Movimento era riuscito a fare paura, non perché protestava e basta. Perché proponeva un modello alternativo. Un altro mondo possibile. Ventidue anni dopo siamo ancora lì a dire che è possibile. Dobbiamo fare la nostra parte.