Gezi Parki generation

Sembravano apolitici, materialisti, indifferenti. Adesso portano la loro rabbia in piazza e il governo Erdogan è in difficoltà, tra critiche europee e immagine da duro. Istanbul, ammaliata dal boom economico, all’improvviso scopre la primavera dello scontento della sua gioventù

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-09-alle-20.48.03.png[/author_image] [author_info]Sara Chiodaroli, da Istanbul. Milanese, dopo un Dottorato di ricerca sulla letteratura dell’immigrazione in Spagna e in Italia, è docente di Lingua Italiana e Spagnola presso l’Università Bilgi dal 2012 a Istanbul[/author_info] [/author]

La chiamavano “la generazione degli anni 90”, generazione apolitica, focalizzata sulle frivolezze dell’età moderna, la tecnologia e i social network. La chiamavano generazione dei disinteressati e degli indifferenti. Nessuno forse si era mai soffermato a chiedersi chi fossero questi individui stigmatizzati nell’etichetta o si era mai incuriosito a conoscere le loro opinioni.

Adesso, invece, il palcoscenico è loro. Il 27 maggio scorso ha avuto inizio la protesta al Parco Gezi di Istanbul in risposta agli attacchi della polizia nei confronti di un gruppo pacifico di manifestanti: la protesta si opponeva a un importante progetto urbanistico della municipalità, che prevede lo smantellamento dell’area verde urbana, Gezi Parki, alle spalle di Piazza Taksim, per dare spazio a un edificio che ricalcherebbe la struttura di un’antica caserma militare ottomana, ma che andrebbe a ospitare un centro commerciale.

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Per un abitante di Istanbul, negli ultimi anni, è norma imbattersi in cantieri di monumentali progetti urbani. La città sta realmente subendo una metamorfosi urbanistica dai ritmi incalzanti, sia nel settore pubblico (centri commerciali) che privato (aree residenziali per privati).

Tuttavia, la partecipazione dei giovani alla protesta che giorno dopo giorno, a partire dal 27 maggio, ha acceso l’intero Paese a partire dai fatti di Taksim a Istanbul, ha svelato il vero volto di un’identità sociale fino a quel momento repressa in un’atmosfera carica di tensione.

La mia vicinanza quotidiana con questa generazione mi ha aiutato a comprendere questo Paese durante quel periodo di inquietante calma che arieggiava negli ultimi mesi. Loro, proprio i nati di vent’anni fa, mi hanno aperto gli occhi su un malcontento che si stava reprimendo da troppo tempo e che pericolosamente sarebbe esploso. Diversi e di varia natura sono stati i segnali, una sorta di cronaca di una protesta annunciata.

Il 7 aprile la polizia tenta di disperdere la folla riunitasi davanti allo storico cinema Emek, per il quale dal 2010 era stata annunciata la demolizione, utilizzando cannoni ad acque e gas lacrimogeni. La protesta, proseguita nel corso degli ultimi tre anni aveva coinvolto cittadini e persone del mondo del cinema. Costruito negli anni ‘20 in stile rococò e considerato come il “primo” spazio cinematografico della città, il cinema Emek sarebbe stato l’ennesima vittima della speculazione edilizia, una golosa tentazione per la sua posizione strategica in piena Istiklal, la lunga via pedonale più ambita dagli esercizi commerciali.

[box type=”info”] GUARDA L’INFOGRAFICA DEI PRIMI DIECI GIORNI DI MANIFESTAZIONI[/box]

Ricordo le parole di un mio studente di 22 anni: nato e cresciuto a Istanbul, per lui quella demolizione era sinonimo di una distruzione identitaria “Ci stanno distruggendo il passato; quando avranno distrutto ciò che resta della nostra storia, non resterà più niente. E questo è solo l’inizio”. Una studentessa di Beni Culturali, che con orgoglio scopre il braccio mostrando il tatuaggio della firma di Ataturk , a proposito, mi fece il resoconto della triste storia dei teatri nell’ultimo decennio di gestione Akp, dei finanziamenti negati ai teatri statali, della censura e dell’autocensura che i direttori subiscono e attuano per permettersi di continuare a fare il loro lavoro. Quella conversazione fu per me preziosa, ma fu significativa soprattutto per i miei ciceroni perché la loro indignazione era piena di parola. Non erano silenti di fronte a un mondo che non amavano, ma, anzi, cercavano uno spazio e un’occasione per farsi sentire.

Dopo qualche settimana, giunge l’appuntamento del 1° maggio. È bene sapere che le celebrazioni per la Festa dei Lavoratori furono bandite in Piazza Taksim dal 1977: in quell’anno, a seguito di tre spari di arma da fuoco in aria, la reazione della polizia e la tensione tra la folla concentrata nella piazza degenerò, causando la morte di 36 persone. Dopo 33 anni, nel 2010 il governo riaprì la piazza alle celebrazioni, ma il 2013 è stato un anno problematico. Infatti, Piazza Taksim (ancora al centro di polemiche) ha iniziato a subire importanti lavori urbanistici a partire dall’anno scorso: la realizzazione di un tunnel sotterraneo per veicolare il traffico e per rendere la piazza totalmente pedonale, ha generato una voragine di centinaia di metri. L’amministrazione comunale, adducendo problemi di sicurezza, decise di vietare le manifestazioni a Taksim. Il segretario del CHP, Ercan Karakas, il Partito repubblicano del Popolo, principale partito di opposizione, accusò il Primo Ministro Erdogan di non aver gestito con tatto la situazione: quel divieto era stato comunicato in malo modo, lasciando trasparire ragioni di secondo piano. Alcune centinaia di manifestanti tentarono di raggiungere comunque il centro città, che era stato bloccato dalle forze di polizia. Quella giornata si trasformò in una guerriglia. I mezzi utilizzati dalla polizia durante gli scontri, avvenuti per lo più a Besiktas, furono del tutto simili a quelli utilizzati nelle ultime settimane: cannoni ad acqua e gas. Qualche giorno dopo, davanti alla sede del CHP a Besiktas apparve un muro bianco, formato da pannelli: i cittadini avevano scritto con forza quello che pensavano.  Si leggevano tante espressioni di rabbia e di indignazione, ma il messaggio che più volte compariva era “Atam seni ozledim”: “Ataturk (ovvero padre dei turchi) mi manchi”.  Parlando con i miei studenti, capisco che tra i giovani, sfiduciati nel quadro politico contemporaneo e schiacciati dall’atmosfera di pesantezza, si raccolgono sempre più intorno alla figura di Ataturk, fondatore della Repubblica Turca nel 1923, un uomo che ha desiderato la nascita di una nazione dal volto più benevolo di quella in cui si trovano a vivere oggi, secondo la loro prospettiva.

Nelle settimane successive, poco prima della protesta a Gezi Park, giunse notizia del giro di vite del governo in materia di alcolici. Alcune restrizioni sul consumo e la distribuzione dell’alcol sono state proposte in Parlamento allo scopo di migliorare le condizioni di salute della popolazione. Una proposta, tuttavia, che alle orecchie dei sostenitori della laica Turchia repubblica suona come richiamo forzato a una morale e a costumi che al Premier sarebbero più graditi.

La tensione tra l’opinione pubblica era ormai palpabile.

Il 27 maggio gli ecologisti accampati nel Parco Gezi vengono brutalmente attaccati dalle forze dell’ordine. In poche ore persone da ogni parte della città iniziano ad accorrere in loro sostegno. Il tam tam dei social network è fondamentale.  Le immagini corrono veloci tra facebook e twitter. L’uso della forza con gas al peperoncino e lacrimogeni s’intensifica. Testimoni raccontano di essere scappati dalla piazza verso la via Istiklal, di essersi rifugiati dentro alcuni bar o negozi, e di essere stati inseguiti dalla polizia. I gas venivano sparati anche dentro i luoghi scelti come riparo. Il passaparola, ancora, fa accorrere avvocati, tanti medici praticanti o studenti di medicina per prestare soccorso e dare sostegno. L’infermeria del Liceo Italiano di Beyoglu aprì le proprie porte; s’improvvisò un dispensario in una moschea. I gas venivano sparati in forma di capsula ad altezza uomo, colpendo le persone nell’impatto, prima di fuoriuscire dall’involucro. In quella giornata nessun notiziario televisivo riportò la cronaca degli eventi. Se si sia trattata di autocensura o di censura, quello è ancora da discutere. I cittadini vennero a conoscenza di ciò che stava accadendo nel centro di Istanbul tramite i network sociali e attraverso l’unico canale televisivo indipedente, Halk TV.

Dopo dodici giorni di resistenza, ormai, le persone non cessano di farsi sentire; ogni sera verso le 9 inizia un richiamo a suon di pentole e marmitte dalle finestre e dai balconi delle case, al grido di “Tayyip Istifa” , ovvero “Tayyip, dimettiti”. Non tutti possono permettersi di andare a Taksim, quindi sostengono la causa dai propri quartieri. E in certi quartieri questa occasione ha fatto accendere gli animi di cittadini che da anni tentano di farsi ascoltare: sono i quartieri marginali, quelli in cui si raccolgono, per effetto richiamo gli immigrati interni dall’Anatolia, quartieri da cui gli istanbulioti doc cercano di tenersi alla larga, perché segnalano il limite tra due mondi tragicamente lontani. Quartieri in cui i motivi per protestare sono davvero tanti: come il diritto alla casa, per esempio. Nurtepe, la collina della luce, è stata scenario di guerriglia urbana qualche anno fa: le case costruite decenni fa dagli immigrati interni provenienti dall’Anatolia non si addicono più a un quartiere che, secondo i piani della municipalità, dovrebbe diventare una nuova e appetibile area residenziale di livello medio-alto. La questione della rivoluzione urbanistica di questa città coinvolge vari e differenti strati sociali: spesso attacca l’identità storica, altre volte l’ecologia, altre ancora il vitale diritto alla casa.

Qualche giorno fa ho rivisto i miei studenti: era il giorno del loro esame finale. Alcuni erano rimasti a Taksim, altri erano rimasti a casa a curare amici rimasti feriti, altri ancora, quelli che erano lì davanti a me, erano distrutti dalle poche ore di sonno. Uno di loro mi ha consegnato il foglio d’esame dopo soli venti minuti. Leggo le ultime righe a fondo pagina: “mi dispiace, ma adesso devo andare a Taksim, perché devo essere uno di loro”.  Saranno forse lontani dalle problematiche dei quartieri a rischio ai margini della loro città, ma senza dubbio consapevoli, adesso, di avere il diritto e il dovere di lottare per vivere in un mondo migliore.



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