Peperoni: American History X

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Sono passati almeno 10 anni dallʼuscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Dovendo rinunciare alla sua aspirazione Jedi per cause di Forza maggiore, si laurea in cinematografia tra Londra e New York, con la speranza di potersi definire quanto prima una scrittrice. Già redattrice di cinema per altre testate online indipendenti, non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

Il razzismo è un concetto molto particolare. È ambivalente sotto molti punti di vista: nasce con la società e al contempo la distrugge; crea un forte senso dʼappartenenza e fratellanza da un lato e uno di estremo isolamento e odio dallʼaltro; si diffonde demagogicamente, ma punta allʼelitarismo; chi lo è, non si considera tale; segue logiche schiaccianti, ma si fonda sullʼignoranza. Non ultimo, è un moto dʼintolleranza che, molto spesso, scatena nei suoi confronti quella stessa intolleranza per cui viene condannato. Certo, sono due tipi dʼintolleranza diversi, ma il concetto alla base è lo stesso.

La settimana scorsa sono successi due episodi di “ordinario” razzismo. Il primo è quello che riguarda Calderoli e la sua “battuta” rivolta al Ministro Kyenge. Fortunatamente, lʼottusità del primo è stata prontamente sgamata dalla compostezza della seconda e, per fortuna, lʼatto si è “limitato” allʼennesima e becera dimostrazione di pochezza che dilaga in molte fazioni politiche italiane, tra cui, appunto, la Lega. Purtroppo, il razzismo è una diretta conseguenza di bassa cultura, chiusura mentale e, nel caso di soggetti obiettivamente intelligenti, una manifestazione di stupidità nellʼuso delle proprie qualità intellettive. Un insulto a se stessi, insomma. Il problema è che, però, sono insulti che scatenano poi una serie di reazioni a catena, alimentando, giustificando e rappresentando atti e manifestazioni ben più gravi a livello popolare e quotidiano. Atti di violenza fisica e di morte. Nei casi più fortunati si possono imputare chiaramente come manifestazioni di razzismo. Ma molto più spesso accade che il percorso non sia così logico e ovvio, per quanto lampante, e che, anzi, venga accolto sotto lʼala della tolleranza nei confronti dellʼintolleranza o, ancor peggio, come manifestazione di razzismo auto-inflitto, oppure come ostinazione a volerci far entrare il razzismo anche quando non cʼentra – “Ma era solo una battuta”, Calderoli dixit.

[sz-youtube url=”https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=B8YuCxEdNhc” /]Un esempio di questi ultimi casi “più gravi” è lʼomicidio, negli Stati Uniti nel 2012, del diciassettenne afroamericano Trayvon Martin da parte del poliziotto bianco di origine ispanica George Zimmerman, per ipotetiche ragioni di legittima difesa che però non sono mai state realmente dimostrate, dal momento che la vittima non aveva con sé nessun tipo di arma contundente. Proprio la scorsa settimana, Zimmerman è stato assolto, grazie a un verdetto che lo dichiara innocente, in quanto ha agito, appunto, per legittima difesa e seguendo i compiti che il suo mestiere gli impartisce. Tutta questa faccenda ha scatenato, dal momento dellʼomicidio e oggi più che mai, proteste in tutto il mondo ed è diventata emblema della lotta allʼoppressione e al razzismo.

Eppure è una protesta delicata e molto controversa. Il fatto che Zimmermann sia stato assolto permette a chi è dalla sua parte di sostenere che essa sia una manifestazione di razzismo inverso. Un poʼ come a dire, semplificando, “si vuole che Martin sia innocente solo perché è nero, perché se fosse stato bianco non sarebbe scoppiato tutto questo casotto”.

Non sono qui a dare il mio parere sulla faccenda, anche se credo sia piuttosto ovvio. Preferisco approfondire la mia reazione generale a tutta questa questione del razzismo, la stessa che ebbi quando vidi American History X, sensazionale e impeccabile pellicola datata 1998 e firmata Tony Kaye. E cioè: a forza di procedere occhio per occhio, il mondo rimarrà cieco. Che poi è il messaggio del film.

American History X fa qualcosa di difficilissimo, eppure perfettamente riuscito: ci pone dalla parte del razzismo. Ci dà le spiegazioni (logiche) di questo razzismo. Ce lo spiega quasi come si potrebbe spiegare una ricetta di cucina. E tutta questa lucidità, mantenuta durante tutto il film, è quello che, alla fine, fa rendere conto di un messaggio molto difficile da accettare, quanto necessario: per quanto il razzismo sia un concetto ripugnante e da arginare e per quanto la prima reazione sia sempre quella di sopprimerlo, non è a suon dʼintolleranza e emarginazione che lo si può estirpare, anzi, tutto il contrario. Per poter combattere il razzismo, bisogna prima starci dentro, ma non come vittime, come carnefici. Bisogna sforzarsi di ascoltarlo, comprenderlo e farlo proprio. E capire che il problema è radicato in qualcosa di ben più profondo e umano di quello che si pensa. Ovvero, il razzismo nasce dal razzismo stesso, come un circolo vizioso: le persone si sentono oppresse e emarginate. Hanno bisogni e frustrazioni a cui nessuno dà voce. E allora, fomentate da unʼesasperazione e una pretesa di giustizia inimmaginabili, si ribellano contro lʼoppressore, diventandolo poi a loro volta, per assicurarsi di non ridiventare vittime. Chi è razzista è stato, in qualche modo e da qualche parte, prima vittima di quello stesso razzismo. Molto spesso lʼoppressione più grande è quella culturale, cioè non permettere unʼequa offerta dʼidee e concetti, ma inculcarne uno sin da subito, limitando le possibilità di scelta dellʼindividuo, in maniera più o meno violenta. La chiusura mentale è sinonimo di emarginazione.

So che a dirla così può fare paura, perché sembra quasi un voler lasciar spazio, un voler giustificare e ammettere una pratica così becera. Ma bisogna capire che non è tappando la bocca, o scagliandosi contro qualcuno che lo si azzittirà. Per dirla alla Neruda, potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera. Il cambiamento dovrebbe essere ben più profondo, decisamente meno rumoroso e fortemente più pragmatico. Essere nel giusto non può giustificare spietatezza e intolleranza nei confronti dello sbagliato, o si finirebbe per passare dalla parte del torto. Basterebbe un poʼ dʼeducazione, un minimo dʼascolto, cercare di comprendere il vero messaggio, invece che prendersela direttamente con lʼambasciatore, che poi, molto spesso, purtroppo, neanche si rende conto di quello che dice. Ascoltare non significa essere dʼaccordo, significa essere aperti allʼaltro. Ascoltare, nel senso vero della parola, cioè sentire dentro e empatizzare con ciò che ci viene detto e raccontato, mettersi nei panni altrui, è lʼatto dʼamore più grande che cʼè. E penso sia chiaro a tutti che non è con lʼodio che si combatte lʼodio. Insomma, non è con lʼintolleranza che si combatte lʼintolleranza e non è dicendo a uno stupido che è stupido che lo si farà diventare più intelligente, specialmente se quello non ci si sente.

Ps. Sempre sulla stessa scia, consiglio la visione del capolavoro inglese This Is England di Shane Meadows.



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