Il teorema di Nefertiti

A Parigi, presso l’Istitut du Monde Arabe, fino all’8 settembre, una mostra sull’arte tra Medio Oriente e resto del mondo

di Christian Elia, da Parigi

Un orientalismo strabico, almeno quanto l’eurocentrismo, della cultura occidentale non ha mai messo sullo stesso piano lo sguardo della Monna Lisa e quello della regina Nefertiti. I contesti, è noto, sono profondamente differenti. L’enigma, la profondità, sono le stesse nel dipinto custodito al Louvre e nel busto in mostra a Berlino.

In questo parallelismo obliquo si inserisce Parigi e l’Istitut du Monde Arabe. La magnifica struttura nella capitale francese dell’architetto Jean Nouvel, che ospita, fino all’8 settembre prossimo, la mostra: Il teorema di Nefertiti. L’itinerario dell’opera d’arte e la creazione delle icone. L’allestimento, curato da Sam Bardaouil e Till Fellrath, arriva a Parigi dopo un primo passaggio al Mathaf (Musée d’Art moderne di Doha, in Qatar), pone il visitatore di fronte alle domande che si sono posti gli organizzatori.

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Cosa rende un’opera d’arte tale? Qual’è il meccanismo che porta all’esposizione in musei ed istituzioni culturali? Qual’è il meccanismo di fabbricazione delle icone e in che misura influenza la nostra idea di passato? Le risposte, come sempre, non sono preconfezionate. Ciascuno è libero di elaborare le sue attraverso i tre itinerari tematici che compongono la mostra:

  •          l’itinerario creativo che porta alla nascita dell’opera d’arte
  •          il ruolo del museo nell’operazione di decontestualizzazione e ricontestualizzazione dei manufatti
  •          il pubblico, sempre meno passivo e più chiamato in causa nei recenti processi di fruizione

L’approccio è ardito. Se da un lato risulta infranto il pregiudizio di un’arte che è ritenuta meno protagonista solo da coloro che non la conoscono, da un altro lato è evidente l’affondo polemico – culturale dei curatori rispetto a come grandi artisti occidentali si sono ispirati a un mondo raccontato sempre poco e male.

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Mentre i corridoi dell’esposizione si snodano ombrosi e silenti, ecco apparire in tutta la sua forza la consapevolezza del rimosso, del non raccontato. Nel 1939, al Cairo, operava un gruppo di fotografi surrealisti, chiamato Art e Libertè, lo scultore Mahmoud Moukhtar, il pittore George Hanna Sabbagh. I legami con la Parigi dell’epoca sono forti, vivi, ma non testimoniati dalla vulgata comune sull’arte e la cultura.

Nefertiti diventa un simbolo, l’idea che si fa arte. Anche in tempi recenti, come lo splendido video di Ala Younis che dal racconto di una macchina da cucire prodotta nell’Egitto autarchico di Nasser sarebbe dovuta diventare simbolo di emancipazione delle donne e di modernità nel paese. Un altro lavoro delizioso è quello di Maha Maamoun e Taha Belal, sull’icona delle piramidi nel cinema egiziano, come il fotografo Iman Issa che posiziona la stessa Nefertiti in contesto contemporaneo.

La mostra è una delizia, uno smarrimento. Si perdono le coordinate dell’ovvio, le rotte del consolidato, per esplorare territori di contaminazione, di storia dell’arte e di scambio perenne e antico di idee e simboli, icone e immagini. Uno scambio dove nessun approccio è prevalente, ma tutte le idee hanno pari diritto di cittadinanza e di scambio alla pari.



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