Peperoni: Dead Freedom Society

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Sono passati almeno 10 anni dallʼuscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Dovendo rinunciare alla sua aspirazione Jedi per cause di Forza maggiore, si laurea in cinematografia tra Londra e New York, con la speranza di potersi definire quanto prima una scrittrice. Già redattrice di cinema per altre testate online indipendenti, non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

21 agosto 2013. Dall’Italia alla Russia, l’omofobia continua incessantemente a far parlare di sé. Eppure io non riesco a chiamarla “solamente” omofobia. Non credo che possa bastare. Non credo che ci si possa fermare a questo. Sarebbe riduttivo – il che è tutto dire. In qualche modo, significherebbe alimentare quella stessa manifestazione di emarginazione che si è appena compiuta. L’emarginazione della causa primaria, più profonda e radicata, che unisce la morte di quel quattordicenne alle repressioni in Russia, ma anche a quelle di piazza Taksim, alla questione palestinese, agli scontri al Cairo, alla Siria e a tantissime altre condizioni di oppressione che costantemente avvengono in tutto il mondo. A ognuno di questi eventi vengono di solito attribuite motivazioni precise, dinamiche socio-politico-economiche che tendono a descriverli come eventi isolati, a sé stanti, non solo rispetto al resto del mondo, ma anche rispetto al resto della storia, rendendo difficile agli esterni empatizzare e rapportarsi profondamente con tali questioni e generando, in maniera più o meno marcata, indifferenza.

L’omofobia, la xenofobia, il razzismo, l’integralismo, l’oppressione, l’emarginazione sono tutte espressioni che s’assomigliano e che, a loro volta, sono solo un altro modo per dire “mancanza”. Mancanza, fondamentalmente, di libertà.

Credo che il vero motivo di tutti questi fatti che continuano a dilaniare il mondo sia quella crescente incapacità dell’uomo di capire che la propria libertà finisce laddove comincia quella altrui. Che avere delle opinioni, delle preferenze, degli ideali è assolutamente non solo giusto, ma necessario, quasi obbligatorio, ma che esse non possono né devono essere imposte. Non è una questione d’amore, né di altruismo, o generosità, o attenzione. Ben vengano tutte le precedenti, ma che, prima di tutto, venga il rispetto per la libertà. “Non l’amore, non i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia, datemi la verità!”, diceva Henry David Thoreau. Il concetto è più o meno lo stesso. Di verità ognuno sceglie la propria, liberamente. Non c’è nulla di più vero della libertà di scelta, nulla di più autentico, nulla che renda l’uomo più dignitoso. Scegliere e lasciar scegliere. Per vivere e lasciar vivere.

E si potrà non essere d’accordo con gli altri, ma, fin tanto che la loro idea non limiti o violi le idee altrui, allora sarebbe bene difendere fino alla morte la libertà di averla e esprimerla, per dirla alla Voltaire.

Si potrebbe pensare che sono pensieri banali, considerazioni ovvie, chiaramente trite e ritrite. E mi sta bene, perché in effetti non sono la prima a dire cose del genere, né purtroppo sarò l’ultima. Ma pretendo che non si consideri banale e ovvia la stupidità dell’uomo che, nonostante la reiterazione dei suddetti concetti, stenta ancora a comprenderli veramente, nonostante li capisca e li giudichi persino, appunto, banali. E questa condizione di stupidità è più tragica di quanto si possa pensare. Perché tutta questa storia dei limiti e delle libertà l’uomo ce l’ha già ben radicata dentro di sé, anzi, già la mette in pratica, solo che nel verso sbagliato. Il che è davvero paradossale. Ci prendiamo un sacco di libertà e mettiamo tanti limiti al resto del mondo, quando basterebbe invertire la marcia, fare il contrario, e tutto splenderebbe di una luce diversa. L’umanità non è incapace di amare, o di ascoltare, o di accettare, o chiedere scusa, tantomeno perdonare, solo che lo fa in maniera troppo autoreferenziale, caratterizzata da un ego fin troppo invasivo e invadente, avido, individualista. Disonesto. È paradossale che ci si ami così tanto e che tutto poi sia così intriso d’odio. Che non ci si ponga mai alcun limite e che invece il Mondo sia pieno di barriere. Che ci si ascolti così tanto e che poi si muoia nell’indifferenza.

Saliamo sulle cattedre per sentirci più grandi e imponenti degli altri, per sovrastarli, non per ricordarci che esistono altri punti di vista, differenti dal nostro, ma altrettanto validi, o comunque legittimi. Cosa c’entrano le cattedre?

[sz-youtube url=”http://www.youtube.com/watch?v=7FoUlQR38kY” /]Non credo che, dal 1989 in poi, esista professore di letteratura inglese, o letteratura occidentale in generale, che non faccia guardare almeno una volta ai suoi alunni Dead Poets Society, storpiato in italiano L’Attimo Fuggente, diretto da Peter Weir, con un brillante Robin Williams e dei giovanissimi Robert Sean Leonard e Ethan Hawke. E sicuramente c’entra l’intenzione di dimostrare quanto la letteratura sia importante e ricca d’insegnamenti di vita, ma a me piace pensare che il vero fine di tale visione scolastica sia un altro.

L’Attimo Fuggente è una pellicola che parla, fondamentalmente, di libertà. E non una libertà qualsiasi. Bensì la libertà più ovvia e al contempo più negata, quella di essere se stessi. Quella di risuonare il proprio barbarico yawp sopra i tetti del mondo. Quella che ci permetterà, un giorno, di sentire i piedi coperti, di non pensare che ciò che abbiamo dentro è inutile e imbarazzante e di non dimenticarcelo mai.

Il finale è forse tra i più celebri e desolanti. E Keating non è altro che quella motivazione precisa, quella ragione isolata, come l’omofobia, o come il razzismo, o come tutti i suddetti, che viene individuata per mettere a tacere la causa principale, quell’incapacità di vivere e lasciar vivere, di scegliere e lasciar scegliere, di limitare nella maniera giusta, di saper donare la verità, di salire sulle cattedre per le giuste ragioni.

Mi piacerebbe queste parole diventassero banali una volta per tutte. Sarebbe la vittoria più grande. Il premio: un barbarico YAWP.



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