La fine del sogno globale

[author] [author_image timthumb=’on’]https://fbcdn-sphotos-e-a.akamaihd.net/hphotos-ak-prn1/30586_117755678246365_6400426_n.jpg[/author_image] [author_info]Alfredo Somoza è presidente di Icei, direttore di dialoghi.info e collaboratore per Esteri, Radio popolare. www.alfredosomoza.com[/author_info] [/author]

 

24 agosto 2013. Quando, il primo gennaio 1995, a Ginevra nasceva ufficialmente l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), il mondo era nel mezzo del decennio d’oro dell’espansione delle frontiere economiche globali. Finita la Guerra Fredda, smantellato il blocco sovietico, gli Stati Uniti guidati da Bill Clinton avevano trovato una nuova centralità. L’industria pesante e le lavorazioni ad alta densità di manodopera si spostavano dai Paesi di vecchia industrializzazione a quelli “emergenti”, e soprattutto in Cina.

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La narrazione ufficiale dell’epoca raccontava che l’abbattimento di ogni barriera e ostacolo al commercio mondiale avrebbe garantito sviluppo e benessere per tutti. Le fabbriche che chiudevano in Occidente riaprivano in Oriente, ma con livelli di sfruttamento dei lavoratori simili a quelli della Rivoluzione Industriale dell’800. Eppure le critiche erano poche, si era certi che sarebbe andata bene comunque.

L’OMC, in inglese WTO, aveva il compito di “dirigere il transito”, e cioè di operare per abolire o ridurre le barriere tariffarie al commercio internazionale, non solo per i beni commerciali ma anche per i servizi e le proprietà intellettuali. In sostanza, il WTO doveva “mettere il turbo” agli scambi mondiali, lavorando per piegare le resistenze degli Stati nazionali all’apertura dei mercati, e fungendo da tribunale nelle dispute sul protezionismo, sul dumping, sui trattati internazionali. Nel pensiero unico dell’epoca, la fede nel dogma della globalizzazione liberale dell’economia era così forte che addirittura si scelse il sistema del consenso: un metodo che, pur non prevedendo l’esplicita unanimità delle decisioni, richiede che nessun Paese membro avanzi obiezioni ufficiali. Insomma, si era convinti che alla fine si sarebbe trovato, appunto, un consenso.

Come in tutti gli organismi internazionali, la direzione del WTO è stata monopolizzata dagli Stati Uniti e dai Paesi dell’Europa occidentale. Nei primi anni, però, il WTO si è occupato  “misteriosamente” solo delle barriere doganali e dei sussidi all’economia dei Paesi emergenti e poveri, senza aggredire per nulla i più grandi sovvenzionatori e protettori dei rispettivi mercati interni, che sono gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione Europea.

Il momento di frattura si è verificato a Cancùn, Messico, nel settembre 2003, quando si è tenuto il vertice che doveva dare il via al “Doha Round”, il meganegoziato su agricoltura e servizi. Nella calura dello Yucatán, per la prima volta si è materializzato un blocco di Paesi abbastanza forte da opporsi alle vecchie potenze, e capace di creare consenso tra gli Stati più poveri: Cina, India e Brasile sono diventati la testa di una fronda di Paesi africani, asiatici e latinoamericani che, per la prima volta, hanno alzato la voce in un evento di questo calibro. Rispedendo al mittente la “proposta” di aprire le loro economie a merci e servizi stranieri senza reciprocità.

È cominciato così a Cancùn il declino del WTO, aggravato poi dalla crisi mondiale che ha molto ridimensionato diversi principi ritenuti assoluti e indiscutibili solo pochi anni prima. Dagli USA che salvano il sistema bancario e la Chrysler, incentivando il ritorno in patria delle imprese che avevano delocalizzato in Asia, all’Europa che discute di misure di stimolo all’economia e rimanda la fine dei sussidi ai diversi settori produttivi.

Oggi il WTO, da regista della globalizzazione, è diventato quasi solo un tribunale per le dispute commerciali. Un ruolo assai modesto e un senso politico sfuocato. I Paesi membri sono molto impegnati a costruire nuove alleanze economiche. Le zone di libero commercio in discussione nell’area del Pacifico e tra gli USA e l’Europa, sommate a quelle già esistenti a livello regionale e a quelle tra i Paesi BRICS, ci consegnano un mondo sempre più interconnesso: ma non globalmente, bensì regionalmente. La Cina è l’altra potenza in grado di aggregare “soci” per garantirsi mercati mondiali. Il sogno degli anni ’90, di un mondo unipolare guidato dagli USA, dai loro partner e dai loro grandi gruppi economici è affondato. E il WTO è ormai solo un naufrago.



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