E la chiamano ripresa

Visto dalla galassia della finanza, lo stivale italiano assomiglia in maniera impressionante a un vecchio scarpone. Le parti migliori, le rifiniture di pregio sono state strappate via. 

di Nicola Sessa, da Berlino

Il grande sconfitto è il capitalismo italiano, quello che ha fatto grande l’Italia nel dopoguerra, quello dei capitani d’industria ricchi di fascino e di carisma. Quello giusto, utopico, di un uomo immenso come Adriano Olivetti; quello pragmatico, spietato, ma ammaliante dell’avvocato Agnelli. Gli spagnoli di Telefonica, rilevando il pacchetto di maggioranza di Telco, la cassaforte di Telecom, si portano via anche il quarto gestore di telefonia italiana. Nelle stesse ore della notizia dell’acquisizione Telecom, arriva anche la notizia che AirFrance e Klm sono pronti a salire nella quota di controllo Alitalia: ma questa era una storia già preannunciata, la compagnia di bandiera è morta già cinque anni fa.

Telecom, colosso e caposaldo dell’economia italiana, ha rappresentato un piatto prelibato e abbondante dove si sono serviti, fino a scoppiare, politici, manager con stipendi da sultani, gruppi di pressione, apparati. Una grande scrofa da spolpare. E adesso, a pancia piena, nessuno muove un dito per impedire un acquisto a prezzo di saldo pagato con poche centinaia di milioni di euro. Meno del 25 percento del valore reale.

E la chiamano ripresa. Napolitano, Letta, Saccomanni. Vivono in un’altra galassia rispetto a quella della finanza. Come fa a ripartire una macchina senza il motore? Un esercito di compratori – francesi, spagnoli, indiani, russi, tailandesi – stanno facendo a pezzi il relitto italiano, comprando gioielli e parti preziose a prezzi stracciati, ma nessuno sembra accorgersene.

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È il caso di Italtech, presa dagli indiani per due milioni di euro, della Parmalat o della Perugina; dei marchi di moda Gucci, Loro Piana e Bulgari; dell’olio extravergine di oliva finito – per quanto riguarda i marchi di larga distribuzione – nelle mani degli spagnoli o dei sudamericani: Bertolli, Sasso, Carapelli, non hanno nulla più di italiano, neanche le olive visto che sono tutti composti di “miscele di olii comunitari”.

Il capitalismo italiano è stato distorto, piegato come una lamiera, attaccato come un batterio mortale dalla politica. Lo ha raccontato più che esaustivamente l’inchiesta Mani Pulite degli anni ’90, il suicidio di molti imprenditori violentati da richieste di tangenti sempre più esose. Il tocco mortale, il respiro asfissiante e putrido di una classe politica che ha ucciso una delle esperienze più importanti del nostro paese. Purtroppo, quella classica politica è morta solo nel fisico ma non nell’ideale sporco che è riuscita a tramandare ai figli che agiscono nella seconda repubblica. Il marcio ha continuato a erodere i legamenti, le giunture e articolazioni di un paese il cui solo nome valeva oro: il made in Italy è stato il simbolo del bello, del prezioso, del fatto bene e con cura. Con amore.

Finita l’epoca della A.S. Roma, tradizionalmente legata ai romani de’ Roma, marchiata oggi a stelle e strisce, anche l’Inter dei Moratti, di Angelo prima e di Massimo poi, finisce nelle mani di un tycoon indonesiano. Seppure ciò non tocca direttamente il mondo del lavoro, di sicuro scalfisce il patrimonio culturale-sportivo di un altro universo, quello del calcio, che per decenni ha espresso l’eccellenza a livello mondiale.

Il rapporto europeo sulla competitività descrive, senza mezzi termini, una de-industrializzazione del nostro Paese, che non ha nulla a che vedere con la “decrescita felice”, la décroissance, predicata da Serge Latouche. Bensì un fosco scenario, cupo, che risucchia le energie e le speranze del più coraggioso dei capitani d’industria. Sul fronte produttività del lavoro industriale, massacrato a livello fiscale, l’Italia è addirittura scavalcata dalla Cenerentola d’Europa, la Grecia. Eppure, la chiamano ripresa.

Ci sono i cosiddetti delocalizzatori, infatti, quegli imprenditori che da un giorno all’altro chiudono le fabbriche in Italia e le riaprono l’indomani in Polonia, in Serbia, in Romania o altrove. Migliaia di lavoratori abbandonati, il più delle volte con una copertura minima e senza prospettive. La lista è lunghissima. Un comportamento riprovevole, da caini, vigliacchi. Si pensa: quel tale imprenditore va via per realizzare maggior profitto, per sfruttare il basso costo della manodopera a scapito della qualità. Mai avrei pensato di dover rivedere le mie posizioni personali. Perché non è sempre così, anzi, il più delle volte le responsabilità vanno ricercate negli apparati burocratici di uno Stato malato, di un Sistema-Paese inesistente dove rimanere per investire costituisce un atto eroico alla Francesco Baracca, o una pazzia. Oggi, un amico mi ha raccontato una storia: una grande azienda italiana ha ricevuto una comunicazione dall’Agenzia delle Dogane in cui l’amministrazione si scusava per non poter restituire all’azienda i 300mila euro erroneamente pagati: non ci sono le risorse. Questo stesso amico mi ha anche spiegato che, in caso inverso, se erroneamente, cioè, fosse stato pagato di meno, la stessa amministrazione avrebbe richiesto il pagamento entro dieci giorni – non importa se si fosse trattato di mille euro o di un milione di euro – alla fine dei quali sarebbe partita immediatamente la cartella esattoriale. Per inciso, detta azienda, ha dovuto mettere in mobilità i lavoratori di un intero stabilimento.

È molto più difficile oggi criticare chi decide di lasciare il paese e trasferire le attività all’estero. Il capitalismo italiano è finito nelle grinfie del malcostume, di arrivisti e faccendieri al servizio di fameliche cavallette. Il più delle volte – ma non è il caso della Fiat di Marchionne, ovviamente – quegli imprenditori sono costretti ad andare via perché hanno una pistola puntata alla tempia. E a quel punto che vadano, con tutte le benedizioni, ché l’Italia non è più terra per fare impresa.



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