Maker Faire

La sagra dell’innovazione, una sorta di “Nerd Pride”, celebrazione dell’orgoglio secchione, che per la prima volta ha varcato i confini degli Stati Uniti per sbarcare a Roma

di Carlo Ruggiero

“Essere i migliori è solo l’inizio”. Lo dice trascinando i piedi sotto le alte volte del Palazzo dei Congressi di Roma, mentre passa lento da uno stand all’altro. E’ un tipo piuttosto alto e corpulento, con una bella faccia simpatica e un forte accento emiliano. “Essere i migliori è solo l’inizio”, ripete, avvicinandosi a un robot a grandezza naturale che risponde ai comandi vocali, e poi ancora davanti alla piccola stampante 3d portatile che sta tutta dentro a una valigetta scura.

A un certo punto, si ferma e si volta verso una macchina laser che taglia il cuoio e sforna mocassini pronti all’uso, fa una mezza piroetta e prende ad esaminare un po’ perplesso la bella signora francese che lavora fogli di silicone per creare abiti su misura. Dopo torna al suo stand, quello che ospita un enorme macchinario che stampa case di argilla, con l’obiettivo di eliminare le baraccopoli del sud del mondo utilizzando materiale recuperato sul posto.

FOTO DI MATTEO DI GIOVANNI

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Vagabondando tra le colonne di marmo di questo palazzone dell’Eur, in realtà, si avvistano anche congegni più bizzarri. Se non stai attento rischi di calpestare un ragno meccanico che attraversa veloce i corridoi, o di inciampare in un carrello della spesa automatico che ti segue dovunque tu vada, oppure di sbattere contro un robot alto oltre due metri e costruito con rottami di motori a scoppio che suona il basso elettrico, con tanto di headbanging.

“Essere i migliori è solo l’inizio”. Lo dice prima che arrivino migliaia di persone, prima che i saloni si riempiano fino a scoppiare. E, a cose fatte, potrebbe anche diventare il motto della fiera, la prima Maker Faire europea, la sagra continentale dell’innovazione. Una sorta di “Nerd Pride”, celebrazione dell’orgoglio secchione, che per la prima volta ha varcato i confini degli Stati Uniti per sbarcare proprio a Roma. Lì dentro, però, i visitatori non hanno trovato solo occhiali spessi, musi infestati dall’acne giovanile e magliette sformate. Lì c’era gente di ogni tipo, di ogni nazionalità e di ogni età. Ad accomunarli un sogno, e un pizzico abbondante di follia. “Hungry” e “foolish”, diceva qualcuno.

Ma se guardavi bene nei loro occhi, lo vedevi che era gente che prova a scommettere sul futuro, spesso a spese proprie, senza paura di metterci la faccia. Per l’occasione, in oltre 200 hanno tirato fuori il proprio sogno dal garage e l’hanno portato lì, per mostrarlo a tutti. E forse si tratta di un gesto rivoluzionario. Chissà se gli oltre 35mila romani che hanno affollato la fiera il cinque e il sei ottobre scorsi se ne sono accorti per davvero. Forse per molti di loro quello non è stato nient’altro che un circo digitale, una sorta di enorme luna park meccanizzato che arriva, passa e se ne va. Sicuramente lo era per i bambini, a centinaia, che scorrazzavano veloci con gli occhi sgranati e una raffica di domande pronta ad esplodere da un momento all’altro. Eppure, nonostante l’informazione italiana si sia concentrata prevalentemente sugli aspetti più folkloristici di un evento obiettivamente singolare, quella che si respirava alla Maker Faire era una sensazione nuova.

Non solo perché innovative erano le invenzioni presentate. E non solo perché l’età media degli espositori, i cosiddetti “makers”, era piuttosto bassa, oppure perché la tecnologia che stava dietro ogni singolo arnese elettronico spesso non era alla portata delle conoscenze informatiche dell’italiano medio. Ma soprattutto perché al centro dell’attenzione, almeno per una volta, non ci sono stati i personaggi noti, i vip del settore, i baroni di turno. Al centro di tutto c’erano le idee. E soltanto quelle, chiunque fosse a portarle. Foss’anche un ragazzino scapigliato che aveva deciso di costruire una stampante 3d nel garage sotto casa. E poi c’era la sistematica condivisione delle conoscenze, la cooperazione, il tentativo di incidere attraverso il proprio talento.

I vecchi palazzi romani, con i loro fiacchi bizantinismi e le loro finestre chiuse, erano rimasti fuori, così come i paludosi cerimoniali degli incontri istituzionali. Certo, erano lì, a pochi chilometri, eppure li sentivi lontani mille miglia. Dentro invece c’era qualcosa di diverso, e anche un po’ destabilizzante. C’erano persone che ti davano l’idea di poter dare una sterzata pure senza l’ombra di un quattrino in tasca. C’era un’energia nuova in quegli stanzoni, un odore diverso. “Essere i migliori è solo l’inizio”: per le sabbie mobili della nostra povera economia forse questa è una vera rivoluzione.



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