Noi portiamo il fuoco

“Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.

Sì. Perché noi portiamo il fuoco.”

– Cormac Mc Carthy, La strada –

 

7 novembre 2013 – Nei paesi industrializzati, l’edilizia è l’attività umana che necessita di più energia. Per realizzare un palazzo, una grande quantità di materiali deve essere prodotta, trasportata, messa in opera e dismessa. Ma non solo: una volta eretti, gli edifici devono anche essere illuminati, riscaldati, raffrescati e per soddisfare queste richieste, secondo stime del 2002 tuttora valide, in Europa l’edilizia assorbe il 40,4% della domanda finale di energia.

[blockquote align=”none”]Il percorso che ha portato il settore edilizio a diventare una delle attività maggiormente impattanti del pianeta è complesso e travagliato, ma è stato un evento storico in particolare a gettarne le basi: la Rivoluzione Industriale. Dopo una prima fase “morbida”, caratterizzata sostanzialmente dall’introduzione della macchina a vapore nel settore tessile e in cui l’incremento dei consumi energetici è stato piuttosto marginale rispetto ai vantaggi che ha portato, con la successiva diffusione dell’elettricità l’umanità si è allontanata velocemente da un modus vivendi che aveva adottato per millenni. L’impiego dell’energia elettrica ha reso possibili lo sviluppo e l’impiego di nuove tecnologie, grazie alle quali finalmente tutti gli aspetti della vita all’interno degli ambienti confinati, dal comfort termico all’illuminazione, dalla fatica fisica nei lavori domestici all’approvvigionamento di acqua calda, sono stati risolti.[/blockquote]

Ma la risoluzione di alcune problematiche ne ha generate altre.

Innanzi tutto, lo sviluppo di nuove tecnologie, l’affinamento della produzione del vetro e l’introduzione di nuovi materiali come l’acciaio e il cemento hanno reso possibile una nuova libertà espressiva che trasformato la concezione stessa di architettura. Liberato grazie allo scollamento tra l’utile e il bello, l’architetto ha cominciato a dedicarsi unicamente all’estetica dell’edificio, demandando gli elementi funzionali e impiantistici, improvvisamente ritenuti secondari, ad altre figure professionali, gli ingegneri in primis. Edifici pressoché identici hanno iniziato a sorgere in qualsiasi paese, clima o territorio, portando alla negazione dei principi costruttivi del passato a favore dell’architettura come espressione estetica e segno distintivo replicabile in ogni luogo.

 

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Questo sfasamento dell’identità e del ruolo dell’architetto -in alcuni casi un vero e proprio “ego trip”- ha facilitato, e torniamo così al punto di partenza, la trasformazione dell’edilizia in “industria”. E come ogni industria, anche quella delle costruzioni fa un pesante affidamento sulla reperibilità in grande quantità e a basso costo di carbone, petrolio e gas naturale. Si pensi a come l’uso massiccio del vetro, la “membrana minima” come la definì Le Corbusier, per la smaterializzazione delle facciate abbia prodotto un incremento spropositato sia dell’energia necessaria a mantenere condizioni di comfort accettabili all’interno degli edifici sia dell’energia utilizzata per la produzione di tali quantitativi di acciaio, vetro e alluminio. Ecco, è solo un minimo esempio.

[blockquote align=”none”]Qualcuno potrebbe obiettare che in fondo nell’ultimo secolo il consumo energetico pro capite a livello mondiale sia “solo” triplicato. Vero: il problema però è che in soli cento anni siamo passati da un miliardo e mezzo a sette miliardi di persone, e questo aumento del consumo globale nell’arco di così poco tempo è un dato davvero esorbitante.[/blockquote]

La Terra possiede sì la capacità di rinnovare le sue risorse, ma lo fa in base a dei tempi che non sono equiparabili alle logiche accelerate dello sviluppo attuale. Ecco perché ci troviamo nella tragica situazione del mondo contemporaneo.
Servirebbe un modello di sviluppo economico, sociale e ambientale compatibile con la capacità di carico del pianeta, che soddisfacesse le esigenze della generazione attuale senza precludere quelle delle generazioni future.
Servirebbe un modello di produzione e consumo che non superasse le capacità di sopportazione della biosfera e che garantisse a tutti un accesso equo e democratico alle risorse fondamentali, un equilibrio tra uomo e ambiente talmente avanzato da garantire il benessere globale.

Questo modello esiste e si chiama “sostenibilità”, o meglio ancora, “eco sensibilità”.

 

[blockquote align=”none”]È dal 1972, quando a Stoccolma le Nazioni Unite hanno organizzato la prima Conferenza Internazionale sull’Ambiente Umano, che si parla, si analizza, si teorizza, si propone, si confrontano soluzioni, si inneggia a ideali, si proclamano nuovi dettami riguardo i possibili percorsi sostenibili per il nostro sviluppo socioeconomico. Bene, sono trascorsi quarant’anni e, seppur ci siano stati progressi e (timidi) passi in avanti, la sola consapevolezza del pericolo verso cui ci stiamo dirigendo a gran velocità non è bastata a stimolare i cambiamenti necessari.[/blockquote]

Nel frattempo, il termine sostenibilità è entrato pesantemente nel linguaggio comune, diventando un facile sinonimo di ecologia, di valore ambientale, ma sta perdendo totalmente il suo significato. Il sospetto è che si sia trattata di una strategia politica e di marketing mirata a incoraggiare l’adozione “consolatoria” di prodotti e comportamenti che però spesso hanno solo una vaga attinenza con questi temi, trasformandola in una moda che ha invaso ogni campo del nostro quotidiano, dal cibo all’abbigliamento, fino a sconfinare nei rapporti interpersonali e nel mondo del lavoro.

Si pensi ad esempio a metodiche poco ortodosse come il greenwashing, che alcune aziende utilizzano per rendere l’immagine dei propri prodotti falsamente eco-sensibile attraverso una comunicazione vaga o incentrata sull’esaltazione di aspetti secondari apparentemente “green” e sull’omissione delle informazioni sulle caratteristiche principali, che spesso risultano invece essere a elevato impatto ambientale.

[blockquote align=”none”]La diffusione del termine sostenibilità, e soprattutto il suo uso improprio, hanno convinto la maggior parte dei consumatori che, limitandosi a scegliere prodotti e comportamenti pubblicizzati come “ecologici” o “sostenibili” o “verdi”, esauriscano il loro contributo al miglioramento del nostro futuro. La verità è ben altra: stiamo continuando la vita di sempre, con gli stessi vantaggi e le stesse comodità, raccontandoci una favola avallata da un alibi fasullo preconfezionato ad hoc dalle logiche del mercato.[/blockquote]

Ma non solo. Nonostante l’attenzione a tutto ciò che può danneggiarci sia diventata quasi spasmodica, paradossalmente spesso non ci preoccupiamo affatto, o perlomeno lo facciamo con scarsa consapevolezza, dell’elemento che più di ogni altra cosa ci circonda, protegge, fa parte della nostra vita più della vita stessa, e cioè la nostra casa.[blockquote align=”none”]Pensiamoci. Siamo capaci di decifrare il codice alfanumerico che racconta tutto il ciclo vitale della gallina che ha prodotto l’uovo che compriamo al supermercato eppure non ci domandiamo da dove arrivino i materiali con cui è stato costruito il nostro palazzo o ignoriamo che nella maggior parte dei casi il cemento è prodotto con scorie d’altoforno. Usiamo l’auricolare, ma siamo avvolti dall’inquinamento elettromagnetico dei ripetitori e dei cavi dell’alta tensione. Ci vestiamo solo con cotone organico senza additivi, ma dormiamo in stanze con pareti e mobili che emettono composti organici volatili dannosi. Guidiamo auto ibride, ma gli impianti di riscaldamento delle nostre case sono ancora alimentati soprattutto a nafta. Montiamo i pannelli fotovoltaici sui nostri tetti ma non ci chiediamo quanta energia sia servita per produrli e quanta ne servirà un giorno per smaltirli.[/blockquote]

Quando si tratta della nostra casa, ogni giorno cadiamo in contraddizioni spesso inevitabili: siamo come quei vegetariani che, loro malgrado o per estrema leggerezza, si comprano delle scarpe di pelle.

 

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La soluzione di queste contraddizioni è soprattutto compito dell’architetto, o meglio, di un architetto “nuovo”.

È infatti arrivato il momento, per l’architettura, di riappropriarsi del suo valore, del suo significato e del suo ruolo, prima che sia troppo tardi. La sostenibilità è contemporaneamente la chiave, la risorsa e l’obiettivo di un nuovo sguardo progettuale, consapevole delle complessità e dei limiti che ci circondano. Gli architetti possono essere un veicolo privilegiato, delle teste di fiammifero capaci di accendere una moltitudine di focolai.

L’aspetto più confortante ed entusiasmante è che in realtà questa rivoluzione è già cominciata. Una moltitudine di professionisti sta già lottando per realizzare un mondo eco sensibile, attraverso il lavoro di tutti i giorni e la condivisione del proprio sapere. Questi uomini e queste donne sono già portatori di conoscenze e di etiche capaci di accompagnare i clienti e le istituzioni verso scelte in grado di migliorare la loro vita e quella delle generazioni future.

Insomma, non tutto è perduto, e molto si può fare. Ma molto si sta già facendo, anche. Ed è per questo, per dare visibilità a questi professionisti coraggiosi, alle loro idee e alla loro lotta che anch’io, architetto finalmente militante, ho deciso di intraprendere un viaggio affascinante tra progetti concreti, visioni e prospettive della nuova architettura sostenibile, l’unica davvero possibile.

Perché i focolai sono già stati accesi: ora è il momento di unirli in un grande incendio.



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