Verso Marrakesh

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1015058_4778608114201_571572631_o.jpg[/author_image] [author_info]di Elena Esposto, da Marrakesh. Nata in una ridente cittadina tra i monti trentini chiamata Rovereto, scappa di casa per la prima volta di casa a sedici anni, destinazione Ungheria. Ha frequentato l’Università Cattolica a Milano e si è laureata in Politiche per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. Ha vissuto per nove mesi a Rio de Janeiro durante l’università per studiare le favelas, le loro dinamiche socio-economiche, il traffico di droga e le politiche di controllo alla criminalità ed è rimasta decisamente segnata dalla saudade. Folle viaggiatrice, poliglotta, bevitrice di birra, mediamente cattolica e amante del bel tempo. Attualmente fa la spola tra Rovereto e Milano[/author_info] [/author]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/IMG_2967.jpg[/author_image] [author_info] di Angela Moscovio, da Marrakesh. Studentessa di cooperazione, beneventana a Milano, un erasmus in Francia e un’esperienza missionaria in Costa d’Avorio. Straniera e pellegrina, speranzosa per scelta, curiosa e appassionata del mondo, in lotta con il tempo, attratta dall’imperfezione, amo la musica, i viaggi e le persone. Sorrido alla vita. [/author_info] [/author]

Il treno esce lentamente dalla stazione di Rabat stipato di umanità in viaggio; gli scompartimenti rigurgitano gente e bagagli.

Angela trova un posto, cedutole da un signore gentile, mentre io mi siedo a terra sul corridoio, guardando il paesaggio e tentando di dormire. Tentativi continuamente interrotti da passeggeri che trascinano enormi valigie, dal carrello del pranzo e dagli scossoni del treno.

Nonostante la grande folla il treno è silenzioso. Seduta sul pavimento e schiacciata dalle gambe dei passeggeri che occupano lo scompartimento dove ho trovato un po’ di posto guardo i villaggi  colorati e i fatiscenti distretti industriali sfilare senza fretta fuori dal finestrino.

Secondo i piani dovremmo percorrere i 400 km che separano Rabat da Marrakesh in 4 ore e mezzo, ma il treno ha già un’ora di ritardo, e le continue soste per far salire e scendere la gente e per aspettare che passino i treni che arrivano in senso contrario al nostro per evitare incidenti sull’unico binario che collega le due città, ci fanno presagire che il nostro sarà un lungo viaggio.

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Superata Casablanca si crea un po’ di spazio vitale e il mio sedere dolorante trova finalmente posto su di un sedile.

Il paesaggio oltre il vetro è radicalmente cambiato. Si vedono montagne e gole desertiche, rare coltivazioni di eucalipti, distese di fichi d’India. I pochi villaggi di mattoni di argilla e paglia si confondono con lo sfondo rossastro delle montagne.

Nelle lunghe ore di viaggio facciamo amicizia con Amein e Abd Jani, due piccoletti che viaggiano con la mamma. Sono davvero carini, scherziamo un po’ con loro e ci divertiamo a vederli ridere e giocare mentre comunichiamo a sorrisi con la madre, dato l’impedimento linguistico.

Cinque ore dopo

Mentre ci inoltriamo nel dedalo di stradine popolato dalle botteghe dei commercianti che vendono ogni cosa possibile immaginabile non posso evitare di pensare che se esiste una parola per definire Marrakesh questa è “caotica”. La parte dei souq più vicina alla piazza principale, la leggendaria Jama’a el-Fnaa, pullula di turisti alla ricerca di gadget che li aiuteranno a ricordare i magnifici momenti in cui qualche snervante venditore riuscì a spillare loro un prezzo che supera di dieci volte il valore del ninnolo.

Passiamo attraverso il denso odore delle spezie esposte in bella vista sulle bancarelle. Cumino, zenzero, peperoncino, aglio, curcuma, curry, cannella, hennè, pezzettini colorati di incenso, boccioli di rosa secchi, file di bottigliette contenenti il prezioso olio di argan e le dolciastre essenze dei fiori orientali, minuscoli vasetti di nero kajal e altre polveri variopinte, sacchi di erbe dai magici poteri afrodisiaci, ceste piene di strani legnetti avvolti in lunghe foglie che dicono essere utili per lavarsi i denti, di ossi di seppia e di schegge di pietra deodorante che brilla al sole come un quarzo. I commercianti chiamano i passanti a gran voce declamando le proprietà del sapone all’olio di oliva o delle creme all’argan, mentre inquietanti pezzi di pelle di serpente e altri animali penzolano sulle loro teste dai tetti delle botteghe.

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I banchi della menta fresca e delle olive condite mandano lievi profumi appetitosi, da un vicoletto angusto esce la fragranza del pane appena cotto mentre da un altra stradina arriva a zaffate la puzza dei polli vivi stipati nelle gabbie.

Camminiamo tra la gente intenta a fare spese. Le donne nelle tuniche e nei veli variopinti chiacchierano vivacemente ad alta voce muovendo freneticamente le mani dipinte con l’hennè, gli uomini bevono il tè agli angoli delle strade, giocano a dama o a carte su improvvisati tavolini, le bici e le moto sfrecciano tra i passanti incuranti dei divieti e lasciandosi dietro una nuvola acre di smog. I carretti trainati da asini e cavalli sferragliano sul ciottolato della medina e ovunque gatti randagi e rachitici barcollano alla ricerca di un po’ di cibo o di qualche coccola.

Ci perdiamo in una zona popolare dove siamo visibilmente le uniche donne a testa, quando non a volto, scoperto.

Contrariamente a tutte le nostre aspettative, dato il grande influsso occidentale che la città soffre ogni anno, contiamo molte più donne con il velo integrale qui che in tutte le altre zone del Marocco che abbiamo visitato. Alcune stendono una tendina nera tra i lembi del cappuccio della tunica, altre invece sono completamente coperte di stoffa nera o beige, dalla quale emergono solo gli occhi. Neanche le mani appaiono, nascoste nei guanti.

Gironzoliamo schiacciate nella folla. Siamo in una periferia lontana dalla piazza, qui i commercianti non hanno le botteghe ma stendono la loro merce a terra o su pericolanti bancarelle di legno. Vendono frutta e verdura fresche, spezie, farina per fare il pane e tutte le altre specialità della panetteria locale come l’harshat, o il meluin, uova, olio, oppure semplicemente ferrivecchi, cose usate e tutte le carabattole possibili immaginabili.

Cerchiamo di immedesimarci il più possibile nell’atmosfera che impregna la città. Ci fermiamo per un tè alla menta, contrattiamo, a detta degli uomini di qui, “come delle vere berbere” per strappare ai commercianti prezzi nettamente inferiori a quelli iniziali, rosicchiamo mandorle salate e semi di zucca, parliamo con la gente in francese e quelle quattro parole di arabo che ancora mi ricordo dal Libano, scherziamo con i bambini che ci fermano per chiedere della cioccolata, chiediamo i loro nomi, diciamo i nostri, mangiamo sulle terrazze di Marrakesh mentre il grido del mu’azzin si alza in cielo.

Avventure culinarie

Non si può viaggiare per il Marocco e riuscire a restare indifferenti alla sua arte culinaria. Il profumo della carne arrostita, delle spezie e del tè alla menta pervade e impregna ogni angolo del Paese. I nomi esotici e melodici che troneggiano sui cartelli esposti fuori dai ristoranti sono essi stessi un invito ad entrare.

La Jama’a el-Fna è un enorme ristorante a cielo aperto contro il quale i passanti inermi non hanno alcun potere. I cuochi e i camerieri invitano a sedersi cercando di accaparrarsi più clienti possibili, il fumo che si alza dalle braci rende l’aria densa e pesante. Le lunghe tavolate sono stipate di gente che mangia con gusto quello che il meglio della cucina marocchina può offrire: tanja, tajne, couscous, brochette, harira, la zuppa del deserto, e poi le parti più impensabili del montone, il tutto accompagnato da olive, salse piccantissime, spezie, pane e dall’immancabile whisky dei berberi, come chiamano qui il tè alla menta.

Alcuni più audaci popolano i chioschetti che vendono zuppa di lumache. Altri più prudenti si accontentano dei succhi freschi e delle innumerevoli varietà di datteri e frutta secca esposte ordinatamente sui banconi, o degli stucchevoli dolcetti al miele che passano tra la folla su dei carretti spinti dai venditori ambulanti.

Ma per il turista ignaro e un po’ imprudente il pericolo è sempre dietro l’angolo. Neanche dodici ore dopo la sottoscritta giaceva sotto una coperta berbera, tremando per la febbre altissima, con fette di patate e ghiaccio sulla testa nel tentativo di far scendere la temperatura e mostrando i chiari segni di un’intossicazione alimentare.

Intanto nella ville nouvelle c’è un altro genere di vita che scorre…

Avevo chiamato Omar, conosciuto durante gli studi in Francia che ora lavora a Casablanca, e lui è venuto per passare il week-end a Marrakesh con dei suoi amici, per incontrare vecchi compagni di studi e godere pienamente dei divertimenti che la città offre. Mi spiegano, lui ed il suo amico, che Marrakesh è la città dove «faire la fete», piena di divertimenti e distrazioni a cui cedere.

Nel pomeriggio, mi portano a fare un giro nella città e mi offrono un caffè in un bar appena aperto, che pullula di turisti e persone della “Marrakesh bene”.

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Tutte le contraddizioni di un paese in espansione verso il mondo occidentale mi si sono concentrate davanti, e non saprei neanche spiegare il perché di quella sensazione. Il questo bar alla moda non sembrava di essere nel Marocco delle medine o dei villaggi in cui finora mi ero immersa, ma in una qualsiasi città, forse anche Milano, se non fosse stato solo per il paesaggio che mi riportava alla realtà, o per qualche velo qui e lì. Nelle vecchie città non avevo mai visto donne sedute al bar, qui invece gruppi di amiche sorseggiavano tranquillamente qualche bevanda.

Abbiamo parlato del più e del meno, mi hanno spiegato qualcosa del loro Paese, tipo che Casablanca è la città più occidentale del paese, che è normale vedere donne in giro o sedute al bar che fumano tranquillamente la loro sigaretta, che in Marocco non c’è una classe media molto forte e quindi la ricchezza è piuttosto polarizzata creando quelle contraddizioni tipiche di uno stato in transizione, in questo caso una monarchia, sospesa tra l’oriente e l’occidente, tra religione e laicità. La mia curiosità mi ha portato a chiedere della loro religione che alcune volte è così evidente: uno mi dice che non va alla moschea, che non è particolarmente interessato e che certe cose non le capisce neanche lui, ma comunque sostiene che la tradizione è importante; l’altro mi dice che qualche volta va in moschea, e quindi alterna momenti in cui si concede qualche piacere come alcol o fumo, e altri in cui è molto attento a seguire i precetti. O una cosa, o l’altra. Sarà vero per tutti?

Il pomeriggio aveva suscitato in me perplessità e fascino, ma la sera mi avrebbe riservato davvero delle sorprese.

I miei amici mi dicono di cambiarmi, di mettermi qualcosa di carino perché andiamo in un posto dove si balla e c’è musica dal vivo. Non vorrei andare, ma cedo alla loro gentilezza e così vengono prendermi fino alla porta dell’ostello; con me c’è una ragazza canadese conosciuta il pomeriggio. Ci troviamo a casa di alcuni loro amici, in attesa che arriva la fidanzata di uno da Casablanca, e tra una chiacchiera e l’altra arriva l’ora di cominciare la serata.

Imbocchiamo una grande avenue dove ci sono delle discoteche, anche il Pacha (la stessa di Ibizia), in macchina ascoltiamo musica dance a palla, fino ad arrivare al Casinò di Marrakesh dove effettivamente, dopo aver superato le slot machine pieni di turisti e locali in cerca di fortuna, c’è una sala ristorante in cui fanno musica dal vivo.

È tutto molto lussuoso: non me l’aspettavo. Non ho gli abiti adatti, mi sento abbastanza inadeguata, esattamente come quando, a Milano, mi trovo in qualche locale troppo in tiro per i miei standard. La ragazza che è con me continua a ripetere “so fancy”…

Sono lì, con un gruppo di amici marocchini, donne senza velo e uomini in camicia e scarpe firmate, ragazzi che studiano o hanno studiato in scuole private, lì o a Parigi o a Londra. La sala comincia a popolarsi, pochi turisti molti locali. Nei divanetti accanto a noi arrivano tre ragazze marocchine che nulla hanno da invidiare alle top model della Milano da bere: sono magre, hanno gambe vertiginose, abiti attillati e corti e fare un po’ antipatico, salutano le hostess del posto da clienti abituali, ordinano una bottiglia di vino bianco.

Al nostro tavolo intanto arrivano un paio di birre, qualche bevanda energetica e un paio di drink superalcolici. Si beve. Si balla. C’è chi fuma le sue sigarette.

Un po’ provata dalla stanchezza e dalla malattia, e un po’ perché ballare non è una cosa che mi appartiene, me ne sto sul divano ad osservare questa gioventù che si diverte. Non avverto più la differenza della geografia, potrei essere ovunque e penso a quanta verità vi sia nella frase che dice che tutto il mondo è paese.

Loro si scatenano, riesco a strappare il compromesso di andare via alle 2 ed uscendo vedo tanti ragazzi pronti a dar inizio alla serata nella discoteca accanto. Scene viste e riviste, di cui non c’è niente da scandalizzarsi, se solo non mi venisse in mente che appena a qualche chilometro di distanza ho visto tutt’altro. Passo una piacevole serata, prima “scortiamo” una ragazza da sola in auto a casa sua, poi ci riaccompagnano di nuovo davanti la porta dell’ostello, perché due donne da sole non si sa mai…

Sono tornata nella medina deserta, contenta di aver visto qualcosa di inaspettato ma anche piena di domande, o per la mia ingenuità innata, o perché è stato qualcosa di davvero imprevisto. In ostello trovo Elena malata ancora sveglia e comincio a raccontare della mia serata “cool” nella Marrakesh da bere.

L’indomani sveglia relativamente presto per aver fatto serata, e i ragazzi vengono a prenderci per andare a fare una piccola escursione. Si decide di andare verso le montagne di Ourika dove ci sono delle belle cascate e dove, a detta loro, si mangia la tajine più buona del mondo. Siamo gli stessi della sera prima, due macchine, musica a palla di nuovo (questa volta dance intervallata da un po’ di musica tradizionale per farcela ascoltare).

Il paesaggio cambia man mano che lasciamo la città, sulla strada sfrecciano auto di lusso e carretti degli asini. La contraddizione è così evidente! Purtroppo più ci si avvicina alla montagna più il tempo peggiora e arriviamo sotto il diluvio. Tuttavia niente può fermare la mangiata che ci attende. Prendiamo posto sotto un tendone e ordiamo le nostre tajine; nel frattempo si parla, si scherza, in arabo (che però noi non capiamo), francese, inglese. Si prendono in giro, raccontano barzellette, ci regalano delle piccole cose prese dagli ambulanti che vengono al tavolo, scattiamo qualche foto per immortale il momento di gioia, arriva anche un musicista berbero che ci suona qualcosa. Li osservo e mi sento a casa: per me la domenica è sacra, si sta in compagnia, con la famiglia, con gli amici, riuniti attorno a del buon cibo. È vero, non capisco quando parlano in arabo, ma cercano di tradurre sempre per farci comprendere. Ridono e scherzano, non si vedono spesso considerando che vivono in diverse parti del Marocco.

È davvero bello. Sento forse la mancanza di un po’ di vino questa volta, ma arriva l’immancabile tè alla menta e poi tre grandi tajine da cui mangiamo tutti insieme. È una delle ragazze ad offrirci il pranzo. Purtroppo gli altri devono partire, non c’è tempo di andare a visitare le cascate, inoltre continua la pioggia insistente; con un po’ di dispiacere per la mancata scoperta torniamo con tutti gli altri a Marrakesh per un ultimo caffè insieme, anche se uno di loro mi rassicura dicendomi che è valsa la pena andare lì anche solo per il pranzo.

Ovviamente la scelta del bar su cui andare cade su un café alla moda. Arriviamo, ragazze in tuta con borse firmate, una famigliola tranquilla, una donna con il velo. Un tranquillo pomeriggio di domenica. Il tempo è arrivato al limite: si deve partire perché domani c’è chi deve andare a lavorare o seguire i corsi. Ci salutiamo e ci ringraziamo con la promessa di rivederci un giorno, scambiandoci, per ora, i nostri contatti facebook.

Torno in ostello con la sensazione di essere schiava dei preconcetti e dei luoghi comuni: mi sono stupita del lusso che ho visto, ma forse solo perché ero in Marocco e avevo visitato solo le parti più vecchie e povere, quindi non poteva essere altrimenti. Ho ringraziato Omar e i suoi amici perché mi hanno fatto mostrato un’altra faccia del loro Paese, che da sola, probabilmente non avrei scoperto. Non c’è niente da stupirsi: sono gentili, cordiali, ancorati alla tradizione ma lanciati verso la modernità, tolleranti e abituati a vivere pacificamente in situazioni così diverse che mi convinco che sono loro i veri emancipati, rispetto a me e ai miei pregiudizi.

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…Giorni di conoscenze, giorni di partenze…

È il nostro ultimo giorno a Marrakesh. Ho passato la convalescenza sulla terrazza mentre Angela andava in esplorazione nei dintorni della città.

È un altro modo per conoscere il mondo, sedersi su di un divano pieno di cuscini a parlare con la gente.

Bill (i nomi sono tutti di fantasia) è un trafficante di hashish. Ha gli occhi limpidi e buoni, maniere gentili, sempre pronto a una piacevole conversazione. Ha passato alcuni anni della sua vita in prigione, la sua pelle è rugosa, abbronzata e tatuata, il suo lessico è forbito, ha letto molto, viaggiato all’inverosimile, ha storie da raccontare, aneddoti con cui deliziarci. Stiamo ore ad ascoltare i suoi racconti, mentre sorride con la sua bocca sdentata, accende una sigaretta dopo l’altra, intervallando il tabacco a qualche boccata di droga dalla sua inseparabile pipa. Porta l’hashish in Europa dal Marocco tagliandolo a pezzi, avvolgendolo nel cellophane e ingoiandolo. È bizzarro come un uomo così esperto e provato dalla vita mantenga ancora maniere da gentiluomo, un affetto smisurato per sua madre e una enorme curiosità e fiducia nei confronti del mondo.

Sai’id è un berbero del deserto. Ha ventiquattro anni e un sorriso disarmante. Studia a Marrakesh ma il suo sogno è quello di tornare nel villaggio dei suoi genitori, al confine algerino. Sorride sempre, ricorda a tutti che bisogna essere sempre felici, che tutto andrà bene, che la vita è bella. Ma tre anni fa ha perso la sua fidanzata in un incidente d’auto. Mi parla di questa morte con gli occhi lucidi di lacrime e sento il grande vuoto che gli è rimasto dentro, immenso come gli spazi infiniti sotto il cielo del deserto.

Bilal è arrivato clandestino in Italia a diciannove anni, pieno di speranze di una vita migliore, ma è tornato a casa, tra le montagne dell’Alto Altlante, perché ha trovato troppo razzismo e pregiudizi.

Sono tante storie, troppe per queste poche pagine. Sono tasselli di una storia più grande, quella di noi tutti che attraversiamo il mondo…

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L’hammam è caldo, umido e pieno di vapore. Tra le pareti piastrellate risuona il vociare delle donne e dei bambini che si godono il tepore. Le stesse donne di cui per la strada vediamo solo il viso o solo gli occhi si mostrano, in questa bizzarra enclave femminile, completamente nude.

Le inservienti ci buttano addosso l’acqua calda e ci cospargono di sapone all’olio di oliva. Dall’altra stanza risuonano le grida di un neonato. Il guanto di crine strofina la nostra pelle con forza, facendoci quasi male.

Sono le ultime ore in Marocco: questa sera usciremo con gli altri ragazzi dell’ostello a goderci per l’ultima volta lo spettacolo della Jama’a el-Fna al tramonto, berremo l’ultimo tè alla menta, fumeremo l’ultima chicha e domani torneremo irrimediabilmente alla quotidianità.

Il lavoro, lo studio, le preoccupazioni e le angosce del nostro mondo frenetico, la schifiltosa pioggerellina autunnale, quelle relazioni difficili da riprendere in mano…

Ma per ora nulla conta. Esiste solo l’oggi, solo questo momento racchiuso tra le pareti calde e lucide dell’hammam, e le preoccupazioni scivolano via, come la pelle morta cade sotto i colpi energici del guanto di crine.



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