Oltre Lampedusa

Dal CIE di Gradisca a quello di Trapani: trasferimento di migranti e rimpalli di responsabilità

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/Schermata-2013-11-20-alle-14.49.09.png[/author_image] [author_info]di Caterina Mazzilli. Laureata in Cooperazione Internazionale a Bologna e sta cercando un modo per viverci. Legge e scrive soprattutto di migrazioni. È originaria del Friuli ma ha studiato e lavorato tra Padova, Granada, Nairobi, Bologna e Brema. Non le dispiacerebbe andare a Berlino per vivere nella terza città che inizia per B.[/author_info] [/author]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/GiuliaFagottofoto.jpg[/author_image] [author_info]di Giulia Fagotto. Laureanda del master in European and International Studies all’Università di Trento. Grazie a una borsa Erasmus Mundus ha studiato per un anno a Marrakech e poi, per non lasciare il Maghreb, ha svolto un tirocinio per la delegazione interministeriale per i diritti umani di Rabat. Ha concluso da poco un periodo di ricerca all’Istituto Affari Internazionali di Roma, ma non ha smesso di scrivere di Medio Oriente.[/author_info] [/author]

Nemmeno il tempo di seppellire i morti di Lampedusa che di nuovo l’immigrazione fa capolino sulle prime pagine dei nostri quotidiani. Questa volta ci troviamo nel profondo nord-est, a Gradisca, dove da anni ha sede uno dei più grandi centri di identificazione ed espulsione della nostra penisola. Dopo una calda estate segnata da innumerevoli rivolte e tentativi di fuga, la scorsa settimana la struttura è stata presa d’assalto dai suoi ospiti, che, in segno di protesta per le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere, hanno devastato i locali del centro, rendendolo definitivamente inagibile. Nonostante lo sgombero imposto dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Viminale, la Questura di Gorizia temporeggia sulla sua chiusura definitiva.

Questo provvedimento temporaneo, accolto con favore dagli esponenti della società civile e dall’ala più progressista della politica italiana e locale, non è però frutto di un cambiamento di rotta nella politica migratoria del Belpaese. A dimostrarlo sono il trasferimento a Trapani di 36 utenti del centro friulano ed il rimpatrio dei restanti 13. Si ripete l’abitudine, tutta italiana, di agire seguendo una logica emergenziale: lo sgombero del centro di Gradisca, frutto di un’emergenza, rischia di innescarne un’altra in quello di Milo, dove, già il mese scorso, la Prefettura aveva chiesto l’intervento di altre strutture sociali per bilanciare il sovraffollamento del CIE.

Tuttavia, le leggi che regolamentano l’accoglienza degli immigrati nel territorio italiano rimangono invariate con il beneplacito di tutta quella classe politica che, solo poche settimane fa, versava lacrime amare sui cadaveri di Lampedusa. Il ripensamento del corpus legislativo richiederebbe infatti uno sforzo congiunto, un accordo bipartisan che il “governo delle larghe intese” non sembra capace di raggiungere nemmeno sui temi meno critici. Si susseguono così le vuote dichiarazioni dei vari ministri degli interni, foriere di promesse puntualmente disattese.

Tragedia a Lampedusa, un altro viaggio della speranza finito in tragedia

Dal 2011, quando, per far fronte “all’invasione di Tunisini” che fuggivano dalla repressione di Ben Alì, Maroni auspicava una riforma in senso restrittivo della Bossi-Fini, fino alle recenti parole del ministro Alfano: “Siamo un Paese accogliente, ma qui non c’è spazio per tutti”. L’Italia non può sopportare da sola il peso di centinaia, migliaia di disperati che raggiungono le nostre coste in cerca di futuro migliore o in un estremo tentativo di salvarsi la vita. Quest’affermazione, che riscuote consensi trasversali, echeggia come un mantra nei principali mezzi d’informazione. Ed è proprio questo ritornello ad alimentare la deriva populista che il dibattito sull’immigrazione sembra aver imboccato, soprattutto a fronte dell’aggravarsi della crisi economica.

Così mentre infuria la “guerra tra poveri”, in cui gli immigrati fungono da capro espiatorio di una politica economica fallimentare e corrotta, la classe dirigente invoca l’Europa, invitandola ad assumersi le sue responsabilità di fronte a “tanta sofferenza”. Nonostante gli stranieri protestino per le condizioni disumane in cui versano i nostri CIE e gli operatori dei centri e le forze dell’ordine siano costretti ad arginare la rabbia giustificata degli stranieri, Roma rimane a guardare, rimpallando a Bruxelles la patata bollente.

Come ha sottolineato la presidente Boldrini all’indomani della visita di Barroso a Lampedusa, l’Unione Europea ha certamente un ruolo da svolgere in questa partita, ma si tratta di un ruolo marginale in quanto, per ora, non esistono le premesse giuridiche per una politica d’accoglienza comune. Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, non ha infatti modificato le impostazioni strutturali stabilite nei trattati precedenti e ha mantenuto inalterata la prerogativa statale nella gestione dei flussi d’ingresso. Nel breve termine, quindi auspicare un cambiamento di rotta europeo sembra davvero utopistico, anche se l’Italia, prossima ad assumere la presidenza europea nel secondo semestre del 2014, ha un’importante carta da giocare a Bruxelles.

Tuttavia, ciò che sembra pesare maggiormente sia a livello europeo che italiano, non è il vuoto giuridico ma l’assenza di volontà politica. Come conferma il comunicato stampa dello scorso 7 novembre sul recente incontro tra i ministri Bonino e Alfano, sul tema immigrazione continua a prevalere un approccio scarsamente lungimirante che mette l’accento sulle questioni della sicurezza, passando dalla pratica illegale dei respingimenti alle operazioni umanitarie nel Mediterraneo. Inutile ricordare che, dati alla mano, gli ingressi di irregolari dalle coste sud della nostra penisola sono solo una percentuale minima, per quanto spettacolare, del problema della migrazione illegale nel nostro Paese.

Purtroppo l’atteggiamento italiano, caratterizzato da soluzioni tampone, sembra aver trovato ampio seguito anche in Europa. Ne sono prova il vertiginoso aumento di budget, oggi pari a 85 milioni di euro, accordato a FRONTEX (l’agenzia che si occupa del pattugliamento delle frontiere esterne) e l’avvio dell’operazione Mare Nostrum (una missione militare e umanitaria la cui finalità ufficiale è di soccorrere i clandestini in transito nel Mediterraneo) che, nonostante l’ingente capitale impegnato, non hanno incontrato forti resistenze.

Un pattugliamento coordinato ed efficace del Mediterraneo, già parzialmente in atto grazie all’approvazione di EUROSUR (il sistema di sorveglianza pan-europeo delle frontiere terrestri e marittime), è sicuramente uno strumento importante per evitare ulteriori tragedie, ma non può rappresentare l’unica misura per affrontare una problematica così vasta e complessa come quella della migrazione. Inoltre le somme cospicue destinate a queste operazioni d’emergenza, che non implicano un ripensamento coordinato delle politiche migratorie e d’accoglienza, gravano pesantemente sulle già esigue casse dello Stato italiano. Solo per i primi mesi, l’operazione Mare Nostrum sottrae un milione e mezzo di euro al mese al budget del governo italiano, ma, dicono gli esperti, questa cifra è destinata ad aumentare. Le soluzioni a breve termine finiscono così per impedire, anche economicamente, l’avvio di riforme organiche e a lungo termine che coinvolgano tutti gli aspetti della questione migratoria, dall’ingresso all’accoglienza all’integrazione.

Il settore dell’informazione è la vera cartina di tornasole della logica emergenziale sottesa alla questione migratoria. Puntualmente sono le tragedie – i morti in mare, le fughe massicce dai centri di identificazione ed espulsione, i massacri di giovani migranti – l’unico mezzo per aprire il dibattito politico su queste tematiche. La classe dirigente, incapace di gestire organicamente la questione, si affida agli umori fluttuanti di una stampa sensazionalista.

L’esempio dei CIE è lampante: istituiti nel 1998, sotto la nomenclatura CPT (Centri di Permanenza Temporanea), sono giunti alla ribalta delle cronache solo dopo più di dieci anni dalla loro apertura, grazie alle inchieste di giornalisti coraggiosi come Fabrizio Gatti. È stato Gatti a mostrare la condizione di detenuti che vivono i migranti in queste “strutture d’accoglienza”, spesso privati di ognuna di quelle garanzie scritte nelle Dichiarazioni dei Diritti Umani che sono un costante leitmotiv della retorica politica. Purtroppo però il polverone mediatico sollevato dalle denunce non corrisponde a delle azioni politiche efficaci.

Ad oggi, le rivolte nei centri si trovano confinate nelle pagine di cronaca di qualche quotidiano locale mentre i CIE, grandi contenitori di tutti i fallimenti della politica migratoria italiana, continuano ad essere il pilastro fondante del nostro sistema d’accoglienza.

LA VITA CHE NON CIE – DI ALEXANDRA D’ONOFRIO

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Simile è l’approccio alle tematiche dell’integrazione. Sebbene nella penisola vivano ormai migranti di terza generazione, è stato solo con l’elezione del primo ministro nero della storia italiana che, la classe politica ha scoperto la necessità di programmi per l’integrazione sociale. In questo senso è esemplificativa la questione dello ius soli che è entrato a far parte dell’agenda politica italiana solo in seguito alla battaglia personale del ministro Kyenge.

Nonostante la legge italiana sulla cittadinanza è certamente inadatta alle esigenze di una società multiculturale come la nostra, la tematica sembrava non essere parte delle politiche d’integrazione del Belpaese. Tuttavia, anche questa bolla mediatica si è infranta nel nulla: così se fino a pochi mesi la cittadinanza per nascita sembrava una priorità assoluta, il tragico naufragio di Lampedusa ha spostato l’attenzione sul pattugliamento delle coste, cancellando l’urgenza di introdurre un cambiamento radicale nel diritto di cittadinanza.

Evidentemente, ciò che davvero manca in Italia è un approccio organico al fenomeno migratorio e all’integrazione dei nuovi arrivati. Il binomio migrazione/sicurezza non può più costituire l’unico paradigma per affrontare la politica migratoria mentre, parallelamente, prosegue lo sterile dibattito sui pro e i contro dello ius soli. Questi due argomenti sono due facce della stessa medaglia.

E continueranno ad esserlo finché nei CIE si potranno trovare, assieme a coloro che hanno varcato il nostro confine illegalmente, i ragazzi che in Italia sono nati e cresciuti, ma non hanno i requisiti necessari per ottenere la cittadinanza. Irregolari, non idonei, clandestini, il nostro ordinamento considera tutte queste diverse figure alla stregua di criminali. Criminali da rinchiudere e rimpatriare. Creando così un’enorme confusione legislativa che è alla base del sovraffollamento dei centri di identificazione ed espulsione.

Tuttavia non si prospettano significativi cambi di rotta se, di fronte all’ennesimo fatto di cronaca che porta alla ribalta l’inefficacia della legislazione in materia d’immigrazione, l’Italia preferisce ancora concentrarsi su ciò che le riesce meglio: le emergenze.



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