Shi’at Alì – 1

Intervista ad Anna Vanzan, iranista e islamologa, sull’identità sciita e le tensioni con i sunniti, all’interno della geopolitica che strumentalizza la fede

di Christian Elia

Il progetto Shi’at Alì 2003-2004/2013-2014 – Viaggio nel decennio del rinascimento sciita, a cura di Christian Elia, inizia con un’intervista. Ne seguiranno molte altre, con reportage vecchi e nuovi, con testimonianze e narrazioni di sé.

13 dicembre 2013 – Anna Vanzan, iranista e islamologa, laureata in Lingue Orientali a Venezia, ha conseguito il Ph.D. in Near Eastern Studies presso la New York University. Si occupa soprattutto di problematiche di genere nei paesi islamici, in molti dei quali ha svolto ricerca.
 Ha tenuto corsi in atenei italiani e stranieri e attualmente insegna Cultura Araba (Università di Milano), è visiting lecturer al Master M.I.M. Ca’ Foscari University (Genere e Islam) e al Master europeo on line EUMES (Gender and the Mediterranean). E’ redattore della rivista Afriche&Orienti e collabora con testate giornalistiche e programmi radiofonici nazionali e esteri.
 Ha pubblicato il saggio, Figlie di Shahrazàd, scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi, Bruno Mondadori, Le donne di Allah, viaggio nei femminismi islamici, Bruno Mondadori, La storia velata, donne dell’islam nell’immaginario italiano (Edizioni Lavoro, Roma) che ha ricevuto il Premio Feudo di Maida 2006.

Ragionando in generale, quale è la situazione al momento dei rapporti tra sunniti e sciiti?

Al momento la situazione dei rapporti tra sunniti e sciiti è molto fluida. Da un lato assistiamo a una recrudescenza del conflitto, e il Pakistan in questo senso è il paese che desta maggiori preoccupazioni, assieme all’Afghanistan in tono minore, dall’altra c’è una grande aspirazione libertaria. Una sorta di effetto collaterale delle rivolte arabe. Per decenni le comunità islamiche si sentivano schiacciate dal giogo dei regimi, ma oggi che possono prorompere sulla scena pubblica, si sottolineano le differenze.

Come interpreti e testimoni, a suo avviso, abbiamo una visione reale e approfondita della situazione?

Si tende a guardare il conflitto a livello locale, mentre andrebbe guardato a livelli di equilibri generali. Dove è evidente che non esiste un complotto ai danni degli sciiti, ma che oggettivamente esiste un disegno di contenimento che è in capo alle monarchie del Golfo, mosso da un’agenda molto più economica e politica che religiosa. Un esempio, in questo senso, lo offre il Bahrein, dove le donne sciite hanno rifiutato una apertura nei loro confronti rispetto al diritto di famiglia. Sarebbero state equiparate alle donne sunnite, ma hanno rifiutato, perché pur traendone dei vantaggi rifiutavano questa omologazione, ritenendolo un escamotage della monarchia sunnita al potere a Manama per dividere la comunità sciita. Questo esempio è indicativo di come il conflitto conosce una recrudescenza, ma perché è spinto dall’alto, più che dal basso. Il problema sono le discrepanze nell’accesso alle risorse e al potere. Se eliminassimo la connotazione religiosa, chiamando i due gruppi rossi e verdi, i problemi resterebbero identici a livello socio-politico ed economico. Torniamo al Bahrein: gli sciiti non hanno diritto a concorrere per un posto pubblico. E’ un conflitto politico – economico, che utilizza la caratterizzazione religiosa dei due gruppi come elemento di conflitto.

ESSERE SCIITA IN PAKISTAN – VIDEO TESTIMONIANZA RACCOLTA DA SHEEBA NAAZ

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Come si raccontano gli sciiti? Quanto è cambiata questa narrazione nel decennio in esame, dal 2003 a oggi?

Questi dieci anni sono stati davvero importanti rispetto alla complessità dell’identità sciita. Non che prima mancassero delle forti componenti, fin dalle origini, di natura quasi folkloristiche, senza alcuna eccezione negativa nell’utilizzo di questo termine. Nel senso che la protesta, l’affermazione di sé si articola in modo molto drammatico, quasi teatrale. Da sempre son minoranza: il loro esprimersi necessità di escamotage. Formare un corteo, ad esempio, o delle processioni, nei momenti topici dell’immaginario sciita – come la commemorazione della battaglia di Kerbala – ha avuto un percorso di elaborazione sempre più sofisticato. Un passaggio chiave in questo senso avviene dopo il 1500, quando l’attuale Iran si autoproclama stato sciita per eccellenza. La dinastia regnate, per legittimare il proprio potere, inizia a lavorare a questo, con l’importazione di teologi dalle scuole più sofisticate del tempo, nell’attuale Iraq e nell’attuale Libano, e rendendo momenti sempre più importanti le cerimonie pubbliche. Rituali che, in linea di massima, all’epoca sono confinati nell’Iran. Altrove o erano quasi privati o in tono molto minore.

Per capirci, esiste una vasta bibliografia in merito, nella Rivoluzione islamica del 1979, il ruolo delle manifestazioni pubbliche dello sciismo è stato determinante. Il regime dello Shah soffocava queste celebrazioni, che divennero elemento di organizzazione e di rabbia popolare. Le manifestazioni religiose sono divenute protesta politica. Altrove, in Iraq ad esempio, questi sentimenti sono più recenti. Durante il regime di Saddam, le loro manifestazioni erano proibite; adesso sono tornate, più drammatiche e partecipate addirittura di quanto siano quelle in Iran. L’immaginario occidentale è sempre colpito dall’ashura, la flagellazione, nella quali i fedeli si colpiscono per la colpa di non essere accorsi in soccorso degli assediati di Kerbala. Le stesse autorità iraniane, negli ultimi anni, le hanno proibite, con la scusa ufficiale che rendono una cattiva immagine del paese. In Iraq invece, come detto, avviene in contrario, con una recrudescenza dei gesti simbolici, mentre il Libano cominciano a prendervi parte anche le donne, fuori dal ruolo tradizionale.

Lo sciita si riconosce in questi momenti fondamentali, si sente parte della comunità, un momento in cui tutti gli sciiti del mondo commemorano un lutto, ma un lutto positivo, che salda attorno alla carica identitaria tutta la comunità antropologica. Negli ultimi anni c’è stato un ritorno dell’immaginario sciita, non soltanto attraverso queste manifestazioni plateali. Ad esempio con l’adozione di particolari simboli visivi, utilizzati molto nel mondo delle arti visuali, anche per strada, con graffiti e murales, che vengono proposti in misura crescente negli ultimi dieci anni. Perché comunque resta una confessione minoritaria, e l’identificazione simbolica resta una necessità. Nelle accademie d’arte, ad esempio, si incentiva questo aspetto nei giovani artisti. Va detto, però, che gli sciiti restano profondamente divisi al loro interno. Noi, di solito, ci riferiamo allo sciismo duodecimano, quello che si riconosce nella sequenza dei dodici imam, radicato in Iran. Restano altre correnti, frammentate, come quella degli ismaeliti, con altri rituali, altre manifestazioni. Esiste un forte patrimonio, condiviso, ma esiste anche una rielaborazione dello sciismo in termini visivi, di aderenza al culto. Le comunità, però, si ritrovano, spesso nei pellegrinaggi su luoghi di culto – Qom, Mashad, i luoghi in Iraq, prima vietati a loro – di personaggi impropriamente definiti da noi ‘santi’, che condividono tra loro, ma non con altri musulmani.

UNO DEI RITI DELL’ASHURA

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Condivide la lettura secondo cui il decennio che volge al termine ha segnato un cambio di passo importante all’interno del mondo sciita?

Questi dieci anni per lo sciismo e per gli sciiti sono stati cruciali. Sono almeno tre gli elementi determinanti di una stagione di rinnovamento dell’entusiasmo sciita. Tutto è cominciato con la risoluzione, per usare un eufemismo, del conflitto in Iraq, quando l’elemento sciita ha preso il potere dopo le vessazioni del presunto sunnismo del regime di Saddam Hussein. Allo stesso tempo, oltre confine, in Iran lo sciismo ha vissuto una stagione di rafforzamento, con l’elezione di Ahmadinejad. Questo nonostante quest’ultimo non si sia mai presentato come un esponente del clero, cosa che non è, ma come un laico di formazione sciita, contribuendo all’impennata dello sciismo militante. In questo percorso, nel 2006, si interseca la guerra in Libano, percepita e raccontata come una vittoria di Hezbollah, elemento che ha contribuito a rafforzare l’identità sciita e ad esaltarla. Non solo, sono riusciti a cementare attorno a loro anche il consenso di libanesi che non erano sciiti, ma neppure musulmani.

L’unione di questi tre fattori ha imbaldanzito gli sciiti, che si sono sentiti invincibili. L’Iran, nel 2005, aveva una situazione economica molto più florida di quella attuale, che permetteva a Teheran di finanziare tanto Hezbollah quanto movimenti sciiti nei paesi satelliti, sostenendo in Iraq elementi affini alla linea iraniana, stringendo ancor più i rapporti con la Siria di Assad. Lo sciismo politico si è così compattato. I nemici dell’Iran non sono stati certo a guardare, dando vita a un attacco profondo al mondo sciita, guidato dalle monarchie sunnite del Golfo Persico, guidato dall’Arabia Saudita. Una vera e propria proxy war (guerra per procura ndr), che aveva come obiettivi le comunità sciite dei propri paesi.

Riad ha iniziato a schiacciare la sua comunità sciita, fornendo poi appoggio ad altri paesi dove gli sciiti avevano alzato la testa. Il caso del Bahrein è il più eclatante: la monarchia sunnita al-Khalifa domina un paese a maggioranza sciita. I sauditi sono intervenuti a Manama anche con un contingente militare, mentre altrove utilizzano due direttrici di intervento: la propaganda televisiva e il sostegno economico ai movimenti anti sciiti, esportando la tensione interreligiosa fino al Pakistan e all’India islamica, dove il conflitto sunniti – sciiti è di vecchia data. In Pakistan il conflitto assume toni molto duri, contando una quotidiana statistica di vittime. Questo quadro ha generato un inasprimento del conflitto tra sunniti e sciiti nel mondo musulmano, intendendo con questa definizione semplificata per motivi di tempo e di spazio, tutta quell’area geografica dove l’Islam è maggioritario e legato al governo del territorio. Quello tra sunniti e sciiti non è un conflitto religioso, se non in modo strumentale. E’ un conflitto tutto politico ed economico. Un esempio: gli sciiti in Pakistan sono la componente più povera della società, come gli sciiti in Afghanistan, soprattutto la comunità degli hazara, vessata dai taliban prima e dall’attuale governo adesso.

L’Afghanistan è un ottimo esempio di come il conflitto possa essere manipolato da elementi religiosi. Non molto tempo fa il presidente afgano Karzai propose di accontentare la comunità sciita afgana consentendo a livello di diritto di famiglia il matrimonio temporaneo, istituto valido solo nel mondo sciita. Un uomo può, oltre le quattro mogli ufficiali, stipulare un vero e proprio contratto con una donna, che è moglie per un periodo da un giorno a 99 anni. Usanza che origina all’alba del cammino musulmano, ma molto discussa anche tra gli stessi sciiti. Non solo donne, ma anche teologi sciiti ritengono questa pratica un arbitrio e Karzai ha riaperto una vecchia ferita nel mondo sciita, strumentalizzando la tensione tra sunniti e sciiti, aggravando la frattura tra le due comunità, fingendo di concedere un privilegio agli sciiti e fomentando la polemica al loro interno. Oltre che, implicitamente, sottolineando ‘l’inferiorità’ degli sciiti, sottolineando questo costume degli sciiti screditandoli agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, occidentale come musulmana. Anche perché, per esempio dal punto di vista economico, il governo Karzai è tutt’altro che favorevole alla comunità sciita.

I rapporti sono sempre stati così tesi, così strumentalizzati?

L’ostilità politica al mondo sciita risale ad almeno 35 anni fa. L’Arabia Saudita guida questo blocco, che nasce più o meno ai tempi della rivoluzione in Iran alla fine degli anni Settanta. Fin da subito, a Teheran, c’è stata non solo la rivoluzione islamica, ma la rivoluzione islamica degli sciiti, con l’Iran che ha tentato di esportare la sollevazione popolare anche al di fuori dei suoi confini. All’inizio in modo ecumenico: il leader spirituale sciita, l’ayatollah Khomeini, all’inizio spingeva sul criterio della fratellanza, non della divisione. Ma le monarchie del Golfo si sono subito messe sulla difensiva, vedendo nell’esempio iraniano un pericoloso precedente per le comunità sciite all’interno e per sollevazioni popolari contro monarchie corrotte. Dall’epoca è stato creato attorno all’Iran una sorta di cordone sanitario, appoggiando anche le sanzioni della comunità internazionale in anni recenti, per la questione nucleare, che hanno di fatto messo in ginocchio l’Iran e hanno indebolito la leadership di Ahmadinejad.

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Anche per un accerchiamento internazionale sempre più soffocante.

Certo. Dubai, ad esempio, per la leadership iraniana era un’isola felice. Tutti gli stati del mondo, anche quelli che in modo apparente e ipocrita appoggiavano le sanzioni all’Iran, utilizzavano gli Emirati Arabi Uniti e Dubai in particolare per commerciare con l’Iran. Non a caso a Dubai si era istallata una comunità iraniana folta, ricca, influente. Che è stata costretta a migrare quando le autorità emiratine sono state messe sotto pressione e costrette a chiudere i canali finanziari e di commercio con Teheran. Insisto: il problema non è tanto di ordine religioso, quanto politico ed economico.

Una flessione dello slancio quasi internazionalista della gestione Ahmadinejad, quindi, c’è stato?

Il colpo viene accusato, non c’è dubbio, e questo comporta una flessione della spinta sciita nel mondo. La nuova presidenza Rohani smusserà questo protagonismo, mentre Assad in Siria è in grande difficoltà come Hezbollah in Libano, che a livello di fondi ha visto calare notevolmente i suoi flussi di cassa. Al pari di questo, però, il conflitto sunniti-sciiti è stato cavalcato per anni, contribuendo al suo allargamento a regioni che fino a ora ne erano estranee. La piccola comunità sciita egiziana, ad esempio, conosce vessazioni inusuali, come in Marocco e in altre zone del Maghreb. La tensione di estende, anche perché c’è chi ha interesse a dipingerlo come un conflitto religioso invece che per quello che è: un conflitto politico-economico.

La Siria. Quanto ritiene cruciale il conflitto nell’ottica di quell’asse che da Hezbollah portava fino all’Iran?

In Siria la contrapposizione non è tanto quella tra identità sunnita e identità sciita, ma è la presenza dell’Iran che porta in campo l’elemento dello sciismo. Molti elementi, però, sono in movimento. Il cambio della guardia alla presidenza della Repubblica in Iran, ad esempio, tra Ahmadinejad e Rohani. La presidenza, in Iran, non è così determinante, così cruciale, in quanto figura all’interno di uno scacchiere di alleanze e contenitori politici che hanno bisogno l’uno dell’altro per legittimarsi. Rohani, da solo, non cambierà tutto, ma di sicuro l’Iran ha preso le distanze dalla questione siriana, seppur con messaggi contraddittori sia da parte di Ahmadinejad che da parte della Guida Suprema Khamenei. Nessuno disconosce la vicinanza, ma questo legame è diventato ingombrante.  Sia perché in molti, all’interno dell’Iran, hanno ritenuto eccessive le risorse investite nel sostegno alla Siria, in particolare considerando la difficile situazione economica interna, sia perché la vittoria dei moderati non sarebbe avvenuta comunque senza un certo interessamento della Guida Suprema e dei forti centri di potere. Uno sganciamento quindi è molto probabile, senza strappi clamorosi, ma tatticamente è un segnale di realpolitik: se l’amicizia con gli Assad diventa troppo onerosa, in termini politici ed economici, si assisterà a uno smarcamento. Anche perché la questione siriana, in generale, è ambigua. Non solo dal punto di vista del disimpegno occidentale, anche all’interno del mondo musulmano. Quest’ultimo ha criticato aspramente, in passato, l’interventismo militare Usa, ma oggi tentenna di fronte alla Siria. Anche perché sull’opportunità della rimozione di Assad ci sono pochi dubbi, ma la composizione dell’opposizione siriana è scappata di mano e gli scenari futuri sono opachi.



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