Basaglia a Gaza

Il dottor Eyad El Sarraj, morto di cancro, aveva fondato il primo e più importante centro di cura della salute mentale nella Striscia nel 1990

di Paola Caridi, da InvisibleArabs

20 dicembre 2013 – Tanto per far capire chi era, la sua passione, la sua carica visionaria, il suo coraggio, la sua chiarezza, basterebbe fare un paragone immediatamente digeribile da un lettore italiano. Era, a suo modo, il Franco Basaglia di Gaza. Eyad al Sarraj è stato il Basaglia di Gaza. Per tanti motivi. Perché, anzitutto, aveva fondato il primo e il più importante centro di cura della salute mentale nella Striscia, nel 1990, combattendo – anche lui – una lunga battaglia contro i pregiudizi culturali.

La società palestinese, a Gaza soprattutto, è ancora molto tradizionale, e non potrebbe essere altrimenti: la sua storia più recente si fonda sull’arrivo di centinaia di migliaia di profughi palestinesi cacciati dai loro luoghi di origine e nascita, da tutta l’area alle spalle del breve tratto di costa che parte dall’attuale Ashkelon sino al confine con il Sinai egiziano. Una manciata di chilometri di costa, in cui si sono riversate centinaia di migliaia di persone nel giro di pochissimo tempo, dopo il 1948. L’attaccamento alla tradizione, alla conservazione degli usi, è stato per i profughi un modo per non sfaldare una società che doveva invece rimanere, per quanto possibile, salda, seppur sradicata.

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Di quella massa di profughi faceva parte anche il dottor Eyad El Sarraj, morto martedì scorso dopo una battaglia durata anni e anni contro il cancro. Era nato nel 1944 a Bir Saba, l’attuale Beersheva, alle spalle – appunto – della costa di Gaza. Dei profughi conosceva, dunque, non solo la carta d’identità culturale, ma le dinamiche sociali. E da psichiatra, quale era, aveva tentato di dare sostegno agli abitanti di Gaza non solo in quanto profughi, o figli o nipoti o pronipoti di profughi. Ma in quanto vittime del conflitto.

È stato lui il primo a parlare delle sofferenze dei gazani per le conseguenze dei bombardamenti da parte israeliana, dei morti uccisi, dei lutti nelle famiglie, dei traumi da conflitto, dell’embargo e della chiusura della Striscia. È stato lui il primo a curare i palestinesi di Gaza per una sofferenza psichica di cui tutti, ancora oggi, si dimenticano. Lui il primo a superare le barriere culturali della società palestinese di Gaza, che – però – a me sembrano ben più superabili dell’indifferenza di chi vive fuori da Gaza. Di israeliani, egiziani, europei, americani, arabi…

Eyad El Sarraj era un uomo di Gaza, un intellettuale e un attivista che ha tentato sino alla fine di usare il suo ruolo per riportare conciliazione all’interno della politica palestinese. Di far superare la frattura tra Hamas e Fatah. Se lo poteva permettere: a Gaza lo conoscevano tutti, e tutti gli portavano rispetto, o avevano timore della sua statura. Non ci è riuscito, nel tentativo di riconciliare, e dopo la sua morte tutto è ancora più difficile. Così come è difficile, ogni giorno di più, far comprendere quello che scriveva assieme a un altro attivista, l’avvocato Raji al Sourani, nel 2011 sulla deumanizzazione della gente di Gaza e sulla nostra indifferenza.

“Un milione e ottocentomila abitanti di Gaza rimangono rinchiusi dentro la più grande prigione all’aperto del mondo – scrivevano -. La comunità internazionale non può permettere che questo crimine continui a essere perpetrato. I palestinesi debbono essere trattati come uguali e i loro diritti umani debbono essere rispettati e protetti”. Concetti semplici, chiari, e nello stesso tempo lontani da noi, dalla nostra capacità di comprenderli e agire di conseguenza, a cinque anni da quella guerra, l’Operazione Piombo Fuso, attraverso la quale Israele in 22 giorni piegò Gaza con bombardamenti pesantissimi e un numero di morti e feriti su cui non si è ancora ragionato quanto si dovrebbe.

Eyad El Sarraj è morto mentre la Striscia di Gaza è travolta dall’ennesima crisi umanitaria, per le alluvioni di questi ultimi giorni. Come se, anche prima delle alluvioni, non fosse già, da anni, dentro una crisi umanitaria costante, continua, come una lentissima agonia…E Gaza oggi ha perso una delle sue voci più ferme, serie, alte.

Nota personale: l’ho incontrato una sola volta, nella sua casa nel cuore di Gaza City. E anche quella volta Gaza stava facendo i conti con un’alluvione. Il suo giardino era rigoglioso, la sua casa mi ricordava le case egiziane, il suo modo di ricevere l’ospite altrettanto. Era già malato, lo si sapeva, e lo sapeva molto bene lui, medico. Stavo scrivendo il mio libro su Hamas, avevo bisogno di capire il movimento islamista e il suo rapporto con la gente di Gaza. Sarraj era l’uomo che meglio me lo poteva spiegare, e così fu. Abbiamo parlato per ore e ore, in una Gaza come sempre piegata. Uno dei privilegi rari che mi ha concesso la mia storia professionale in Medio Oriente.



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