Tristezza e confini

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/12/1474942_10152145986573982_1364540848_n.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandra Mainini. Sono nata nel 1982 nella provincia di Milano, sono antropologa e faccio ricerca a Istanbul, dove ho vissuto per diversi periodi studiando e lavorando. Il mio punto di vista è visuale, ovvero: mi interesso di tutto quanto si rende visibile, l’apparenza come sostanza, lo stile come impronta. A Istanbul indago il modo in cui le persone che abitano mettono in scena il loro abitare, la casa essendo il luogo in cui si materializzano i valori, i sentimenti, le scelte morali e politiche in senso lato. Il blog: Kiz Reporter[/author_info] [/author]

1 gennaio 2014 – Sono triste tutto il giorno. Da ieri sera. Vorrei raccontare ogni episodio della mia vita qui per rendere l’idea di quanto schizofrenica è la mia esperienza di straniera. Ad esempio, non avendo un “posto fisso” dove mangiare, per andare sul sicuro senza pensare troppo alla qualità e al prezzo, mi aggiro per le strade di Kadıköy come se la preda fossi io, mentre in realtà sono io che voglio la carne, e precisamente avvolta in un dürüm di yufka ben tostata, e possibilmente senza immasticabili petti di pollo interi dentro e senza troppe patatine fritte dentro.

Ho l’impressione che se mi fermassi a ponderare qualcuno parlerebbe di me. Direbbe: –Guarda, quella, che si è fermata. Ma cosa fa?–

Settimana scorsa le mie orecchie hanno assistito ad una tenera scenetta di imbarazzo sul dolmuş. Giovani genitori, probabilmente provenienti da una piccola cittadina dell’Anatolia, con un bebé tutto bello imbacuccato e un paio di borsoni. Devono scendere in prossimità di una moschea, ma non sanno bene dove si trova. La loro apprensione cresce mano a mano che il paesaggio scorre dal finestrino. Lui vuole fingersi sicuro e dice: –No, è più avanti..–

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Ma mentre il pulmino procede, si incrina la sua fiducia e lei comincia a proporre di chiedere all’autista. E lui: –Ma no. Ma cosa vuoi chiedere?–

–“Signor autista ci fa scendere vicino alla moschea X?” Fanno così, ho sentito io!–

–Ma no, dai, lascia stare. Arriviamo fino a giù, al capolinea, e poi risaliamo a piedi.–

­–Immagino a questo punto (erano dietro di me) che lei abbia guardato bebé e borsoni e abbia preso la decisione: – Chiedo?– e lui arrendendosi: – Chiedi.–

La sensazione che qualcuno possa parlare male di te è uno spettro sempre all’erta. Un altro aneddoto che mi viene in mente è sempre sul dolmuş. Forse che attraverso di esso passi la convalida per la tenuta da vero cittadino? Spero che in italiano si capisca la mia ironia. Una ragazza sui vent’anni, molto timida, velata, aspetto freschissimo di fiorellino, dopo circa dieci minuti di tentati sorrisi mi si china vicino e mi dice a bassissima voce:

–E’ la prima volta che prendo questo dolmuş, mi scusi! Ma si ferma al Capitol?– e ride di imbarazzo.

Io penso: “Ma certo cara ragazza, non è richiesto che tu conosca tutti gli itinerari di tutti i dolmuş di questa città enorme”.

Essere di Istanbul è certamente un valore aggiunto, per coloro che lo sono veramente. Chi non lo è, può sempre tentare la strada dell’extra-affermazione. Essa consiste nel ripetere almeno dieci volte “sono proprio di Istanbul” nei primi dieci minuti che ci si presenta con qualcuno. Per una mia amica non ci sono dubbi: i suoi genitori sono di Kayseri, una provincia lontana almeno dieci ore da Istanbul, ma lei essendo nata qui è una vera Istanbuliota. E dato che abita anche lei nella mia municipalità, ma mentre io sono nel centro, lei è distante quattro o cinque chilomentri, mi sono trovata in questo discorso, che inizia da lei: –Ah, ma tu abiti in centro!–

–Sì, ma per fortuna sono un po’ in disparte, altrimenti impazzirei con quella folla da mercato.–

–Ah, ma costano tanto le case, là!–

–Guarda, io sarò fortunata, ma pago solo trecento lire al mese.–

La sua faccia era quella di chi è invidiosa della centrale posizione altrui, e cerca di sminuirla, la mia reazione era di appeasement, dato che non considero per nulla centrale quel ammasso di negozi tutti uguali, dove la gente scorre e corre, cercando di non morire attraversando la strada con le automobili che accelerano quando vedono un pedone. Dunque contribuivo allo sminuimento, che per lei si concentrava sul mio essere centrale, ribaltando la logica quando si trattava di esaltare la sua centralità. Mentre decentrava me, accentrava se stessa.

Questo atteggiamento è opposto a quello che avevo finora conosciuto che fa leva sui rapporti di hemşehrilik, di provenienza dalla stessa città, memleket. Due sconosciuti di Sivas improvvisamente scoprono la loro hemşehrilik ed esibiscono un’intesa da amici di vecchia data. Che probabilmente è reale, poiché ci si riconosce in un paesaggio di pratiche e di tonalità inesplicabile ma effettivo. La città immaginata ha un confine preciso e grazie a questo può essere evocata. A Istanbul i confini scompaiono e siamo tutti cittadini, benché si dice che Istanbul rappresenti la Turchia intera. Secondo Cihan Tuğal, parlando del quartiere di Sultanbeyli (in “The Urban Dynamism of Islamic Hegemony: Absorbing Squatter Creativity in Istanbul”) ci sarebbe una connotazione politica nel riconoscersi o meno nei rapporti di hemşehrilik o nella grande cittadinanza metropolitana: gli appartenenti al centro-sinistra, benché fondino le loro relazioni sui rapporti di hemşehrilik, li misconoscerebbero pubblicamente, reputando retrogrado, tribale e akpeista l’atteggiamento di chi invece valorizza questo tipo di appartenenza. Cita un abitante di Sultanbeyli:

Friends, we have left our cities and villages and we have come to Istanbul. In Istanbul we have formed a lifestyle, but this lifestyle is definitely not from Kars, or from any other city. We have to live here as residents of Sultanbeyli, and we have to forget our hometowns.

Non bisogna per forza condividere questa osservazione di Tuğal, io non lo faccio, ma rimane comunque interessante.

Se adesso torniamo a me depressa per non sentirmi a casa durante le feste, che mi aggiro come un lupacchiotto affamato fra rotoli di carne di montone, che non mi fermo perché ho paura che escano fuori e i dicano “buyurun hoş geldiniz”, costringendomi alla fuga (perché io non entro solo perché me lo dici tu!), ma finalmente ricordo un posto dove mi sono sentita a mio agio e ho mangiato bene, e mi ci avvio con moderata decisione, ma appena vi entro, chiedo un et dürüm e il komi mi guarda con un espressione a metà fra un incredibilmente intenso divertimento e curiosità, ma anche canzonatura e mancanza di rispetto, fissandomi oltranzosamente negli occhi e infine proponendomi qualcosa che non mi aspetto, che quindi al momento non capisco, ma poiché sono straniera pensano che non abbia capito niente del tutto e mi traducono in malinglese: –Handired, handired! Yapim mi handired ghıram?– (c’era una versione şişko del dürüm più carica di carne, cento grammi) e se a questo punto mi getto nella più completa sconsolatezza, voi capirete, a questo punto, anche se ho volutamente messo su una frase alla Orhan Pamuk.

Mi siedo tristemente in uno scantinato piatto, e quando arriva l’ayran e il komi di prima mi chiede se voglio la cannuccia e io dico: –Sì– come se fosse “Certo che sì, non me la vuoi dare solo perché sono straniera?”, e poi inizio a bere senza, me ne rendo conto e inizio ad usarla solo per mostrare coerenza, capisco fino a che punto è arrivata la mia schizofrenia.

Uscita da lì, almeno so dove andare a bere il té. Al centro culturale Nazim Hikmet, dai comunisti! Mi sono appena infilata nella stradina e noto una chiesetta, che in tutti gli anni che vengo qui a rifugiarmi, non avevo mai notato. Esito un attimo, controllo: sì, è cattolica, sì è armena. Entro e faccio il segno della croce, per non destare sospetti (oggi all’ingresso in università, dato che c’era un gruppo raccolto a ricordare il massacro di Robosky, mi hanno chiesto per la prima volta chi fossi: vuol dire che faccio brutto).

In realtà mi sto decidendo una nuova identità, per stare comoda qui, per non rispondere sempre a domande che non mi faccio. Ma è un’identità di necessità, d’emergenza, che non mi piace, che non sono io; per questo ho nostalgia di casa, dove posso essere me stessa, senza giustificarlo sempre. In chiesa il prete dà le spalle ai fedeli, la messa è cantilenata, in armeno. Non sono nemmeno sicura se il segno della croce sia lo stesso. Ma quando esco mi sento come innaffiata da uno spirito fresco e verde, come se avessi fatto un salto a casa. Penso di essere ormai sulla strada giusta per il fondamentalismo, se l’appartenenza religiosa diventa un rifugio. Invece poi entro dai comunisti e anche qui mi sento a mio agio, mi sembra di essere al Circolone di Legnano.

Una mia amica guida la macchina anche con un dito rotto. È una matta spericolata ma guida fottutamente bene. Un giovanotto attraversa la strada mettendo in atto la solita danza della vita, alzando velocemente una chiappa dopo l’altra. Ma quando si accorge che alla guida c’è una donna, rallenta ostentatamente quasi a dire “non sarò certo io uomo a scappare da te femmina al volante”. Questo avviene nel “centro” dove abito io, a quaranta minuti da Kadıköy.



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