Lampedusa, immaginate un’Europa…

Dopo 10 ore di lavori, l’assemblea a Lampedusa ha approvato la versione definitiva della Carta che afferma la libertà di movimento, rifiuta la militarizzazione dei confini, propone nuove forme di accoglienza

di Giulia Bondi, da Lampedusa

2 febbraio 2014 – Immaginate un’Europa in cui nessuno possa essere detenuto per il semplice fatto di viaggiare. In cui non si investa denaro per difendere militarmente i confini, ma dove le stesse risorse vengano usate per garantire a chi fugge da persecuzioni la possibilità di muoversi in sicurezza. In cui non esistano centri di detenzione amministrativa, ma dove i soldi pubblici vengano impiegati per un’accoglienza diffusa sui territori.

Immaginare forse non costa niente, agire invece è impegno quotidiano: nella gestione di servizi di accoglienza per rifugiati a Caltanissetta, nell’occupazione di case da destinare ai migranti a Brescia, nell’organizzazione di cene interculturali a Forlì, nella gestione di corsi e tirocini in mezza Italia.

Ed è impegnativo e faticoso anche riunirsi a Lampedusa, discutendo per oltre dieci ore, fino ad approvare, sabato 1 febbraio alle 19.40, la Carta di Lampedusa, con il suo preambolo, la prima parte dedicata alle libertà, e la seconda parte dedicata alle proposte. Un “patto” tra i sottoscrittori e una base di partenza per azioni, proteste, lotte che continueranno, da Niscemi ad Amburgo, da Lampedusa a Gradisca d’Isonzo.

1560387_246683665511918_531176668_n

foto tratta dalla pagina Facebook della Carta di Lampedusa

“Ma che cosa abbiamo messo in piedi!”, dice Nicola Grigion, di Melting Pot, a metà pomeriggio, mentre l’assemblea discute, faticosamente, del capitolo della Carta dedicato alla militarizzazione dei confini. Intanto gli interventi si alternano, i traduttori traducono, le moderatrici si impegnano, con sforzi quasi equilibristici, a trovare formulazioni adeguate.

La difficoltà del lavoro collettivo si legge negli occhi di tutti. La pausa pranzo ha ritardato di un’ora e poi si è allargata di un’ora in più rispetto ai trenta minuti annunciati all’inizio, e impossibili da rispettare. Il bar dell’aeroporto di Lampedusa, dove si trova l’unica sala conferenze in grado di contenere i partecipanti, è rimasto chiuso. E fuori cade una pioggia battente, accompagnata da 30 nodi di vento.

“In questa discussione siamo tanti, di diverse provenienze. E dovremo fare tutti un passo indietro per poterne fare, insieme, dieci avanti”. Così aveva aperto i lavori Alessandra Sciurba, di Palermo, che insieme a Federica Sossi e Nicola Grigion si era presa la briga di elaborare, nelle scorse settimane, la bozza di documento dalla quale è partito il dibattito a Lampedusa.

E se tutti i presenti sono d’accordo sulla “chiusura dei centri di detenzione amministrativa”, la discussione invece si scalda su termini come “etnia”, “genere”, o “non violenza”. È un incontro tra attivisti, persone impegnate a vario titolo con i migranti, e ci vuole l’intervento di una studentessa di Lampedusa a ricordare di “non parlare troppo difficile”. Su certi punti ci si accanisce fino a diventare nervosi, su altri passaggi basta un applauso per capirsi, constatare il lavoro fatto, sancire la soddisfazione di essere tutti riuniti a immaginare lo stesso sogno.

L’incontro è anche l’occasione per diverse realtà di presentarsi, conoscersi, magari progettare di lavorare insieme su campagne affini: il gruppo LasciateCIEntrare che chiede la libertà di accesso ai Centri di identificazione ed espulsione per tenerne sotto controllo le condizioni; gli attivisti No Muos, che si battono contro il sistema di comunicazione satellitare che la marina statunitense intende installare anche a Niscemi, in provincia di Caltanissetta; l’associazione tunisina “Terres pour tous”, che chiede una commissione d’inchiesta per conoscere il destino di 501 ragazzi di cui dal 2011, da quando si sono imbarcati dalla Tunisia, non si hanno più notizie.

Lo sforzo è di coltivare l’utopia, “non nel senso di qualcosa di irrealizzabile, però”, precisa Alessandra Sciurba, “senza dimenticare la concretezza”. Rinunciare alla “singola frase cui ognuno di noi è affezionato” per riuscire ad arrivare a una formulazione sulla quale potersi incontrare tutti.

Ci si arriva, alla fine. Circa tredici pagine di documento – saranno venticinque se si conta anche la versione inglese – che affermano la libertà di movimento (gli esseri umani non possono essere divisi tra “chi è libero di spostarsi in base ai propri desideri e chi invece può farlo solo incontrando innumerevoli ostacoli”) e la libertà di restare. La libertà personale (non essere detenuti per il semplice fatto di avere viaggiato in un altro paese) e la “libertà di resistenza” (contro politiche tese a creare divisione, discriminazione, sfruttamento e precarietà).

La seconda parte, che si apre con il tema della smilitarizzazione dei confini, passa alle proposte: concrete per chi siede in questa sala, visionarie per grande parte del mondo “fuori”. Togliere risorse dalle spese militari e di difesa dei confini e investirle in scopi sociali e percorsi di arrivo garantito. Svincolare il diritto di ingresso e soggiorno in un paese al possesso di un rapporto di lavoro. Abolire il sistema dei flussi con quote d’ingresso negoziate con i paesi d’origine. Abolire il regolamento di Dublino, con i suoi effetti paradossali di rimpallare i migranti da un paese europeo all’altro.

Dare accesso a tutte le professioni, a un lavoro libero da sfruttamento, alle cure sanitarie, all’istruzione, alla possibilità di abitare in un luogo adeguato. Garantire nuove forme di cittadinanza (“ius soli europeo”). Sostituire il sistema dei campi e dei centri con attività di accoglienza condivisa e diffusa nei territori.

La lettura e l’emendamento del testo finiscono alle 19.40 e sono accompagnati da un lungo applauso: per chi ha tenuto la presidenza per quasi 10 ore, per chi ha tradotto, per chi ha garantito il funzionamento delle attrezzature tecniche e dello streaming.

Diritti e proposte ora sono scritti, ma non garantiti. Saranno da affermare ogni giorno, una volta tornati a Tunisi, ad Amburgo, a Rimini e a Niscemi. “Ora possiamo cominciare a firmare la Carta, a nome delle varie associazioni che rappresentiamo”, conclude Nicola Grigion, “e da domani dovremo continuare a darci da fare, per raccogliere nuove adesioni e per metterla in pratica. Perché possa diventare una fonte di cambiamento culturale, politico e sociale”.



Lascia un commento