I fantasmi di San Berillo

Opera vincitrice del premio come “miglior film” al 31° Torino Film Festival nella sezione Italiana.doc, racconta le trasformazioni e le mutazioni del quartiere San Berillo di Catania. 

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/Juri-Saitta.jpg[/author_image] [author_info]di Juri Saitta. Nato nel 1987, laurea triennale in “Scienze della Comunicazione” e laureando in “Discipline cinematografiche. Storia, teoria, patrimonio” al DAMS di Torino. Appassionato di cinema praticamente da sempre, collabora da qualche anno con la rivista e il sito “FilmDOC”.[/author_info] [/author]

 

9 febbraio 2014 – Narrazione, osservazione e analisi: sono questi i tre elementi su cui si fonda I fantasmi di San Berillo, opera con la quale il regista Edoardo Morabito ha vinto il premio come “miglior film” al 31° Torino Film Festival nella sezione Italiana.doc. Attraverso il materiale d’archivio, l’opera racconta le trasformazioni e le mutazioni del quartiere San Berillo di Catania – dal piano “case popolari” al blitz antiprostituzione –  mentre con diverse interviste getta uno sguardo sull’attualità del quartiere e i sui suoi abitanti.

Durante le conversazioni e le osservazioni, la telecamera è sempre molto vicina ai volti e ai corpi dei soggetti, rendendo evidente l’intenzione dell’autore di cogliere in loro qualcosa di più profondo e di più nascosto rispetto a quanto dicono le parole. Alcune volte tutto questo risulta eccessivo, forse a tratti persino un po’ morboso, ma in altre occasioni la vicinanza riesce felicemente a passare dal particolare all’universale: è il caso di una delle prostitute intervistate, della quale le rughe del volto, le espressioni e gli occhi diventano il segno e il simbolo di un quartiere, e di un Paese, che ha attraversato e sta attraversando anni bui, anni in cui la speranza lascia il posto alla mera sopravvivenza quotidiana.

 

prostituta

 

Eppure, l’attenzione per i volti e i corpi dei “protagonisti” non risulta l’aspetto più importante del documentario, che trova invece il suo punto di forza nell’uso del materiale d’archivio. Quest’ultimo viene impiegato sia per la narrazione sia per l’analisi critica. Se, naturalmente, i filmati d’epoca mostrano la San Berillo di ieri, assumendo così una funzione memoriale, è altresì chiaro che, soprattutto quando contrapposti e connessi alle immagini “attuali”, i materiali aiutino a commentare le conseguenze di certe politiche e di certe retoriche.

 

locandina

 

Due sono gli accostamenti particolarmente significativi. Il primo sottolinea la desolante situazione attuale, “confrontando” la vitalità della San Berillo degli anni ‘50 con le tristi immagini contemporanee, nelle quali dominano strade deserte, palazzi degradati e un silenzio costante. Il tutto è evidenziato paradossalmente da una fotografia dai colori accesi e dalla luce talvolta sovraesposta, la quale è volutamente contrastante con le desolanti immagini rappresentate. La seconda “contrapposizione” riflette, invece, sulla retorica della comunicazione del potere, “comparando” le riprese del regista ai cinegiornali e ai notiziari televisivi d’epoca. Mentre questi ultimi annunciavano un grande piano governativo per le case popolari, le prime mostrano il quartiere degradato di oggi, evidenziando la falsità propagandistica delle passate dichiarazioni, oltre agli infimi risultati di una politica più attenta agli appalti che agli abitanti.

Così, risulta evidente che nel film vi sono più fantasmi: vi è il fantasma di una vitalità cancellata dal sistema economico-sociale, il fantasma delle speranze dei singoli e, infine, il fantasma di un quartiere bistratto e dimenticato. Nel documentario vi è però un ulteriore fantasma: quello della nostra completa comprensione. È il film stesso a dichiararlo attraverso un testo letto da Donatella Finocchiaro, in cui si narra di una ragazza che non riesce, nonostante vari tentativi, a capire profondamente coloro che abitano al piano inferiore al suo perché esterna e, in qualche modo, “privilegiata”. Una palese metafora con cui l’autore annuncia una sorta di senso d’impotenza.

Morabito, infatti, pur avendo osservato e frequentato la zona per quattro/cinque anni, dichiara la sua effettiva difficoltà a capire pienamente la situazione collettiva e individuale di chi abita nel quartiere. Una dimostrazione di onestà intellettuale, dunque, che coinvolge anche noi spettatori, i quali vediamo con gli occhi e lo sguardo del documentarista. Di conseguenza, il fantasma definitivo riguarda in prima istanza noi e la nostra capacità di comprendere profondamente contesti che sentiamo distanti dai luoghi in cui viviamo quotidianamente.

 

 



Lascia un commento