Bosnia – Erzegovina, aspettando il domani

Un paese disfunzionale, paralizzato da veti incrociati, tensioni nazionali e posizioni di privilegio ormai consolidate

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-15-alle-20.39.17.png[/author_image] [author_info]di Francesca Rolandi. Storica, ha portato a termine un dottorato in Slavistica e si occupa di studi sulla Jugoslavia socialista. Ha vissuto a Belgrado, Sarajevo, Zagabria e Lubiana e ha provato a raccontarle per PeaceReporter, Osservatorio Balcani Caucaso, Cafebabel e Profili dell’Est[/author_info] [/author]

“Cent’anni dopo l’attentato a Francesco Ferdinando, […] la Bosnia manda un forte richiamo al risveglio”,  recita una lettera aperta a sostegno dei manifestanti bosniaci, firmata da trenta intellettuali di fama mondiale, tra cui Tariq Ali, Etienne Balibar, Noam Chomsky e Antonio Negri.

Da ormai una settimana i cittadini bosniaci scendono in piazza ogni giorno, chiedendo una svolta nella politica bosniaca, mentre nelle maggiori città della Federazione croato-musulmana sono stati formati dei plenum, che hanno esposto  le loro richieste. In cima a tutte si trovano le dimissioni dei vertici della Federazione, incluso quelle del premier Nermin Niksic.

La protesta è iniziata il 5 febbraio a Tuzla, che gode della fama di essere una delle poche città bosniache che ancora ha conservato uno spirito antifascista. Iniziata con una rivolta di cittadini e lavoratori di imprese devastate dai processi di privatizzazione a Tuzla, frettolosamente nominata “primavera bosniaca”, vedeva un’inedita alleanza tra gruppi di cittadini e lavoratori delle imprese che erano rimaste vittime delle privatizzazioni selvagge. La sede del cantone di Tuzla, che viene all’inizio difesa a colpi di lacrimogeni e manganelli dalla polizia, poi abbandonata e messa a ferro e fuoco, aveva essa stesse un significato simbolico, essendo essa stessa stata in precedenza proprietà della SODASO, un ex kombinat – complesso di stabilimenti industriali – dell’epoca jugoslava, i cui dipendenti erano passati nel giro di un decennio e attraverso una privatizzazione controversa da 2500 a 450.

 Bosnia protester

Sebbene inizialmente la risposta delle altre città bosniache era sembrata tiepida, la situazione ha avuto un’escalation venerdì 7, quando gruppi di manifestanti hanno dato fuoco a sedi istituzionali e di partito in diverse città della Bosnia Erzegovina, in particolare in quelle che erano state centri industriali di un’industria che non c’è più. Le immagini dei palazzi del potere in fiamme, trasmesse dai media nazionali, hanno avuto un impatto emotivo particolarmente forte, richiamando altre immagini ben più drammatiche. Inoltre, hanno offerto il braccio a chi, in primis l’attuale classe politica, aveva interesse a ridurre il malcontento a un fenomeno di vandalismo.

Sullo sfondo una situazione bloccata, quella di una Bosnia Erzegovina modellata dall’accordo di Dayton, che pose fine alla guerra nel 1995, ma a prezzo di creare un paese disfunzionale, paralizzato da veti incrociati, tensioni nazionali e posizioni di privilegio ormai consolidate. Dove i molti politici dei diversi livelli di governo (federazione, entità, cantone, municipalità) sono tra quelli meglio pagati nella regione, mentre la disoccupazione raggiunge numeri astronomici.

Si è trattata di una vittoria per la cittadinanza, che ha portato con le sue proteste alle cadute di molte teste (i primi ministri dei cantoni Sarajevo, Tuzla, Zenica-Doboj e Tuzla, oltre a un coordinatore delle forze di polizia), mentre resiste disperatamente, arroccato sulla sua poltrona, il primo ministro della Federazione Nermin Niksic. Che non cancella una grande perdita, quella di una parte dell’archivio della Bosnia Erzegovina, sopravvissuto alla guerra degli anni ’90, che era stipato nei sotterranei del palazzo della Presidenza della Bosnia Erzegovina.

Le sei domande che nei giorni scorsi la cittadinanza di Tuzla ha formulato hanno un colore progressista e populista allo stesso tempo, chiedendo un nuovo governo con facce nuove, inchieste sulle privatizzazioni sporche del passato, l’eliminazione dei privilegi della classe politica. Le domande presentate dal gruppo “Jer mi se tice” [Perché questo mi riguarda include la creazione di un welfare state e maggiori diritti per i lavoratori. In nessun caso le proteste hanno assunto un carattere nazionale, nonostante i  vertici dell’entità della Repubblica serba di Bosnia dichiarino che le proteste della vicina entità sarebbero dirette contro la propria.

Ma forse l’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina – una figura super partes prevista dagli accordi di Dayton, che percepita da molti come un simbolo della situazione di protettorato della comunità internazionale in cui la Bosnia Erzegovina si trova – Valentin Inzko non ha avuto tempo di informarsi prima di sottolineare, in un’intervista all’austriaco “Kurier”, il carattere nazionale delle proteste (“a protestare sono soprattutto i bosgnacchi”) e di balenare la possibilità dell’invio di truppe europee. I governi vicini, croato e serbo, hanno seguito con preoccupazione l’evolversi della situazione e si sono affrettati ad incontrare i rappresenti croati e serbi di Bosnia Erzegovina. Secondo l’analista politico Adnan Huskic, a far dormire sonni difficili alla classe politica croata e serba sarebbero, più che l’integrità dell’entità serba o la posizione dei croati nella Federazione, dalla possibilità di un contagio nei propri paesi, dove esistoo molte delle cause scatenati della ribellione bosniaca.

La piccola e disastrata Bosnia Erzegovina, bloccata nel suo sistema politico, dilaniata dalle questioni identitarie e dal malcostume politico, sta dando una lezione alla regione? O addirittura anche oltre, in un’Europa che, anziché integrare l’Europa orientale nel continente, a venti anni di distanza, sta diventando essa stessa più simile a un paese in trappola in un’eterna transizione, svendendo i suoi diritti sociali?

Secondo Andrej Nikolaidis, intellettuale e scrittore, sarajevese di nascita, decisamente sì. A suo parere, in un articolo pubblicato su “Al Jazeera Balkans”, il gioco attraverso il quale le élité nazionaliste proteggono il ‘loro popoli’ dalle minacce costituite dagli altri popoli, mentre amministrano irresponsabilmente la cosa pubblica, avrebbe i giorni contati. Più in generale, gli eventi bosniaci dimostrano chiaramente che il processo di democratizzazione è un contenitore vuoto, qualora non coincida con l’abdicazioni ai diritti sociali. E che l’attivismo basato sui concetti di cittadinanza può raggiungere fasce più ampie della popolazione solo se si coniuga a concetti più ampi, a partire da quello del lavoro.

Questo inverno è stato tra i più caldi dell’ultimo secolo, anche nella fredda Bosnia Erzegovina, abituata a temperature polari e nevicate copiose. Gli inverni caldi, si sa, portano molti rischi per la vegetazione, che inizia a germogliare in anticipo per poi soffrire delle tarde gelate.

 



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