Cuba on the road

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/ValeB.jpeg[/author_image] [author_info]di Valeria Barbi. Ricercatrice per lavoro, viaggiatrice per vocazione e scrittrice per passione. Si occupa di politiche climatiche e tutela dell’ambiente. Ha molte passioni. Una di queste è dare sempre e comunque la propria opinione. Anche quando non è richiesta. Tende a non farsi condizionare dalle regole ma a vivere le proprie emozioni. Ha deciso di restare in Italia (per ora) per vedere chi la spunta tra la sua instancabile forza di volontà e questo Paese immobile[/author_info] [/author]

 

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20 febbraio 2014 –
È difficile non parlare di sé stessi quando si parla di un Paese che si ha visitato. E forse lo è ancora di più quando si parla di Cuba, la Isla Grande. È difficile perché la forma mentis occidentale viene messa costantemente alla prova dalle sue enormi contraddizioni e da una singolare tradizione di “resistenza quotidiana”. Eppure, se si vuole tentare di comprenderla, è necessario tenere in considerazione una moltitudine di elementi che ancora oggi contribuiscono a farne un mito intergenerazionale: l’ideologia imperante, il capitalismo, il razionamento del cibo, il cubano Fidèl e l’argentino Che, la rivoluzione, il fallimento del regime comunista e la demonizzazione dell’imperialismo americano.

Nei 19 giorni trascorsi a percorrere Cuba in lungo e in largo per oltre 3500 chilometri, credo di aver avuto la fortuna e il privilegio di vederne le più svariate sfaccettature, dalle strade deserte della Sierra Maestra dove nel dicembre del 1956 si rifugiarono i guerriglieri del Movimento 26 de Julio sopravvissuti allo sbarco del leggendario Granma, ai resort 5 stelle all inclusive dei Cayos, dove orde di vacanzieri da “pago-pretendo” si fanno immortalare a bordo piscina con il cappellino natalizio e una Pina Colada in lattina.

Eppure, la sensazione di non averne colto fino in fondo il segreto, permane. Così scavo a fondo oltre la superficie, oltre la percezione di immobilismo e incuria che si ha percorrendo le strade di l’Habana Vieja, dove i bellissimi palazzi barocchi sono in ristrutturazione grazie ai fondi dell’UNESCO. Vado oltre le immagini dei perenni nostalgici della Cuba di Batista, col suo glamour convenientemente fotogenico: scorrazzano per il Malecòn di l’Havana, con i loro taxi anni cinquanta rubati ad un film della Disney, urlanti, mentre alzano le braccia al cielo. Sembrano i protagonisti di una pellicola d’epoca, trasportati dalla musica caraibica alla radio, assetati di mojito  e visibilmente eccitati dal clacson che i taxisti suonano a ripetizione.
Sono gli stessi turisti che incontri alla Casa de la Musica, un tempo patria della musica cubana, e ora rifugio di sedicenni volgari nei modi e tristi negli occhi, abbracciate ad europei attempati che cingono loro i fianchi come fossero trofei. A stonare con la fatiscenza dei palazzi circostanti, una BMW Serie 3. Ultimo modello. Scelta interessante se si pensa che una più modesta Peugeot 508, il cui prezzo base di listino, in Italia, è di 25 mila euro, a Cuba costa circa 263.185,50 pesos, pari a oltre 192 mila euro. Una cifra esorbitante considerando che lo stipendio medio mensile di una guida turistica autorizzata che lavora nei parchi della regione di Guantanamo si aggira sui 15 CUC. Come Ernesto, che lavora da 10 anni come guida all’interno del Parque de Humboldt: guadagna 350 pesos nacionales al mese (pari a 15 CUC e, quindi, a 15$), ma può riuscire ad accaparrarsi un premio di 15 CUC in più a trimestre se la valutazione del suo capo è buona e se non prende alcun permesso per malattia.

I proprietari della BMW, cubani, hanno accompagnato le loro giovani e provocanti donne nel locale. Uno di loro inizia a fotografarne l’ingresso con un IPad originale, quasi a volerci ricordare che a Cuba i ricchi esistono, e non sono poi così pochi. Sono i beneficiari del periodo especial, la crisi economica che imperversò subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica. In quel periodo fu autorizzato l’ingresso di dollari nel paese e fu creato un piccolo, e controllato, settore di lavoratori in proprio, soprattutto nel campo del turismo. Negli anni novanta aprirono i Paladares – ristoranti privati a gestione familiare – e le note casas particulares. E il mercato nero cominciò a fiorire.

Ma sono anche i cubani che beneficiano delle rimesse dei familiari all’estero e che grazie a queste possono sperare di aprire un’attività. Così come i tanti fortunati che, dopo la rivoluzione, si sono ritrovati ad abitare in una delle belle case coloniali, con un patio rigoglioso di piante tropicali e un numero indefinito di stanze, situate nei quartieri di Vedado o Habana Vieja. Negli anni Novanta hanno ottenuto dal Governo la licenza per affittare camere ai turisti e ora guadagnano in media tra i 25 CUC e i 35 CUC a stanza, a notte. Colazione esclusa.

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Sono orgogliosi della loro proprietà. Si vede da come puntano continuamente l’accento su ciò che è loro: terrazza, molo privato sul mare, lavatrice, donne di servizio. Ne hanno tante, tutte di colore e tutte gentili. È così che ti accorgi che a Cuba esiste una chiara e ben definita forma di classismo: ci sono i poveri, ci sono i ricchi, c’è una classe medio-borghese che si sta sviluppando in tutta fretta. E poi ci sono i bianchi, proprietari di casas particulares, freddi imprenditori in erba che ti trattano in maniera servizievole finché non paghi loro l’affitto, e ci sono i neri che passano la mattina a pulirne i davanzali con secchiate d’acqua, ti sorridono e ti chiamano “mi amor” facendoti sentire a casa.

Letycia è stata la prima affitta-camere che ho incontrato. Nel mio ultimo giorno a L’Havana, prima di avventurarmi per le strade dell’isola, mi sono seduta con lei a bere un succo di Guyana e ne ho approfittato per parlare un po’. Mi ha spiegato che non lascerebbe mai il suo Paese. Che ha viaggiato: è stata anche in Svezia! «Ma chi vive a Cuba e se ne lamenta non sa che fortuna ha. Qui il popolo denigra il suo paese. Imbratta strade e muri. Ma io credo che uno debba dare valore a quello che possiede». Annuisco, pensando a casa. «Sai, io non so cosa significhi pagare un medico. In Europa una visita costa moltissimo. Ma da noi puoi farti qualsiasi esame senza sborsare un pesos. Mia mamma va dal medico quasi tutti i giorni, per abitudine. E poi – prosegue – voi lo sapevate che a Cuba tutti hanno una casa di proprietà? Certo, succede che spesso vi vivano fino a tre generazioni ma… Ma ce l’hanno. Non sappiamo che cosa sia una bolletta. Persino l’acqua ci costa 10 pesos nacional al mese. Indipendentemente da quanta ne utilizziamo. E soprattutto, qui nessuno muore di fame. Il Governo ci dà anche da mangiare».
Più tardi, nel corso del viaggio, avrei conosciuto Alejandro, autista e proprietario del taxi particular che mi ha portato da l’Havana a Vinales, ultima tappa del viaggio. È stato lui a spiegarmi che è vero che il Governo, attraverso le tessere di razionamento, assicura del cibo a tutti. Ma c’è già chi parla della loro imminente scomparsa. Sopravviverà solo per i pensionati e i bambini. Il governo cubano è in crisi e dai libretti, che fino a qualche hanno fa garantivano caffè, riso, uova, carne di maiale – quella di mucca si trova solo al mercato nero – banane, farina, fagioli e altri beni di prima necessità, ora sono spariti alcuni beni considerati di lusso. Come l’olio, la carta igienica, il sapone, lo shampoo, il latte. «È per questo che per strada i mendicanti chiedono sapone e non soldi. Non ce l’abbiamo più e per alcuni, comprarlo, è una spesa troppo ingente».

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Ci sono sempre più soldi a Cuba. E si vede. Fino a qualche anno fa ai cubani era impedito l’accesso ai cayos e agli hotel. Ora possono prenotare una stanza d’albergo in tutta tranquillità. Il problema è che la maggior parte di loro non ha i soldi per farlo. Le strade della capitale, e di grandi città come Cienfuegos, Camaguey e Santa Clara, pullulano di saloni di bellezza e boutique alla moda. C’è più abbondanza. La qualità della vita è potenzialmente migliorata ma l’accesso ai beni e ai servizi di lusso resta un privilegio dei ricchi e della nascente classe borghese. I salari restano invariati e il costo della vita aumenta.
Percepisco che con l’autista del taxi particular che ho contrattato posso spingermi un po’ più in là e così inizio a parlare di Fidel Castro. Lui si lascia andare ma negli occhi della sua ragazza, seduta a fianco a lui, noto un po’ di timore. E così, ad ogni frase forte che lui si fa sfuggire, lei aggiunge un frettoloso «sì ma… Questo è quello che dice il pueblo, non lo stiamo dicendo noi».

E così vengo a sapere che Castro è sposato ma nessuno sa chi sia sua moglie. Che ha molti figli. Uno di questi vive negli Stati Uniti mentre gli altri scorrazzano per l’Havana e sono noti per abuso di alcool e droga. Le loro dichiarazioni mi lasciano interdetta. Parliamo del Che, del mito a cui ancora oggi i vecchi rivoluzionari e le nuove generazioni sono attaccati. Per capirlo basta andare a Santa Clara e sederti nella piazzetta principale, il giovedì, quando dalle venti alle ventuno suona la banda cittadina. Allora può capitare che un gruppo di adorabili signori anziani, vestiti in abiti eleganti, si stupisca che la sottoscritta, una ragazza piuttosto giovane, si fumi da sola un cubano senza essere presa da nausea ed emicrania, e attacchino bottone raccontandoti del Che, della sua città e del suo popolo che tira a campare tra mille lavori.

Ma è sempre Alejandro a raccontarmi il lato buio della storia. «Il popolo lo sa cos’è successo. Il Che l’ha fatto fuori Castro. Non gli piaceva il fatto che avesse più seguito di lui sul popolo. Che i cubani lo amassero. E così… Bam… Morto. È successa la stessa cosa anche a Camilo – si riferisce a Cienfuegos, altro martire della Rivoluzione – che tutti amavano. Sapete, io non so molto. In tv vediamo solo quattro canali e quello che conosco del mondo lo devo ai turisti che me lo raccontano. Però mi sono sempre chiesto come fosse possibile che abbiano recuperato le ossa di dinosauri morti milioni di anni fa ma non siamo mai riusciti a capire dove fosse caduto l’aereo di Cienfuegos, né tanto meno a recuperarne i resti. Non lo trova strano?». E, in effetti, non puoi fare a meno che annuire e ringraziarlo per l’onestà.
E gli Stati Uniti? Nessun problema con loro, mi spiegano. Anzi… Certo, i nostalgici della Rivoluzione vivono ancora con fervore l’antagonismo tra i due mondi, ma i giovani no. I ragazzi negli Stati Uniti ci vogliono andare. Proprio come Mercy, la sua fidanzata. Ha il colloquio all’Ambasciata americana tra poche settimane e se lo supererà potrà raggiungere finalmente suo fratello e sua mamma che da anni vivono a New York.

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Finita la mia intervista improvvisata, mi sento in colpa per la mia curiosità e cerco di ricambiare il favore dicendogli che può chiedermi qualsiasi cosa. Ovviamente, la domanda ricade su Berlusconi: «una coppia di turisti mi ha detto che va a prostitute minorenni. Ma è vero?». E, ahimé, mi ritrovo a parlare di Ruby mentre fuori la notte è scesa, il cielo è pieno di stelle di cui non conoscevo l’esistenza e il vecchio taxi particular sobbalza sull’asfalto, tra una buca e l’altra.
Mentre scrivo, mi passano davanti agli occhi le immagini dei campi, delle palme, del cielo azzurro, e della pioggia che ti sorprende da un momento all’altro. Rivedo i cartelloni della propaganda nella strada che conduce a Baracoa – “Patria o muerte”, “La libertad se conquista con el hilo del machete”, “Trabajar con orden, disciplina y exigencia” – i bambini che giocano a baseball, il Centro Mixto Vladimi Lenin, e i piccoli paesi, come quelli che ho incontrato sulla strada per Trinidad. La gente ti osserva mentre passa le giornate a cullarsi nelle sedie a dondolo, secondo sport nazionale dopo il baseball, e dentro ti senti un po’ un invasore del loro tempo. Li guardi dalla tua macchina, sorpassi cavalli, carretti e biciclette e te ne vai chiedendoti se nel loro sguardo c’era invidia, se sarebbero in grado di sopravvivere alla furia frenetica del nostro tempo. Loro che, dispersi tra le montagne o le pianure del centro, galleggiano ancora in uno spazio immobile.

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Ricordo i chilometri di asfalto percorsi, l’odore di cocco che mi ha sorpresa mentre, con la mia scassata Geely a noleggio, cercavo di evitare le enormi buche sull’asfalto nella dissestata strada che conduce da Camaguey a un punto sconosciuto della strada panoramica che collega Pilòn a Santiago de Cuba.

E nelle sue strade è facile leggere la metafora del Paese. L’Autopista Nacional ha sei corsie. Ti trasmette una strana sensazione di magnificenza e tranquillità prima di renderti conto che non puoi permetterti nemmeno per un attimo di toglierle gli occhi di dosso. A movimentare il percorso, infatti, file di carretti trainati da cavalli, ragazzini in groppa ad un asino, autostoppisti, camiones parcheggiati ai lati della strada, venditori ambulanti di galli e dolci artigianali. Il resto del paese è percorso dalla Carretera Central – che attraversa villaggi, campi, coltivazioni di caffè, città fantasma e allegri villaggi multicolore su cui circolano qualsiasi tipo di mezzo e animale – e da una fitta rete di strade pericolose e non asfaltate nelle quali avventurarsi è un piacevole viaggio verso l’ignoto.

Addentrandosi nell’isola è ancora possibile vedere persone camminare nel buio più totale per raggiungere il camion cisterna che porta l’acqua potabile ai villaggi che costeggiano la Farola, la montagna che ha dato il nome ai trenta chilometri di tornanti grazie ai quali, dal 1964, Baracoa è raggiungibile anche via terra e non più solo via mare. È qui, nella prima città costruita dagli spagnoli, ed il cui fondatore fu Diego Velásquez nel 1512, che è possibile assaporare un po’ di spontanea gentilezza cubana. Quella cordialità non ancora contaminata dal turismo di massa che alberga nelle grandi città e nei resort. A Baracoa è ancora possibile passeggiare per la strada senza essere assediato dai Jineteros, e assaporare il gusto di una cucina tradizionale molto lontana dalla monotona frittura creola: filetto di pesce alla crema di cocco, pomodoro e spezie, cucinato in foglie di banana, aragosta, platano fritto, e zuppa di zucca. Il rumore del mare, la luna, il suono delle ruote dei carretti nelle pozzanghere, làscito dell’ultima pioggia torrenziale.

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Un paesaggio lontano anni luce dalla desolazione che avanza man mano che ti avvicini a Moa, nella provincia di Holguìn, chiamata la “Terra del Nickel“. Il paesaggio è arido, l’aria malata, la vegetazione inesistente e il mare rosso a causa dei rifiuti industriali che vi vengono scaricati. Il territorio è nelle mani della Moa Joint Venture, nata nel 1994 dalla collaborazione tra la Sherritt e la cubana General Nickel Company che, nel 2012 ha prodotto 34,264 tonnellate di nickel. È un mercato importante per Cuba: la sua produzione apporta il quindici percento delle entrate economiche provenienti dalle esportazioni. Ma il prezzo è alto e a pagarlo, come sempre, sono l’ambiente e i lavoratori con l’elmetto giallo che escono dalle miniere e chiedono un passaggio per tornare a casa.
Qualche centinaio di chilometri più a nord, iniziano a comparire i resort all inclusive gremiti di coppie tedesche, a ricordare che in Europa la crisi è un fatto ma non per tutti. Nei giardini con piscina dei villaggi si tiene ogni sera uno spettacolo di danza cubana e i turisti si dissetano con cocktail preparati con sciroppi industriali. Qui il servilismo è ancora la regola ed è complicato capire se la parte degli animali feroci la facciamo noi, turisti occidentali che pensiamo di essere immersi nella Cuba autentica, o loro che là fuori fanno la fila per il razionamento degli alimenti.

È difficile non subire un senso di straniamento quando alla reception ti chiudono al polso il braccialetto giallo che sancisce il tuo ufficiale ingresso nella comunità del turista benestante. È solo una sottile striscia di carta ma ti separa istantaneamente dal contadino che cammina a piedi nudi per chilometri e dalla bambina che, a Santiago, mi si è avvicinata timidamente per chiedermi una penna. Una penna… A Cuba l’istruzione è gratuita. Tutti hanno il diritto di imparare, le strade pullulano di ingegneri e medici, ma non vi sono strumenti per scrivere quello che studi.

Cuba, prigioniera della sua storia gloriosa, della sua classe politica e dell’idea che il mondo continua ad avere di lei. Cuba con i suoi paradossi e il suo tempo lento. Ineccepibile e inconoscibile per la maggior parte dei turisti che cercano solo spiagge e mare cristallino.Veniamo qui per scoprire il mito, la Cuba i cui cittadini non possono uscire comodamente dal paese – a volte anche solo perché non hanno i soldi sufficienti per il passaporto – e non hanno accesso a quel quotidiano e molteplice flusso di informazioni che per noi è scontato.
Cuba, dove se passeggiando per la città ti fai vedere disorientato o ti fai sentire mentre parli in italiano ti vengono subito offerte donne, indicazioni e stanze in affitto a poco prezzo. Il tutto irrimediabilmente accompagnato da “Italia Mafia” e compagnia bella.

Un paese in cui la povertà non è così straziante come quella dei barboni della stazione di Mestre ma in cui sai che è presente. Eppure, nel guardare le strade affollate ad ogni ora del giorno e le piazze gremite di amanti dell’ozio, non riesci a non notare che qui, se non desideri niente di più di quello che ti è concesso, allora puoi vivere senza lavorare. Che opzione aberrante per la nostra mente. Non tanto per le potenzialità nascoste in una vita senza lavoro, quanto per l’idea che si possa vivere senza volere. Volere dieci paia di scarpe, tre bicchieri di Coca Cola, due panini, duecento grammi di pasta anziché ottanta. Tanto anche se avanza, c’è sempre la pattumiera. E le nostre, non smettono mai di avere fame di rifiuti.

Mi chiedo chi viva meglio. Se noi, che non ci possiamo permettere una vita al di fuori del lavoro, o loro che possono non lavorare, ma vivere al limite. È davvero possibile che l’indottrinamento del “un po’ di tutto per tutti” vinca sul desiderio di possedere?
Mi ero ripromessa di scrivere della Cuba che si sta trasformando rapidamente ma è un’impresa più difficile del previsto. Cuba cambia, ma forse, a rimanere intatta, è l’idea che ci siamo fatti di lei. E capirla, con i suoi paradossi e i suoi segreti, è un’impresa ardua. Ma forse è meglio così. In fondo fa parte del suo fascino e, in parte, credo che glielo dobbiamo.

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