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Cronache dalla periferia orientale dell’Europa: il confine turco-siriano

di Christian Elia

9 marzo 2014 – Ci sono luoghi che non puoi definire, limitare. In alcuni casi, è un abuso anche chiamarli per nome. Antiochia è così. Perché si chiama Hatay, in turco, ma anche Antakya, ed è mille cose assieme.

Paul de Veou, uno storico francese del secolo scorso, la definì “la saldatura tra il mondo turco e il mondo arabo”. E’ Turchia, ma è anche Siria (di cui era capitale durante l’Impero Romano). E’ Europa: al tempo stesso prossima ventura e antichissima. E’ Medio Oriente, in quel punto dove si bacia con i Balcani.

La attraversa il fiume Oronte, chiamato il ‘fiume ribelle’ che finisce nel Mediterraneo delle mille storie.
Non resta molto di quella metropoli che per secoli, dall’epoca ellenistica fino alla conquista persiana, rivaleggiò in importanza con le grandi città del mondo. Da qui son passati tutti, compresi i Crociati. L’impero turco la tenne fino alla prima Guerra mondiale, quando un referendum la pose in Turchia e non in Siria.

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Questo è un luogo dove le frontiere sembrano, più che altrove, le astruse arroganze di sovrani di turno. Dove tutto è liquido, comprese identità e culture, come si può porre un limite allo scorrere delle vite? Eppure il valico di frontiera di Bab al-Hawa insegna proprio questo.

Lo insegna in modo duro, violento, come quei maestri del passato. Perché la realtà la capisci solo se la guardi negli occhi. Che ad Hatay sono quelli di Mohammed e Abed, venditore di macchine e archeologo. Oggi, però, comandante e attendente della stessa brigata del Free Syrian Army. Per arrivare a loro devi passare da un cancello.

Lo annuncia una colonna di camion, fermi a bordo strada. Una folla si stringe attorno a un valico, presidiato dalla polizia turca. Un agente, due volte, spara in aria. Vite che premono, vite che spingono, piccole zuffe. Sono tutti siriani, carichi di ogni oggetto che possiate immaginare. Oggetti che non hanno più la loro consistenza materiale, perché ne assumono una nuova, quella della ricerca della sopravvivenza.

Aspettano di passare, per tornare da dove son stati costretti a fuggire. Ci sono famiglie, case dall’altra parte. Bisogna procurarsi quel che serve per vivere, quando la tua vita va a pezzi, come il paese dove sei nato e cresciuto.

Oltre quel cancello c’è un altro mondo. I check-point e la linea del fronte. Una linea, come il confine, oltre la quale vedi casa tua ma la occupano I tuoi nemici. Oggi tutti vogliono una fetta della torta, dice Mohammed, paragonando la sua casa a un dolce. Ma con i ragazzi che cercavano la libertà, ubriachi di Tahrir e Tunisi, nel 2011, cosa c’entrano la Russia e il Libano, l’Iran e al-Qaeda? Nulla.

Come c’entrano poco con Oruma e le altre donne siriane, rifugiate in Turchia, che lavorano la lana per vendere vestiti e coperte con cui aiutare le centinaia di migliaia di famiglie siriane nei campi profughi in Turchia. C’entrano poco con gli occhi di Lawand e dei suoi amici, fricchettoni siriani, laici e sognatori, che han messo su una casa sicura per i bambini siriani in fuga dalla guerra. Un posto bello, dove entra la musica e il gioco, e mai la violenza.

Hatay è tutto questo e molto altro ancora. Perchè, come è allo stesso tempo l’Antiochia capitale del regno ellenistico di Siria, sede di un patriarcato cristiano, e Antakya-Hatay, centro commerciale d Alessandro Magno. Strategicamente importante, con un’anima multipla e meticcia.

Terra di aleviti, confessione tra lo sciismo, il sunnismo e il sufismo, che in terra di Turchia prende il basso profilo del silenzio. La presenza dei rifugiati siriani in fuga dal regime di Assad, clan alevita, crea una situazione lacerata, dolorosa. Perché scappi per finire profugo in un paese che appoggia la tua insurrezione, ma in una città che per maggioranza si sente più vicina a colui che combatti. Perché da queste parti nulla è fermo, bianco o nero, tutto scorre.

Anche le vite di Mohammed, Abed, Oruma e Lawal. Anche quelle dei turchi che gli sono attorno e di fronte, anche quel maledetto cancello. Che ogni tanto si apre, verso l’inferno o il paradiso, che in Siria non distingue nessun volto.

APPUNTI DI VIAGGIO. I rifugiati siriani sono 2.372.000, 565.400 dei quali in Turchia (dati Unhcr). Secondo un rapporto pubblicato a fine novembre dalla polizia turca, il 78% dei partecipanti alle manifestazioni per Gezi Park era alevita (dato Osservatorio Balcani Caucaso). Almeno il 15 per cento della popolazione turca è alevita, anche se mancano dati certi. Una buona parte della popolazione di Hatay è composta da aleviti arabofoni che hanno fortissimi legami culturali e familiari con gli aleviti siriani. Si parla di circa 600mila persone che vivono nella sola zona della città (dati Osservatorio Balcani Caucaso).

DA ASCOLTARE E DA VEDERE: IL LEONE E LA GAZZELLA, DI FABIO SALOMONI E DAVIDE SIGHELE, PRODOTTO DA OSSERVATORIO BALCANI CAUCASO



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