VOCI DA UN DISASTRO AMBIENTALE – 3

Nella Valle del Sacco, cuore del Lazio, un caso che ricorda la Terra dei fuochi e l’Ilva di Taranto

testo di Carlo Ruggiero, foto di Matteo Di Giovanni
Questo è un viaggio sul fiume Sacco, uno dei fiumi più inquinati d’Italia. Cinque tappe lungo un corso d’acqua di 80 chilometri che bagna le ferite della gente che si ammala. E muore ogni giorno. Queste sono le voci di chi vive in questo territorio, tra fabbriche chimiche, immondezzai e fattorie. Questa è l’ennesima storia di una terra violentata e abbandonata, dopo esser stata adescata con un sogno effimero di ricchezza. A pochi chilometri da Roma, un caso che ricorda molto da vicino sia quello della Terra dei fuochi sia quello dell’Ilva di Taranto, ma che fa molto meno rumore. Il reportage prende spunto da Cattive acque. Storie dalla valle del Sacco, Round Robin editrice, un libro di Carlo Ruggiero in libreria dal 28 febbraio.

Mappa

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TAPPA 2 – ANNINA E LE SUE VACCHE

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Un evento che fece scalpore, ma che in pochi anni è stato dimenticato. Proprio come l’emergenza ambientale della Valle del Sacco, abbandonata al proprio destino

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di Carlo Ruggiero

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30 marzo 2014 – Annina quel giorno si sentì male. La misero sull’ambulanza e se la portarono via. A luglio da queste parti fa parecchio caldo e, a quanto dicono, a un certo punto la puzza s’era fatta davvero insopportabile. Più del solito. E poi c’era lo shock. Ad Annina non ha retto il cuore, e c’è da capirla. Quando parla delle sue bestie, lei rivede la sua infanzia, la sua adolescenza e la sua vecchiaia. Quando ti racconta di quelle vacche, ti racconta tutta la sua vita.

Annina arrivò tardi, verso le sette e mezza, e ormai lungo le sponde di Rio Mola Santa Maria c’era già un sacco di gente. Una volta superata quella selva di teste, di spalle e di braccia, Annina le vide. Tutte e sette, tutte distese una di fianco all’altra, “apparecchiate come i gendarmi”.

C’era pure la giovenca, la sua preferita, quella che s’era decisa a far uscire dalla stalla solo tre giorni prima. «Madonna quant’era bella, quanto mi è dispiaciuto…». Fu allora che Annina s’accasciò come un sacco vuoto, e la portarono via a sirene spiegate. Fu un piccolo infarto, le hanno detto i dottori. Un crepacuore. Annina pianse, e continua a piangere ancora oggi, tanti anni dopo, abbandonata su una seggiola di plastica nel bel mezzo dell’aia davanti a casa sua.
Siamo ad Anagni, in provincia di Frosinone, in piena campagna. L’autostrada è lontana, e da qui gli stabilimenti industriali non li vedi nemmeno. Ma quel 19 luglio 2005 la folla si era raccolta in poche ore. Tutti a vedere lo spettacolo di 25 vacche morte stecchite lungo le sponde del ruscello. Sette di quelle bestie erano di Annina e di suo marito. Le altre di certi suoi cugini che le avevano portate a pascolare un po’ più in là. «Quelle sono come bambine, quando fa caldo e vedono l’acqua non ci capiscono più niente. Qualcuna ha pure bevuto, ma le mie no, le mie hanno solo respirato. Quella roba stava nell’aria. Sono cadute in pochi secondi, una dopo l’altra: bum, bum, bum». Annina si ferma per un attimo. I suoi occhi chiari si riempiono ancora una volta di lacrime. Poi si fa forza, e riprende fiato: «C’avevano il ventre gonfio e la schiuma che gli usciva dal naso, quelle povere bestie. Dopo qualche giorno sono morte pure quelle che all’inizio s’erano salvate. Nel giro di una settimana ne abbiamo perse 15…».

Quella sera, mentre Annina stava all’ospedale, arrivò pure il governatore del Lazio Piero Marrazzo. Non poteva fare altrimenti. Era stato eletto da poco più di tre mesi e si era ritrovato subito quella patata bollente tra le mani. Pure i giornalisti furono informati all’istante, e presero d’assalto questo angolo di mondo finora dimenticato da Dio. «Per una settimana è stato un circo, qua». E stira la bocca sottile in un sorriso amaro.

vacche

È vero, la notizia delle vacche di Annina fece grande scalpore. Perché ormai lo scandalo della Valle del Sacco era già scoppiato, e quei bestioni morti stecchiti lungo un affluente del fiume impestato erano una faccenda troppo grossa per girare la testa da un’altra parte. Le prime tracce di Beta Hch, il famigerato pesticida per cui questa terra è diventata famosa, erano infatti state trovate pochi mesi prima nel latte prodotto in una fattoria di Gavignano, in provincia di Roma, solo una manciata di chilometri più a nord. Dopo un po’, la situazione iniziò a precipitare. Il Beta Hch fu trovato lungo tutto il fume, anche più a sud, in Provincia di Frosinone. Scattò l’allarme, mentre i casi di latte al pesticida si facevano sempre più numerosi.

Ormai l’angoscia si respirava a pieni polmoni. Le informazioni che arrivavano ai cittadini e agli allevatori erano davvero poche, frammentarie e spesso contrastanti. L’unica cosa certa era che quella robaccia stava nel fiume e che non se sarebbe andata tanto facilmente. «Con quell’acqua ci siamo cresciuti noi. Ci lavavamo i panni, la bevevamo – dice Annina, respirando a fondo l’aria calda del pomeriggio e l’odore di erba medica -. Ci stavano i pesci, mica quello schifo che ci sta oggi».

Quello schifo che c’è oggi, all’inizio di questa storia, non lo sapevano nemmeno gli esperti della regione. Le guardie forestali presero a risalire la corrente come avrebbe fatto un salmone, metro per metro, verificando ogni volta il livello di Beta-Hch presente nell’acqua e nel terreno. La caccia si concluse al Fosso Cupo, un altro piccolo affluente del Sacco all’altezza di Colleferro. Lì i livelli di concentrazione erano altissimi. E, guarda caso, quel rigagnolo passava proprio vicino all’ex Snia-Bdp-Fiat Ferroviaria-Caffaro, la fabbrica che per decenni, tra le altre cose, aveva prodotto micidiali diserbanti.
Fu sempre in quel periodo che anche a Roma ci s’accorse di quello che stava succedendo. L’allora ministro per le politiche agricole, Gianni Alemanno, portò la vicenda in consiglio dei ministri, e si decise subito lo stato di emergenza. La sera del 17 maggio, Piero Marrazzo uscì da Palazzo Chigi con in tasca la nomina a commissario straordinario e un assegno da venti milioni di euro. Per questo in quel caldo pomeriggio di luglio, quando ad Annina non resse il cuore, Marrazzo era sulla riva del Rio Mola Santa Maria, anche lui a fissare quelle vacche stramazzate nell’acqua. «Ma da allora non s’è rivisto più», assicura Annina.

Forse perché dopo una manciata di giorni il caso di Rio Mola Santa Maria si sgonfiò di colpo. Le prime analisi dimostrarono infatti che ad uccidere e mucche non fu il famigerato betaesaclorocicloesano, il mostro che da mesi incombeva sulla valle. Ad ammazzarle era stato un altro veleno: il cianuro. Eppure l’immagine di quelle bestie stramazzate al suolo è subito diventata il simbolo stesso dell’emergenza ambientale nella Valle del Sacco.

ponte della sgurgola

È rimasta per anni impressa nella mente di tutti. In molti, ancora oggi, quando parli di questa storia, ricordano soltanto le vacche di Annina morte stecchite nell’acqua bassa del rio.
Il tempo, però, ha ormai ingiallito quelle foto, così come ben presto si è attenuata anche l’eco di questa storia. Dopo un po’ da queste parti non s’è visto più nessuno. Nessuno si è preso la briga di comunicare ufficialmente a queste persone chi è stato ad avvelenare la loro acqua. Annina non lo sa, ma il colpevole è probabilmente una delle aziende della zona.
Qualcuno quel giorno sversò qualche litro dei residui di lavorazione nel suo ruscello, anche se poi non ha continuato. Solo qualche ora dopo, infatti, i livelli di cianuro erano già tornati al di sotto della norma e la vicenda venne archiviata come un caso di criminalità ambientale “episodica”. Uno dei tanti da queste parti.

«Noi c’abbiamo tutta questa roba – e indica il suo terreno – Io ci vorrei mettere il granturco. Però ci vuole un sacco d’acqua. Ma se non posso usare l’acqua del fiume, come faccio?». Il Rio Mola Santa Maria, intanto, continua a scorrere, e nel silenzio della campagna quel rumore risuona forte come una beffa. Annina allora s’affloscia sulla sedia, esausta. Le parole le ha finite. L’umiliazione, però, continui a leggergliela negli occhi anche quando te ne vai. Ha la testa bassa e le braccia penzoloni. Forse sta pensando ancora alla sua giovenca, quella giovane. Quella che s’era decisa a far uscire dalla stalla solo tre giorni prima. Tre giorni prima che gliela ammazzassero.

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