Il voto afgano

All’indomani della prima tornata elettorale si aprono scenari differenti in vista di quello che sarà un probabile ballottaggio a tre per la scelta del nuovo presidente

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di Emanuele Giordana, Great Game

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9 aprile 2014 – A seconda dei punti di vista il bicchiere può essere mezzo vuoto o mezzo pieno. Ma al di là di ogni considerazione, le elezioni afgane di sabato scorso – per eleggere il presidente e rinnovare i 34 consigli provinciali del Paese – sono un successo. Con qualche ombra e con molte incognite: non solo per il probabile ballottaggio, ma per quanto accadrà subito dopo.

Il bicchiere mezzo pieno

L’affluenza alle urne ha superato con abbondanza il 50% il che è in genere un buon risultato nei Paesi dove lo strumento elettorale risente della crisi endemica del concetto di rappresentanza, sempre in discussione nelle democrazie mature. Per un Paese che si affaccia da pochi anni su questa strada non è di per sé un gran risultato, ma solo teoricamente.

Dei 12 milioni di aventi diritto, solo 7 si sono presentati alle urne, ma nel 2009, gli elettori che avevano infilato nell’urna la scheda in quella contestatissima tornata elettorale, avevano di poco superato i 4 milioni. In un Paese dove la guerriglia ha minacciato chiunque abbia voluto votare e dove sabato si sono registrate più di un centinaio di intimidazioni e atti di violenza (con un bilancio di oltre una ventina di morti), recarsi alle urne è una scelta coraggiosa e complessa.

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Nel 2009, i talebani amputarono le dita di molti tra coloro che avevano votato. Questa volta, le immagini restituiteci dal Paese, mostravano afgani e afgane (il 34% degli elettori, una percentuale elevatissima per quel Paese) che esibivano quel dito macchiato di inchiostro con orgoglio. Il dito marcato da una tinta indelebile – il sistema per evitare il doppio voto – è diventato un’esibizione di dignità democratica assai più che la prova di un broglio sventato. E a Kandahar, città del conflitto per eccellenza, l’affluenza ha superato le aspettative.

Verso il ballottaggio

Naturalmente la conta dei voti potrebbe presentare sorprese. Sarà lunga (non si avranno risultati certi prima del 24 maggio) e la Commissione elettorale aveva già ricevuto 200 contestazioni ufficialmente depositate nella sola giornata di sabato (che il giorno dopo erano già 1200). Ma è una cifra bassa e che in gran parte riguarda gli orari di apertura dei seggi. Nulla che per ora faccia pensare a una contestazione massiccia delle operazioni di voto. Le mosse dei talebani (tra cui la minaccia agli osservatori internazionale con la strage all’Hotel Serena alla viglia del voto) non ha impedito il loro lavoro né quello degli oltre 190mila soldati e poliziotti schierati a difesa delle urne. Considerato che questa tornata si è svolta senza la presenza alle urne dei soldati internazionali (che pure restano presenti in forze sino alla fine dell’anno) la dice lunga su una transizione che è andata in porto con efficacia. Il voto era una prova del fuoco anche per le forze di sicurezza nazionali. Superata.

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Un Paese che cambia: i giovani e le donne

Un’analisi della composizione del voto è complessa da fare, ma si può dire con certezza che, come conterà il segmento di voto femminile, sicuramente ha contato la percentuale di giovani: due terzi degli afgani hanno meno di 25 anni e le nuove generazioni usufruiscono di strumenti impensabili solo quattro o cinque anni fa.

Si è alzata la percentuale di persone istruite e di ingressi all’università. Social media e Internet, assieme alla televisione (anche questa una realtà recente come lo è la nascita e la proliferazione dell’attività giornalistica) hanno giocato un ruolo importante. Non con numeri enormi ma con percentuali interessanti, se è vero che 1,7 milioni di afgani utilizzano i sm (specie Facebook e Twitter) e che 2,4 milioni hanno accesso alla rete.

Ancora poco, ma se si considera che quasi 20 milioni di afgani usano il telefono (le linee fisse sono pessime ma quelle cellulari hanno sistemi avanzati), ciò significa che la comunicazione corre. Veloce, certo, ma soprattutto corre, con un effetto passaparola a volte in grado di rompere i dettami della tradizione. Un elemento che ovviamente ha contato.

Retaggi del passato e alleanze

In un Paese dove la struttura tribal-famigliare ha ancora un peso enorme, capi villaggio e malek, signori della guerra e signori della terra, hanno sicuramente avuto un peso enorme nell’orientamento del voto. Su questa struttura, che comunque la modernità tecnologica ha contaminato, hanno puntato i candidati, specie i tre front-runner: Abudllah Abdullah, Ashraf Ghani e Zalmai Rassoul. Tra loro, nell’inevitabile ballottaggio, si sceglierà il presidente.

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Tutti e tre hanno equilibrato socialmente, attraverso due vicepresidenti proposti in ticket, la capacità di raggiungere i voti in palio: una miscela che ha fatto scegliere tra i vice presidenti anche persone poco presentabili, come rappresentanti di correnti islamiste radicali o di antiche signorie territoriali.
Il caso più eclatante è quello di Ashraf Ghani, un passato alla Banca mondiale, modi e discorsi urbani e moderati improntati a realismo e pragmatismo, ma anche un apparentamento col generale Dostum, uomo dell’ex regime comunista di Najibullah poi passato ai mujaheddin e abilmente riciclatosi negli anni. Ma in grado di controllare centinaia di migliaia di voti nel Nord del Paese.
È il caso anche di Abdullah Abdullah, il medico personale di Ahmad Shah Massud ed erede spirituale dell’Alleanza del Nord che sconfisse i talebani nel 2001, apparentatosi con Mohammad Mohaqeq, mullah fondatore di un partito islamista entrato in rotta di collisione con Karzai (e con Ghani). Più meditata la scelta di Zalmai Rassoul (che corre con Habiba Sarobi, stimata governatrice della provincia di Bamyan), che porta però la pecca di essere considerato il “cavallo di Karzai”. E che, alla vigilia del voto, ha ususfruito del ritiro di due candidati vicini al prsidente (uno era il fratello di Karzai, Qayum) che hanno deciso di rivesare il proprio peso sull’ex ministro degli Esteri.

Ognuno di loro ha utilizzato l’antica bilancia etnico tribale per assicurarsi voti, guardando più a quella che alla impeccabilità dei propri alleati. Chi non aveva queste relazioni (come Rassoul e Ghani) si è infatti affidato, più o meno dietro alle quinte, a chi poteva garantirgli una rete sul territorio (come nel caso di Dostum o appunto di Kazai). Chi voleva strizzare invece l’occhio all’Islam radicale (è il caso di Abdullah) ha scelto un uomo potente nei circoli religiosi… Favori che bisognerà restituire.

Le incognite del futuro

Il nuovo presidente, chiunque esso sia, ha di fronte tre sfide colossali. La prima è il rapporto con la guerriglia, ossia la strategia di un piano di riconciliazione e la capacità di influire sui vicini di casa, parte importante nella guerra afgana.
Non c’è una traccia precisa di quel che i tre favoriti vogliano fare. Sia Ghani sia Abdullah sono fieramente anti-talebani o lo sono i loro sodali. Rassoul è ovviamente più in linea con la strategia di Karzai: un approccio morbido che porti all’apertura di un tavolo. Connesso al rapporto con la guerriglia (complicato dalla disomogeneità del movimento talebano e dalla presenza di gruppi con agende diverse, spesso manovrati dall’estero o semplicemente legati alla criminalità), c’è quello con gli alleati: Washington da una parte e Bruxelles (intesa soprattutto come sede della Nato) dall’altra.

Tutti e tre i candidati hanno già detto di voler firmare il patto di partenariato strategico con gli Stati uniti messo in stand-by da Karzai (e da cui dipende anche il patto tra Kabul e l’Alleanza atlantica). Ma il tempo corre e la scadenza del 2014 si avvicina. Inoltre la gestione di questo dossier accontenterà molti ma scontenterà altri e complicherà il possibile rapporto con i talebani. Infine l’economia.

Le risposte agli elettori

Per lo più ignorato, questo è il tasto più dolente: i giovani elettori sono gli stessi che, al ritmo di 400mila all’anno, entrano in un mercato del lavoro asfittico, minato dalla fine delle commesse internazionali e, negli ultimi mesi, entrato in una decisa fase di stallo figlia delle incognite legate alla nuova presidenza, al negoziato di pace, all’accordo con gli alleati da cui dipende il 90% del Pil del Paese. Anche a questi giovani elettori si dovrà dare una risposta. Forse la più difficile.

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