Ritorsione fiscale

Israele torna a chiudere i rubinetti del gettito fiscale palestinese. Un chiaro messaggio all’ANP di Abu Mazen, impegnata nell’accreditamento presso le istituzioni internazionali

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Clara-Capelli-NFC-Tunis-2013-Picture.jpg[/author_image] [author_info]di Clara Capelli, da Beirut. Dottoranda in economia dello sviluppo con la passione per la lingua araba, si occupa di mercato del lavoro in Nord Africa e Medio Oriente. Ha lavorato in Cisgiordania, Libano e Tunisia, ma non ha ancora capito quale Paese le piaccia di più. [/author_info] [/author]

 

16 aprile 2014 – Può uno stato operare senza tasse? Si può dibattere su quante tasse servano, ma la risposta è No, non è possibile: il gettito fiscale è indispensabile per finanziare politiche e spese di amministrazione. E porsi questa domanda è doppiamente importante quando si parla di Territori Palestinesi e occupazione.

Sin dalla sua genesi, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è vista negare il controllo dei propri confini e risorse, la possibilità di avere una sua moneta, la sovranità sulle entrate fiscali. Una rapida occhiata ai budget degli ultimi vent’anni dell’ANP mostra chiaramente che le due principali fonti di finanziamento sono l’aiuto internazionale e i dazi sulle importazioni. Due fonti che per motivi diversi sfuggono al controllo dell’ANP.

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Palestine's President Mahmoud Abbas holds up a copy of the letter that he had just delivered to United Nations Secretary General Ban Ki-moon at U.N. headquarters in New York

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La prima dipende in larga misura dagli umori dei donatori e dalle considerazioni politiche. La seconda è invece interamente gestita da Israele. Il Protocollo di Parigi del 1994 – stipulato contestualmente agli Accordi di Oslo – sancisce infatti che sia Israele a raccogliere i dazi doganali e l’IVA sulle importazioni per conto dell’ANP. Una disposizione concepita come provvisoria – in attesa di un processo di pace e di una “normalizzazione” che non sono mai arrivati – e che ha contributo a legare anche da questo punto di vista le sorti dell’ANP e dei palestinesi ai capricci di Israele.

In un’economia fragile e soffocata da mille problemi, le importazioni rappresentano in media il 50 per cento del PIL palestinese e oltre due terzi delle entrate fiscali provengono proprio dai dazi. Israele controlla quindi due terzi del gettito fiscale palestinese, un potere su cui ha fatto abbondantemente leva negli ultimi anni.

La prima volta che Israele sospese il trasferimento delle tasse fu nel 2000, come risposta alla Seconda Intifada. Per due anni le imposte pagate dai cittadini palestinesi non furono corrisposte all’ANP. Lo stesso accadde nel 2006, in seguito della vittoria di Hamas alle elezioni legislative. I rubinetti sono stati chiusi altre volte, sempre come risposta a sviluppi politici non graditi al governo israeliano.

L’ultimo giro di vite è del 10 aprile scorso, quando l’esecutivo di Benjamin Netanyahu ha annunciato il congelamento dei trasferimenti, la limitazione dell’accesso ai depositi bancari palestinesi in Israele e la sospensione della partecipazione a un progetto di sfruttamento delle risorse di gas nel mare della Striscia di Gaza. Le autorità israeliane hanno fatto riferimento alle centinaia di milioni di dollari che i palestinesi devono loro per le forniture di elettricità e carburante. La sospensione del pagamento delle tasse sarebbe quindi una deduzione per colmare i debiti contratti, benché non sia stata fornita una cifra precisa. L’interpretazione dominante, invece, è che Israele abbia voluto mandare un chiaro messaggio all’ANP di Abu Mazen, come reazione alla richiesta palestinese di aderire a una quindicina fra trattati e convenzioni internazionali.

Da anni ormai la Palestina sta cercando di rafforzare la propria posizione e qualificarsi come attore a pieno titolo sulla scena mondiale: un processo cominciato con l’ingresso come Paese membro dell’UNESCO nel 2011 e proseguito con la “promozione” a Paese osservatore non membro all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

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Di fronte all’espansione degli insediamenti in Cisgiordania e alla mancata liberazione di un gruppo di detenuti palestinesi, l’ANP ha deciso di giocare la carta delle convenzioni di Ginevra (le quali appunto disciplinano le norme da seguire in guerra e durante le occupazioni militari), una mossa che evidentemente non è piaciuta a Israele. L’11 aprile è stata annunciata l’adesione ufficiale dello “Stato di Palestina” alle convenzioni.

Non è chiaro al momento quanto denaro verrà trattenuto da Israele e per quanto tempo durerà il blocco dei trasferimenti. Intanto, nei Territori Palestinesi è già forte la preoccupazione per il pagamento degli stipendi degli impiegati pubblici, una voce che pesa per quasi il 60 per cento della spesa dell’ANP. Sono tanti i palestinesi che hanno almeno un parente nell’amministrazione pubblica, si scherza molto sul fatto che l’ANP sia la più grande ONG dei Territori. Perché in un’economia strozzata essere assunti dallo stato è l’unica alternativa a un settore privato che arranca e che vive soprattutto di piccole attività a conduzione familiare.

La portavoce del dipartimento di Stato americano Jen Panski ha commentato manifestando la sua preoccupazione per gli sviluppi dei colloqui di pace promossi da John Kerry e ha definito la decisione di Israele di sospendere il pagamento della tasse come “infelice”. Ma al di là del gergo diplomatico, bisognerebbe seriamente interrogarsi su come l’ANP possa negoziare il futuro della Palestina quando non può nemmeno controllare i fondi con cui paga gli stipendi dei propri cittadini.

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