This is not Love. This is Sex

I.K.U.: Pornografia, femminismo e cyberculture

 

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/10327243_10202396293601701_21879784_n.jpg[/author_image] [author_info]di Elisa Fiorucci. Laureata in Relazioni Internazionali e Dottoranda in Cooperazione alla pace e allo sviluppo presso l’Università per Stranieri di Perugia, si occupa (si fa per dire) di politica culturale, cooperazione culturale internazionale, patrimonio culturale e sviluppo. E, nei ritagli di tempo, di critica cinematografica e attivismo queer. Senza prendersi troppo sul serio.[/author_info] [/author]

 

saggio tratto da Iconocrazia

 

16 maggio 2014 – I.K.U. è l’esperimento digitale che filma l’incontro fra la pornografia e la cybergculture. Innestandosi sulla pratica del net-surfing e della digital art, all’interno del contesto storico del capitalismo tecnologico, si collega alla storica riflessione radicale di Kate Miller per cui “sex has a frequently neglected political aspect” (1). I.K.U. è anche la parola giapponese usata per dare espressione verbale all’orgasmo. I.K.U. è il punto di vista femminile sulla sessualità (“the pussy point of view”) (2).
“I.K.U. is the brand new pornography that was born for the next generation”, una pornografia distante da quella che ha ragione di esistere solo come sfogo del desiderio maschile.

Esperimenti cinematografici come quello di Shu Lea Cheang pongono un interrogativo ormai necessario: perché la rappresentazione femminile nei circuiti audiovisivi continua ad essere sempre associata ad una produzione di soggettività normalizzata, stereotipata e, in ultima istanza, vittima dello sguardo maschile eterosessuale?

Sembra proprio che il lungo ed inesorabile lavoro di invisibilizzazione del desiderio femminile, relegato a semplice strumento di quello maschile – sicuramente aiutato dai gruppi femministi antipornografici – abbia finito per negare la possibilità che il desiderio femminile possa essere rappresentato (3). Come se l’immagine femminile debba andare incontro solo ad azioni di censura, anziché essere decostruita e ricostruita secondo una visione che rompe le regole tradizionali dell’ipervisione pornografica, che rifletta sul piacere femminile in quanto protagonista, sull’uso sociale di certi tipi di rappresentazione dei corpi.

SHU LEA CHEANG

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La forza del FACT  (“Feminist Against Censorship Taskforce”) fu proprio quella di aprire un dibattito discrepante con la postura antipornografica – postura che continua ad animare il mainstream femminista– rilevando il pericolo di questa di convertirsi in una nuova normativa morale per controllare la sessualità femminile e censurare le sue differenze interne. (4) Al contrario, la pornografia poteva essere vista come un potenziale strumento di rottura di quella mercificazione che il porno tradizionale (ma anche altri dispositivi di rappresentazione del corpo femminile) proponeva e propone. (5)

A rigor di logica, se l’eccesso di ipervisione del genere porno (il suo poter vedere fino al limite dove non c’è più niente da nascondere) invisibilizza il carattere ideologico di questo, omogeneizzando e normativizzando il desiderio ad infinitum, è sempre possibile raggiungere la sintesi di questo percorso di ipervisione- invisibilizzazione- visione, mostrando le rappresentazioni convenzionali per ciò che realmente sono – differenti ma coese versioni ufficiali – e rendendo trasparenti i discorsi ideologici che stanno alla base della rappresentazione.
Se accettiamo l’idea che la pornografia tradizionale altro non è che un dispositivo di controllo biopolitico storicamente funzionale alla società patriarcale per imporre una determinata visione della sessualità, questa pornografia femminista, entrando nel discorso mainstream ed utilizzandone i mezzi, avanza una proposta politica prima che estetica. (6)

Il post-porno diventa, pertanto, luogo di rappresentazione del femminismo contemporaneo, in cui è possibile mettere in scena l’apparato teorico a partire dal frame visuale. Lungi dal configurarsi come una sottospecie del porno mainstream, esso si presenta come uno strumento di analisi, un dispositivo culturale e un campo di azione in cui è possibile ricreare nuove identità e nuovi modi di rappresentare il sesso.

Pur recuperando alcuni degli stilemi del cinema pornografico tradizionale ed utilizzando gli stessi mezzi informatici d’avanguardia dell’industria cinematografica attuale – rifiuto della linearità narrativa, riprese con minicamera digitale, editing interamente realizzato con tecniche informatizzate (7) – I.K.U. si sgancia dalla rappresentazione di un piacere controllato e coerente con la divisone dicotomica della sessualità etero-normativa. Lo fa anche attraverso passaggi scenici non coesi, estranei alla logica tradizionale e tenuti insieme da una struttura rizomatica che fa del mosaico il suo supporto. A tal riguardo la scelta della regista è funzionale all’intento di parodizzare e decostruire certi codici: nella pornografia giapponese mainstream, infatti, il mosaico è utilizzato come strumento visivo di censura, di modo tale che l’eccitazione maschile venga provocata dall’immaginazione dei genitali femminili al di là del mosaico che li nasconde. (8)

Se il punto di vista prevalente dell’industria cinematografica porno è sempre stato quello dell’uomo – inteso come grado zero di normalità: il maschio bianco occidentale eterosessuale di classe media – il post-porno apre alla moltiplicazione degli sguardi e degli immaginari, non più catturati dentro ad un dimorfismo presentato come dato naturale, bensì liberi di trovare le forme rappresentative più consone ai proprio desideri. Le immagini pornografiche ed erotiche che I.K.U. riunisce, lungi dal riproporre un modello tradizionale di mise-en-abime di un oggetto-corpo al momento della sua attività sessuale, relegato al ruolo di eccitatore del desiderio maschile, distruggono la verità del sesso pornografico tradizionale tramite la produzione di differenti “fiction” sessuali, che mettono in luce la natura performativa del sesso e del genere. (9)

In queste la donna – non la bio-donna ma il cyborg dalle sembianze femminili, “a plastic gender represented by digital art” (10) – non è vittima del dominio maschile, quanto piuttosto del contesto tecno-economico globale che cattura tutti, nessuno escluso.(11)

Un’ulteriore direttrice del discorso femminista anti-censorio ruota attorno alla fine della demonizzazione della tecnologia. Parafrasando Beatriz Preciado, si opera in questo campo un superamento del paradigma sostenuto dalla maggioranza delle critiche femministe che respinge la tecnologia come forma sofisticata di dominazione maschile dei corpi delle donne, sottolineando in primo luogo la relazione di promiscuità esistente fra tecnologia e corporeità, soprattutto alla luce delle pratiche della tecnoscienza contemporanea, le quali “non permettono di separare nettamente quello che è di competenza dell’organico e del meccanico dal corpo e dalle strutture sociali che ne controllano e ne regolano la variabilità culturale.”(12)

 

Bruce-cyborg

 

La svolta rappresentata dal Manifesto Cyborg di Donna Haraway si situa proprio nell’alveo cibernetico del superamento del confine fra naturale e artificiale, trasformando la tecnologia in investimento politico e mettendone in risalto il suo potenziale sovversivo. (13).
Il cyborg, un ibrido fra macchina e organismo, fra realtà sociale e finzione, rappresenta tanto una struttura di potere come un sito di resistenza, uno spazio di reinvenzione politica della natura. Infatti, oltre ad essere una figura chiave del tardo XX° secolo per la negoziazione delle identità culturali, il cyborg rappresenta anche una metafora politica per potenzialità insita in esso di rivelare e confliggere contro le strutture di potere e le pratiche sociali mediate dalle tecnologia.(14)
Altrettanto significativo è il fatto che da più autori il cyborg è stato letto come figura ibrida che, in qualche modo, assume le forme di una ragazza (ma non di una donna biologica): “the cyborg is a polychromatic girl […] a bad girl, she is really not a boy. Maybe she is not so much bad as she is a shape-changer, whose dislocation are never free. She is a girl who’s trying no to become a Woman, but remain responsible to women of many colours and positions.(15)

Shu Lea Cheang riprende questa suggestione policromatica mettendo in scena personaggi femminili di età indefinibile ma sicuramente molto giovane, variamente caratterizzati ed immersi in bagni cromatici cangianti che fanno leva su scenografie altrettanto variegate, simbolo di fantasie sessuali fra le più disparate. Senza subbio la regista opera un’elaborazione radicale del cyborg degli ipermascolini Blade Runner e Terminator. La nuova replicante della Generazione XXX, Reyko, può assumere 7 aspetti diversi (shape-changer appunto) a seconda delle preferenze dei partners con cui ha rapporti sessuali occasionali e promiscui. Le 7 replicanti che girano in piena libertà in una Tokyo digitalizzata e astorica non sono altro che cyborgs riciclati, prima relegati all’assistenza degli anziani, poi immessi nel circolo degli hard shows che ha provato essere fonte sicura di reddito e successo per la GENOM Inc. Corporation.(16)

Portando all’estremo il ragionamento della Haraway, dal cyborg deriverebbero, fondamentalmente, forme di intersoggettività caratterizzate da orizzonti comuni che superano la differenza di genere tradizionalmente imposta pur mantenendo una specificità delle donne in quanto tali.(17)

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Forme di intersoggettività capaci di incorporare e imporre nuove relazioni sociali per le donne, e di fornire nuove forme di alfabetizzazione per la decodifica del mondo attuale, per lavorare con e contro la scienza e la tecnologia. Attraverso questi strumenti si può lavorare sul capovolgimento del dominio tecnocratico e patriarcale, a partire dalla presa di coscienza che i corpi sono mappe del potere e le macchine sono un tutt’uno con essi. Probabilmente questo è l’aspetto in cui I.K.U. mostra la sua congenita debolezza. Dalla rappresentazione di un mondo coerente con i caratteri di quell’“Informatica del dominio” (o “Informatizzazione”, secondo Manuel Castells), che ha sostituito la vecchia dominazione gerarchica attraverso una progressiva trasformazione dei rapporti sociali collegati alla scienza e alla tecnologia, al capovolgimento dello status quo il passaggio non è affatto evidenziato né suggerito. (18)

Lo scenario futuristico di un’era in cui le multinazionali controllano anche la produzione di piacere ed in cui l’economia classica si intreccia con le biotecnologie – presentato nel film come rischio a breve termine- non dà indicazioni sul modo in cui, fattivamente, l’utilizzo delle nuove tecnologie possa essere declinato a favore delle donne.
Resta, tuttavia, significativa l’operazione primaria di far entrare il cyborg nel frame visuale ma soprattutto nel luogo in cui post-modernità e tecnologia entrano in coalescenza: il dispositivo cinematografico.  La storia del cinema ha raffigurato il cyborg in vari modi, attraversando vari generi – soprattutto fantascienza ed horror –  in cui è stato molto spesso indistintamente confuso con alieni, mutanti, androidi, cloni, robots e mostri, ma soprattutto confinato a figure prive della sua ambivalenza costitutiva, schiacciato dalla messa in evidenza dell’innovazione tecnologica di cui è frutto piuttosto che utilizzato come indicatore e strumento del cambiamento sociale.(19)
I.K.U. è solo una delle potenziali interpretazioni del cyborg.(20) In ultima istanza spetta a noi spettatrici raccoglierne le suggestioni.

NOTE

1 K. Millet, Sexual Politics, New York, Doubleday, 1970. Il libro è considerato uno delle più alte espressioni teoriche del femminismo radicale.

2 “I.K.U.” monopolised the topics at the Sundance Film Festival and more than 20 other international film festivals. At all film festivals, “I.K.U.” was regarded of  the pussy point of view, the seeings of sex from vagina.” Per tutte le informazioni sul film, che non possono essere trattate in questa sede, si rimanda al sito http://www.i-k-u.com/eng/F002.HTM. Per ciò che concerne il plot del film, basti dire che, pur essendo la struttura narrativa allo stato embrionale, l’azione ha luogo in una futuristica Tokyo in cui gli scienziati della GENOM Inc. Corporation creano i Gen XXX, meglio conosciuti come I.K.U. coders (decodificatori dell’orgasmo): cyborgs replicanti programmati per immagazzinare dati relativi al piacere sessuale, i quali, infine, verranno utilizzati per la creazione dell’I.K.U. chip. Tale chip, acquistabile nelle comuni vendine machines, saranno in grado di inviare i messaggi del piacere direttamente al cervello, permettendo agli esseri umani di raggiungere l’orgasmo in assenza di una reale relazione sessuale, ovvero senza frizione delle parti erogene. Il film, in lingua inglese e giapponese (ma senza alcun sottotitolo) è arricchito da informazioni importanti per l’interpretazione delle immagini che appaiono occasionalmente nello schermo, ad emulazione del menù di un computer. Di seguito il link al trailer non ufficiale: http://www.youtube.com/watch?v=Nyt4UwgMsS0.

3 È stata questa la postura dall’attivismo antipornografico delle americane Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, punti di riferimento del gruppo delle “Women against pornography” fondato nel 1979, che  vedevano nell’immagine pornografica solo un rafforzamento del mito della sessualità femminile passiva e masochista, vittima del potere patriarcale.

4 Per femminismo mainstream intendiamo quello delle grandi organizzazioni internazionali che si diedero appuntamento a Pechino nel 1995 e dei gruppi e delle istituzioni nazionali e non che si incontrano durante i Forum Sociali Europei dal 2000. In questa cornice la posizione censoria nei confronti della pornografia, ancora vista come espressione del dominio patriarcale fisico e simbolico, va di pari passo con la posizione abolizionista in materia di sexwork. Per approfondimenti si veda G. Giuliani, Traiettorie pornografiche attraverso il confine virtuale/reale [www.quadernidaltritempi.eu], n.16, settembre-ottobre 2008:http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero16/03mappe/q16_porno01.htm

Dall’altra parte, il gruppo delle “Feminist Against Censorship Taskforce”, liderizzato da Lisa Duggan, Nan Hunter e Carlo Vance, criticò pubblicamente ed aspramente la postura antipornografica, affermando la necessità di portare avanti, all’interno del dibattito femminista, un’analisi della rappresentazione della sessualità mai disgiunta dal contesto storico di produzione e dall’uso sociale della stessa. Il fine era quello di sganciarsi dalla produzione femminista di una nuova normativa morale, bensì, al contrario, emancipare la donna dalla tradizionale rappresentazione del suo desiderio e liberarla dal senso di colpa connesso con l’esperienza sessuale fuori dall’omogeneità dei codici. A questo primo gruppo fecero seguito molti altri in diverse parti del mondo, Italia compresa. Per approfondimenti vedi L. Eganya, La pornografía como tecnología de género. Del porno convencional al post-porno. Apuntes freestyle in http://www.lafuga.cl/la-pornografia-como-tecnologia-de-genero/273.5 Annie Sprinkle, performer pornografica e femminista, fu una delle prime a raccogliere le idee di uno sperimentalismo femminista che capovolgesse i codici tradizionali dell’industria pornografica, utilizzando i suoi stessi mezzi. Vedi A. Sprinkle, Hardcore from the heart. The Pleasure, Profits and Politics of Sex in Performance, Continuum International Publishing Group, 2001; A. Sprinke, Post-Porn Modernis, San Francisco, Kleis, 1998.

6 Vedi intervista a Slavina Perez, attivista post-porno e blogger di Malapecora, in: S. Perez, La dissidenza passa anche dalla post-pornografia, intervista a cura di i I. Lonigro, [www.ilfattoquotidiano.it], 26 giugno 2012, http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/26/la-dissidenza-passa-per-un-porno/275523/.

7 Shu Lea Cheang utilizza la tecnologia digitale per creare paesaggi surreali e tecniche di ripresa non convenzionali, fotografia ambiziosa e scenografie ibride fra il mondo virtuale e gli spazi di una città anonima, il tutto prediligendo il punto di vista di Reiko, la protagonista cyborg femminile.

8 La scelta di Tokyo come location del film, pertanto, non è casuale, ma risponde alla volontà della regista di decostruire questo paradossale strumento di censura. Vedi http://www.i-k-u.com/eng/F002.HTM.

9 Sul genere come performance rimandiamo alle riflessioni di Judith Butler e Monique Wittig, per le quali, sostanzialmente, tanto il genere come il sesso non esistono se non come costruzioni culturali, pertanto l’equazione per cui il genere sta alla natura come il sesso sta alla cultura vanno in frantumi nell’assunzione del genere quale interpretazione molteplice del sesso. Si veda J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the subversion of identity, New York, Routledge, 1990; J. Butler, Undoing gender, New York, Routledge, 2004; M. Wittig, Le corps lesbien, Paris, Les editions de minuit, 1973.

10 Vedi ancora http://www.i-k-u.com/eng/F002.HTM.

11 È il capitalismo tecnologico, semmai, a negare la libertà dei cyborgs così come è il discorso pornografico tradizionale a trasformare la sessualità in spettacolo, il cui obbiettivo è la produzione di soddisfazione frustrante (ovvero il controllo delle soggettività attraverso la gestione del circuito eccitazione-frustrazione-eccitazione). Per Preciado la pornografia, con questo suo circuito serrato, offre la chiave per comprendere tutti gli altri tipi di produzione culturale postfordista. Proprio per questo “la pornografia no es simplemente una industria cultural entre otras, sino màs bien el paradigma de toda industria cultural”. B. Preciado,Manifesto contra-sessuale, Milano, Editore il Dito e la Luna (collana Vibrazioni), 2002. p. 183.

12 Ivi, p. 118.

13 La cibernetica (dal greco Kybernetes = timoniere, pilota; da cui nel 1948 il matematico statunitense Norbert Wiener coniò il termine cybernetics) è interpretata, in maniera estensiva, come la scienza che si occupa della comunicazione e della regolazione del rapporto fra esseri viventi e macchine. Il cyborg risulta proprio dall’incrocio fra cyberg organism, mix di carne e tecnologia che caratterizza il corpo modificato da innesti di hardware, protesi ed altri impianti. Da ciò deriva il “Cyborg Feminism”, movimento di pensiero ma anche di attività politica, che si situa nelle nuove frontiere del cyberspazio e cerca di utilizzare le nuove tecnologie a favore delle donne, contro il regime ottico-politico instaurato dalle più innovative biotecnologie.

14 Questa sua ambiguità sovversiva deriva dal suo configurarsi come “un’immagine condensata di fantasia e realtà materiale, i due centri congiunti che insieme sfruttano qualsiasi possibilità di trasformazione storica”.  Cfr. D. Haraway, Simians. Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature, New York, Routldege, 1991 (trad. parz. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli Editore, 1995),p. 41. Ciò che più rileva in questa figura è l’attraversamento dei confini che esso opera, realizzando così un reale cedimento della barriera fra umano/animale, macchina/organismo, fisco/non fisico. La cultura alto-tecnologica sfida infatti questi dualismi e la logica binaria che li sottende, strumento occidentale di conoscenza e di ordine della realtà. I cyborgs, invece, non sono riducibili a tale logica, “instead of either/or, they are neither/both”. Vedi D. Bell, Cyberculture Theorists. Manuel Castells and Donna Haraway, New York, Routdledge, 2007, p. 107.

15 C. Penley and A. Ross, “Cyborg at large: interview with Donna Haraway”, in C. Penley and A. Ross (eds)Technoculture, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1991, p. 20.

16Proprio la proliferazione dei cyborgs nei più disparati ambiti, anche molto lontani rispetto all’elaborazione concettuale della Haraway, mostra il loro carattere infedele e presuntuoso, la loro mancanza di innocenza e la loro incapacità di stare fermi, sempre pronti per nuovi assemblamenti ed eclettiche riconfigurazioni .“Cyborgs don’t stand still, and they don’t always do what you want them to do”. Vedi Bell, Op cit., p. 114. Non a caso nel film il cyborg sfugge al controllo del suo creatore e dà vita a dei virus, uno dei quali incarnato da Tokyo Rose, seducente diva dei clubs underground, inviata dalla BIO LINK Corporarion (rivale della GENOM Inc.) a sedurre Reiko e gli altri replicanti per rubare loro le informazioni.

17 A tal proposito Haraway parla del cyborg come di “una sorta di sé postmoderno collettivo e personale, disassemblato e riassemblato.” Vedi Haraway, Op cit, p. 59.

18 Per Castell non siamo di fronte ad una rivoluzione socio-tecnologica, quanto ad un cambiamento di paradigma che attesta la transizione verso la c.d. “Informational Economy”: ci troviamo ancora nel modo di produzione capitalistico, in termini di relazione fra capitali, proprietà e lavoro, ma la ricchezza viene creata intorno a sempre più potenti tecnologie informatiche della conoscenza. Cfr. M. Castell, The Information Age: Economy, Society and Culture. Volume 1: The Rise of the Network Society, Oxford, Blackwell, 1996. p. 67. Anche l’immagine suggestiva di una “Informatica del dominio”, coniata da Donna Haraway, è un tentativo esplicativo dei cambiamenti prodottisi nelle relazioni sociali legate alla scienza e alla tecnologia nella sfera globale: la lunga tabella di coppie dicotomiche che mettono in comparazione parole chiave della modernità con quelle dell’attuale tecnoscienza serve alla Haraway per dimostrare che ci troviamo in un emergente ordine mondiale analogo al vecchio capitalismo industriale ma basato su “scary new networks”. Ovviamente il nuovo ordine porta con sé un nuovo dominio. Cfr. Haraway, Op. Cit. pp. 55-62.

19 La differenza fra robots ed altri automi del 18° secolo e cyborgs, in realtà, è rilevante. I primi sono copie tecniche dell’uomo (i robots cercano di aumentarne il potere mentre gli automi sono delle fotocopie perfette) ma restano corpi meccanici; i secondi sono invece degli  ibridi costituiti da parti meccaniche e da parti umane, pensati come ottimizzazione del corpo umano e delle sue caratteristiche. Proprio per questo i cyborgspossiedono un valore aggiunto. I robots, a confronto, sono solo macchine elaborate, meri strumenti. Cfr B. Westermann, Dear Cyborg, what’s next?, in A.Torrano and A. Berti, “Cyborgs”, JGCinema – Cinema and Globalization: http://www.jgcinema.com/single.php?sl=cyborg-she.

20 Per una lista, ovviamente non esaustiva, degli esperimenti audiovisivi contemporanei che si riallacciano a questo movimento, si veda B. Preciado, Testo Yonqui, Espansa Libros, S.L.U., 2008, pp. 235-239.

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