Elezioni siriane. Un modello da seguire

Paesi geograficamente lontani ma in un certo qual modo uniti sotto il periodo del nazionalismo arabo negli anni ’70. Paesi che si sono poi ritrovati sotto il comune denominatore di ‘Primavera Araba’ ma che hanno intrapreso strade diverse. Paesi che hanno visto nuovamente intrecciare il loro destino tramite l’esodo dei profughi siriani attraverso la Libia e da lì verso l’Europa. Libia e Siria. Così lontani, così vicini

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/420123_10151175537452702_1483123099_n.jpg[/author_image] [author_info]di Cristiano Tinazzi. Classe ’72, giornalista, da circa dieci anni segue gli eventi in Nordafrica e Medioriente. Ha vissuto gran parte della ‘Primavera araba’ tra Tunisi e Tripoli. Ha lavorato per tv, radio, agenzie e carta stampata. Ha un blog, ildottorgonzo.wordpress.com, che aggiorna quando gli pare. Odia Twitter e ha due gatti: Tongo e una profuga siriana presa ad Aleppo. Siria (Hurryia, appunto…)[/author_info] [/author]

6 giugno 2014 – Dunque sono finite le elezioni presidenziali in Siria. Una novità questa volta: per favorire il consenso democratico nel Paese il buon Assad ha pensato di far piazzare due candidati con nessuna speranza di vittoria che addirittura si auguravano di finire secondi. Un po’ come gareggiare per il titolo mondiale di boxe e dichiarare in conferenza stampa di voler finire al tappeto al primo round.

La Siria di Assad è questa: un paese surreale dove si vota solo nel 40% del territorio. Un paese dove l’agenzia stampa governativa Sana parla dell’80% di affluenza e gli aventi diritto al voto sono 15,8 milioni, ma dove il 60% del territorio è fuori controllo governativo (anche se è vero che il regime detiene i grandi centri urbani) e ci sono 3 milioni di sfollati nei campi all’estero.

Come gli esce sta cifra dell’80% di affluenza? Come il coniglio dal cilindro del mago Silvan? Un paese dove i controllori della regolarità del voto sono osservatori ‘indipendenti’ provenienti da Iran, Russia, Venezuela, Bolivia, Filippine, Tagikistan, Zimbabwe, Uganda.

 

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Ovviamente c’è anche chi si complimenta per la ‘regolarità del voto’. Un voto libero come una passeggiata in un gulag di staliniana memoria. O in un campo di concentramento nazista.

La Siria del regime è un paese talmente paradossale che il Presidente che si preoccupa “per l’espressione di gioia e di entusiasmo e il senso di gioia nazionale che però non giustificano i colpi sparati in aria, che mettono in pericolo la vita dei cittadini” è lo stesso che ha permesso l’uccisione di centosessantamila persone. Mica è uno scherzo, lo ha detto veramente.

Un po’ come se la Camorra si preoccupasse della salute dei cittadini invitandoli a non tirare i botti di Capodanno. La stessa preoccupazione che ha avuto per la città di Aleppo, che da novembre a oggi ha avuto il segno – 2000 abitanti. Non scappati ma ammazzati dai barili bomba sganciati dall’aviazione di quello stesso Presidente (quello che si preoccupa dei suoi cittadini, per intenderci). Seicento i bambini uccisi.

Migliaia i feriti. Loro non hanno votato. I curdi non hanno votato. Gli sfollati scappati dalla barbarie non hanno votato. I palestinesi di Yarmouk che non possono da sempre votare ma che se potessero farlo non morirebbero di fame chiusi in un grande campo di concentramento nella opulenta Damasco. La Siria del regime è quella che fa dire ai giornalisti italiani presenti a Damasco che in fondo beh, non si può parlare proprio di elezioni farsa. Una grande macchina di omertà, disinteresse e interessi personali. La guerra si fa anche così.

 

 

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