Gezi Park Perspectives 3

VideOccupy, il collettivo che ha costruito in piazza un media indipendente. Continua con loro la galleria delle interviste alle varie anime della protesta di un anno fa a Istanbul

 

Il progetto delle voci del movimento Gezi Park sarà completato qui sul sito di Q Code Magazine, mentre interviste inedite saranno pubblicate sul prossimo numero de Il Reportage, nelle librerie dal 1 luglio prossimo.

 

di Christian Elia e Alessandro Ingaria

 

6 giugno 2014 – Molti degli stencil il giro per la città di Istanbul sono stati cancellati, o coperti da altro, ma resta viva quella che potremmo definire la memoria del pinguino. La sagoma dell’animale è diventata una sorta di mascotte di Gezi Park e del movimento in difesa del parco cittadino. Questo è accaduto perché la notte che accadeva l’inferno in piazza Taksim, la CNN turca, nel timore delle reazioni del governo, trasmetteva un documentario sul simpatico animale. A quel punto, però, qualcuno si sostituiva ne ruolo che sarebbe dovuto spettare ai media tradizionali: informare.

Un anno fa il collettivo VideOccupy, in pochi giorni, diventa un punto di riferimento per tutti coloro che volevano sapere, guardare quel che accadeva in piazza Taksim e a Gezi Park. Siar era con loro.

“Sono un videomaker e fotografo. Non so se documentare è la parola giusta per descivere l’esperienza di VideoOccupy. E’ stato differente: mettere in mostra la realtà, mettere le carte in tavola. Questo volevamo fare e abbiamo fatto.
Eravamo pochi , una ventina, non conoscevo nessuno prima. Ci siamo conosciuti nel parco, dove tutti eravamo arrivati da soli. Per un senso di reazione ai media tradizionali in Turchia. Un’urgenza. Ci siam sentiti responsabili di dire al mondo: noi siamo qua. Molti di noi lavorano dentro il mainstream, ma abbiamo capito che potevamo crearci un nuovo media, un nostro media. Non ci possiamo fidare di quelli di massa, lo sappiamo. Il governo, attraverso gli uomini d’affari che gli sono vicini, controlla 16 reti televisive. Ci sono intere zone del Paese che s’informano attraverso un unico punto di vista. Bisognava reagire. Lo abbiamo fatto utilizzando il terreno dove siamo in vantaggio, il nostro mondo: internet, twitter, facebook. Giochiamo in casa, loro sono in ritardo”.

“Ho sentito che il mio ruolo, e quello degli altri di VideOccupy, era una forma di attivismo, di media attivismo, come quelli che hanno fatto le barricate e quelli che hanno fatto gli infermieri o altro. Noi dovevamo raccontare quello che vedevamo. Sono stato parte del mio racconto, per farne testimonianza, per farne denuncia. Tutti oggi sanno, in Turchia e nel mondo, come reagiscono i poteri strutturati di fronte alle rivendicazioni”.

 

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Siar viene dal mondo della pubblicità, ma da tempo si è messo in gioco con progetti suoi, che lo hanno riportato a Istanbul un anno fa dopo un periodo all’estero.

Come vi siete organizzati? “Abbiamo parlato tra di noi di come filmare quel che capitava, abbiamo deciso di non concentrarci solo sulle violenze, perché la vita dentro il parco era molto più importante. Abbiamo a un certo punto ristretto la zona delle riprese, senza facce di manifestanti, per la loro sicurezza, ma video significa io vedo, e ci siamo concentrati sul far vedere chi eravamo e cosa stavamo guardando e facendo. Essere in mezzo alle cose ha significato molto: tanti venivano e ci davano materiale, per creare un archivio di emozioni e situazioni vissute e condivise. Abbiamo raccolto più di 800 ore di girato che continuiamo a processare. Molto del nostro materiale è stato utile anche nei processi. Adesso lavoriamo a un archivio collettivo, globale, a disposizione di tutti. Siamo volontari, è faticoso. Per mesi ci chiamavano per filmare le manifestazioni, ma non si può andare avanti così, è troppo lavoro. Allora dopo la razionalizzazione dell’archivio e la creazione di una piattaforma libera dove tutti potranno accedere al materiale, ci concentreremo sulla formazione di videomaker e fotografi nei vari collettivi. In modo che ciascuno si renda indipendente, si possa dedicare alla sua auto narrazione”.

 

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Eri pronto a quello che sarebbe accaduto? “Non mi aspettavo di vivere quello che è accaduto un anno fa. I primi segnali li ho percepiti il 1 maggio 2013. Dopo due anni nei quali era stata concessa piazza Taksim per una delle manifestazioni più care alla sinistra turca, dopo anni di dinieghi, arrivò la notizia che il governo aveva deciso di impedire di nuovo l’uso della piazza per la dimostrazione. Avvennero incidenti, ma non era solo questo, si respirava un’aria strana, nuova. Qualcosa che cresceva, un disagio, un attivismo, un impegno differente. Mancavo da due anni, si sentiva fortissimo”, spiega Siar, sulla terrazza di un bar di Besiktas, un quartiere dove Asia ed Europa si sfiorano e si contaminano.

“Un movimento, composto da tanti network che hanno preso a relazionarsi, piccole assemblee, contaminazioni di movimenti, contatti. Molti erano in differenti gruppi, piattaforme liquide dove arrivano istanze diverse, ragionando su come condividerle. Il 27 maggio alcuni amici erano dentro il parco, il giorno dopo – solo con un passaparola – eravamo 200. Non sapevamo cosa fare, ma sapevamo perché eravamo là. Per difendere il parco. Tutto era pacifico, non ci aspettavamo tanta violenza. Abbracciavamo gli alberi, chi minacciavamo? Ma la polizia ha reagito in modo davvero duro. Aspettavamo la reazione, ma nessuno andava via. Non vedevamo il senso della violenza, c’era il nostro diritto, non vogliamo il centro commerciale e vogliamo i parco. Cosa c’è di male?”.

Poi, il brusco risveglio. “Il 31 hanno attaccato da tre punti, chiudendo le uscite, lasciando un piccolo passaggio, di venti metri per tre, 3000 persone son dovute passare da là. Lacrimogeni, peperoncino. Ero convinto di morire, non respiravo più. Tanti crollavano, molti feriti. Alla sera migliaia di persone a Istiqlal, mai visto nella mia vita. Un’anima forte, compatta, una sensazione condivisa. Alle 4 del mattino l’ultima barricata in piazza, all’improvviso, in modo inatteso, si sono ritirati. Ancora mi chiedo come mai. Dieci giorni bellissimi, un altro mondo. Nessun problema, nessun casino. Cittadini che si rispettavano a vicenda, nessuno chiedeva le dimissioni del governo, ma solo che il governo rispettasse la nostra volontà, il nostro parco”.

All’interno del parco, chiusi dentro o chiudendo fuori il mondo, a seconda dei punti di vista, inizia un breve ma intenso periodo di convivenza. “Abbiamo scritto, quasi senza rendercene conto, una nuova grammatica della convivenza, abbiamo parlato una lingua dell’empatia. Curdi, socialisti, comunisti, nazionalisti, repubblicani, islamisti. Tutti, assieme. Abbiamo cercato, trovato, un nuovo modo di discutere. Finendo per capire la Turchia, come fosse un nuovo giorno, conoscendoci davvero oltre le differenze. Un nuovo vocabolario, plurale. Si notava lo sforzo nel trovare parole nuove. Non c’era un sistema, c’era un non sistema, o un nuovo sistema. Che cambiava i presupposti. Non eravamo pronti, forse, ma chi poteva esserlo? Come poteva essere facile? Ogni giorno, dagli errori, imparavamo come non farli più. I forum sono il simbolo di questo nuovo passaggio per il futuro. Un contenitore dei cittadini, dove ciascuno può portare la sua voce, senza i filtri dei partiti. Il 15 giugno sono rientrati nel parco, scacciandoci. Siamo dilagati nella città, dove sorgevano forum come funghi: 39 solo a Istanbul il 20 giugno, finirono per essere più di 70 nel Paese. Molti funzionano ancora”.

Molti altri no. Perché? Come ogni onda emotiva si è via via affievolita? L’impossibilità di raggiungere obiettivi tangibili, in poco tempo, ha finito per allontanare alcuni delusi? “C’è un aspetto di questo Paese che va chiarito, per cogliere appieno la portata di quello che è accaduto un anno fa. In Turchia si è sempre vissuto sotto pressione. Non abbiamo praticamente mai conosciuto un vero e trasparente assetto democratico”, spiega Siar, accendendo l’ennesima sigaretta.

“La politica e i militari, comunque, tenevano il Paese stretto in un pugno. Sempre. Gezi è stata una delle prime occasioni per i partecipanti di sentirsi padroni del proprio destino, di ritrovarsi nel centro di un meccanismo decisionale orizzontale, condiviso. I forum sono un aspetto chiave per questa società: essere un cittadino significa influire sulla propria società. C’è il voto, certo, ma in tantissimi non sentono più questo come un rito sufficiente per sentirsi ascoltati. Da un sistema corrotto, compromesso. I partiti delle opposizioni lo hanno capito, e hanno commesso un errore grave, tentando di intercettare i voti, non di andare verso quell’esempio, quelle idee. Questo ha, ovviamente, complicato le cose, le ha rallentate. Ma questo anno non è passato invano, cambiare è un processo lungo e quest’anno è stato necessario per riflettere, capire, approfondire. Ti faccio un esempio: il diritto alla casa, un tema di cui non si era mai parlato qui. Oggi questo è un tema sul tavolo, che ha portato a un censimento degli alloggi sfitti, che ha svelato l’inganno del potere politico colluso con quello economico che s nutrono di speculazioni edilizie inutili. La storia di questo anno è stata decisiva per noi, abbiamo vissuto di corsa, per non crollare. Avevamo paura di perderci, di tronare indietro. Dobbiamo capire che indietro non si torna, il processo è partito e non basteranno tutte le leggi liberticide del mondo, compresa quella davvero pericolosa sul web, per fermarlo”.

 

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