Cinque anni senza L’Aquila

Cinque anni dopo il terremoto, L’Aquila appare come una città devastata avvolta dal silenzio e dall’oblio più assoluto

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/FacebookHomescreenImage.jpg[/author_image] [author_info]di Susanna Allegra Azzaro. Amo definirmi “cittadina del Mediterraneo”. Le mie origini si perdono tra Sardegna, Genova, Sicilia e Nord Africa, ma è a Roma che sono (casualmente) nata. Lavorare nella cooperazione internazionale mi ha dato la possibilità di vivere un po’ in giro nel mondo; la curiosità, invece, mi ha spinta a cercare di imparare il più possibile dalle culture con cui sono venuta a contatto. Tra il 2008 e il 2009 il lavoro mi porta in Medio Oriente e da allora esso continua ad essere una presenza costante nella mia vita. Recentemente vi sono tornata per approfondire i miei studi della lingua araba colloquiale “levantina”.[/author_info] [/author]

7 giugno 2014 – Quando nel gennaio del 2007 ho visto Sarajevo per la prima volta ho provato una gamma di sensazioni talmente vasta da includere rabbia e stupore, ma anche tenerezza e gioia, e ancora oggi la sola parola, Sarajevo, evoca dentro di me quelle stesse emozioni, rimaste invariate nonostante il corso del tempo e i cambiamenti.

Eccome ne ho visti di conflitti e sciagure umane, ma per qualche strano motivo Sarajevo è stato l’unico posto al mondo ad avere avuto un impatto così forte sul mio stato d’animo. O almeno così è stato fino al weekend scorso, quando alla capitale bosniaca si è aggiunta un’altra città geograficamente ancora più vicina: L’Aquila.

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Sono da poche settimane passati cinque anni dal terribile terremoto che ha messo in ginocchio la città e provocato 309 vittime. Come di rito si sono tenute le giuste commemorazioni con tanto di giornalisti e politici, per un giorno si è sentito parlare dell’Aquila prima di tornare allo stato in cui la città permane ormai da anni: l’oblio più assoluto.

I media e i politicanti del nostro paese devono sicuramente avere priorità più importanti tali da poter giustificare tale dimenticanza, questa è l’unica motivazione plausibile che posso dare al silenzio assoluto che circonda la città e la sua condizione, quello stesso silenzio che oggi regna sovrano per le strade del centro storico della città.

 

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Ma andiamo per ordine. Sorpresa di non sentir più parlare della città e della sua condizione, mi sono illusa, ancora una volta, che non ci fosse un motivo valido per parlarne, che le cose stessero seguendo il loro corso naturale, cioè quello della ricostruzione. Mi sbagliavo.

Attraversando il desolato Corso XX Settembre che porta al centro storico della città, cominciano a palesarsi i primi palazzi disabitati ancora provati dal terremoto. Improvvisamente mi sembra di essere tornata a quel gennaio 2007 quando, con il muso attaccato al finestrino di un taxi, vedevo sfilare per la prima volta davanti a me i palazzoni della periferia di Sarajevo con ben visibili i pesanti segni della guerra.

Ma a L’Aquila oggi è ancora ovunque distruzione, scuole chiuse, porte sbarrate, case inanimate, l’immobilità più assoluta in quella che una volta era una via trafficata e viva della città.

Proseguendo verso il centro si passa accanto alla ormai tristemente famosa casa dello studente, ma su questo tornerò più tardi perché voglio che le ultime parole che leggerete in questo post siano un pensiero rivolto a quei 9 studenti morti nel tentativo di mettere in salvo la propria vita.

Arrivati nel centro della città, il sospetto che fino ad allora si era gradualmente insinuato nei miei pensieri è ormai diventato certezza: L’Aquila è una città esanime, abitata solo dai suoi fantasmi.

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Fino a poche settimane fa gran parte dei vicoli del centro erano ancora presidiati dalle camionette dei militari, il cui compito era impedire l’accesso alla cosiddetta zona rossa, quella particolarmente martoriata dalla potenza del terremoto.

È sabato, le strade sono abbandonata a sé stesse, anche i numerosi gruppi di operai che lavorano alla lenta ricostruzione se ne sono andati, il silenzio inquietante non fa presagire niente di buono.

La famigerata zona rossa è facilmente accessibile e non ben delineata; camminando senza meta per le stradine del centro ci ritroviamo spesso, involontariamente, in aree dove l’accesso non sarebbe consentito.

Ovunque calcinacci, oggetti di vita quotidiana, pareti sventrate che mostrano gli interni di quelle che una volta erano case vive, ognuna con la propria storia. In mezzo a tanta desolazione ogni tanto spunta un giocattolo, un vecchio nastro rosa appeso al portone, un nano da giardino che se la ride circondato dai detriti.

All’improvviso ti ricordi che lì una volta crescevano e nascevano nuove vite, le famiglie si riunivano per il pranzo della domenica, gli studenti riempivano di musica i vicoli.

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I numerosi bar e negozi con ancora le insegne integre sono cumuli di polvere e calcinacci, le vecchie locandine scolorite pubblicizzano film che al cinema non ci sono più da un pezzo e spettacoli che dubito si siano rappresentati.

Con il passare delle ore qualcosa si muove, la città comincia timidamente ad animarsi. Gruppi di adolescenti si riversano per le poche strade vivibili del centro, alcuni bar aprono, in un negozio di strumenti musicali qualcuno suona Bach, mentre nella piazza principale un raduno di vecchie Alfa Romeo ridà alla città una parvenza di normalità.

Difficile non notare un piccolo discreto esercito di anime in pena che si aggira senza meta per i vicoli più silenziosi della città. Uomini erranti di una certa età, si muovono lentamente per poi fermarsi davanti a un palazzo abbandonato o un negozio fatiscente. Rimangono lì immobili per qualche minuto e poi ricominciano a vagare con la faccia scura, gli occhi spenti, i ricordi dolorosi. Cercano il tuo sguardo, probabilmente vogliono capire chi sei dato che qui di “turisti” non se ne vedono da un pezzo. Forse vogliono raccontarti la loro storia, o forse non ne hanno più la forza.

Gli aquilani con cui ho avuto modo di parlare sono rassegnati, sconfitti, coscienti del fatto che tutto ciò che è stato non tornerà mai più. Poche le famiglie che sono ritornate a vivere nel centro della città, cinque in tutto; i negozi e bar aperti si possono contare facilmente, tre sono i ristoranti attualmente attivi.

Luca e famiglia hanno aperto il loro ristorante da circa un anno e mezzo a pochi passi dalle transenne della zona rossa. C’è chi li definisce pionieri coraggiosi, per me sono una sferzata di vita in mezzo a quella desolazione da post conflitto bellico. Basta uscire dal loro ristorante per essere di nuovo circondati dal silenzio, di notte i vicoli della città ricominciano a far paura, non si incrocia un essere animato nemmeno a pagarlo oro.

Prima di andare via ci fermiamo davanti la casa dello studente e di nuovo la parola Sarajevo torna a rimbombarmi nella testa.

I cecchini dalle montagne sparavano sugli abitanti stremati dall’assedio, ci provavano gusto a puntare quei puntini mobili che si aggiravano impunemente per le strade alla ricerca di un po’ di cibo o semplice normalità. L’aspetto più agghiacciante di tutte le guerre: la soddisfazione di far fuori un tuo simile, la perdita della compassione, l’estraneazione dalla realtà. Davanti a questo edificio martoriato dalla violenza della natura provo la stessa rabbia che mi suscitava la vista delle “rose di Sarajevo”, le note macchie rosse dipinte sul suolo nei punti dove le granate avevano provocato vittime.

Non c’è stato nessun cecchino a L’Aquila, ma individui guidati dall’avidità e dal guadagno facile, esseri umani che hanno ritenuto che la vita di quegli studenti valesse meno dei loro conti in banca. Sapevano che costruendo l’edificio con materiali scadenti avrebbero messo in pericolo la vita di molte persone, ma hanno deciso di premere il grilletto, alla stregua dei cecchini cetnici.

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Parte della casa dello studente è ancora in piedi, da fuori si vedono gli interni di alcune stanze, le porte antincendio, poi il nulla. Le scale sono crollate su se stesse inghiottendo quei nove studenti che cercavano di fuggire.

Le transenne di fronte alla casa dello studente sono piene di ricordi, messaggi, foto. La vista dei palazzi sventrati è nulla di fronte a quei volti sbiaditi dal tempo o al messaggio di una madre al figlio andato via troppo presto. Questo è quello che resta.

In balìa di un turbinio di sentimenti contrastanti mi lascio L’Aquila alle spalle e torno alle mie strade trafficate, al rumore della città, ai bar affollati. Sembra lontana anni luce la mia città, ma poco più di un’ora la separa da tanta desolazione.

Non so se L’Aquila tornerà mai a essere quella che è stata, sinceramente ne dubito visti tempi e costi della ricostruzione. E non so come concludere in maniera decente questo post dal momento che, per mia natura, mi viene naturale vedere il bicchiere mezzo pieno. Chiedo venia, ne sono mortificata, ma questa volta proprio non ci riesco.

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