Città presa, guerra vinta

“Gerusalemme contesa”, un libro che legge il conflitto arabo-israeliano da una prospettiva urbanistica. Intervista all’autore, il ricercatore Francesco Chiodelli

“Lo spazio è stato foggiato, modellato a partire da elementi storici o naturali,
ma sempre in maniera politica. Lo spazio è politico e ideologico.
È uno spettacolo letteralmente popolato di ideologia.”
(Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, Moizzi Editore, Milano,1976)

 

In una guerra le città hanno un duplice valore: sono contemporaneamente obiettivo da conquistare e strumento per conquistarlo. E il conflitto israelo-palestinese, all’interno della città di Gerusalemme, incarna in modo emblematico questa caratteristica.

Gerusalemme, la città vecchia. Foto di Davide Locatelli

Gerusalemme, la città vecchia. Foto di Davide Locatelli

«[…]La battaglia è combattuta per lo più senza sparare, e la città non mostra le cicatrici classiche della guerra. Il corpo urbano non viene distrutto, ma modificato incrementalmente, attraverso trasformazioni minute che mirano a “conquistare” la città passo dopo passo, in una guerra di posizione in cui ciascuna delle parti in causa, ciascuna con i propri mezzi, cerca di assicurarsi il dominio fisico di Gerusalemme.»

Sono parole tratte dal libro “Gerusalemme contesa” (Carocci, 2012) di Francesco Chiodelli, attualmente ricercatore presso il Gran Sasso Science Institute dell’Aquila, che ha indagato la declinazione spaziale del conflitto, dimostrando come la città, nel caso rappresentativo di Gerusalemme, sia contemporaneamente mezzo di regolazione dei rapporti sociali e arma bellica.

«Non si può comprendere il conflitto se non si conosce ciò che succede nel territorio» esordisce Chiodelli. «Il rapporto tra regolazione dello spazio e regolazione sociale non è da intendersi solo in termini repressivi, ma anche analizzando come una certa regola influisca nell’uso dello spazio, quindi come riesca a regolamentare la popolazione insediata. A Gerusalemme la regolazione sociale è strettamente connessa al conflitto tra sub-gruppi di popolazione e ai rapporti di potere tra di essi, in particolare tra gruppo arabo e gruppo ebraico. Chi si occupa di urbanistica in Italia tendenzialmente non considera quanto la pianificazione possa essere un mezzo di controllo dei rapporti sociali e come non sia solo regola disegnata, ma uno strumento che incide, profondamente e a più livelli, sulla popolazione.»

La ricerca di Chiodelli ha un ruolo sociale ben preciso: riconoscere e analizzare una serie di fatti oggettivi che, al di là delle idee politiche su chi abbia ragione o su quale debba essere la soluzione per risolvere il conflitto, possa diventare la base per una discussione critica.

Attualmente gli accordi di pace sono in fase di stallo: sul territorio, però, la situazione si evolve in modo stabile, procedendo verso una direzione ben definita.

«I colloqui di pace voluti da Obama» continua Chiodelli «si sono interrotti, tra le altre cose, sul lancio di un ulteriore processo d’insediamento per 10.000 abitazioni a Gerusalemme Est (la zona orientale della città occupata da Israele nel 1967 durante la guerra dei Sei giorni), voluto da Israele. C’è da fare una premessa. Con la risoluzione 252/1968, le Nazioni Unite hanno riconosciuto lo stato di territorio occupato di Gerusalemme Est, e hanno dichiarato l’illegittimità delle azioni legislative e amministrative intraprese da Israele che tendono a cambiare lo status della città. Di fatto, però, sono comunque le autorità israeliane ad amministrare l’intera città. Nel 2000, con la redazione del “Jerusalem Master Plan”, sempre da parte di Israele, gli interventi e le linee di sviluppo sono stati sistematizzati in un unico documento urbanistico: all’interno si trova anche la programmazione dei futuri interventi di nuova edificazione, tra cui il progetto di insediare 30.000 nuove abitazioni ebree a Gerusalemme Est. I documenti ufficiali israeliani dicono che Gerusalemme Est farà parte a tutti gli effetti dello stato ebraico: il processo di pace non può non tener conto dell’evolversi della situazione attuale, conosciuta da tempo. L’operazione israeliana d’inclusione dei quartieri orientali all’interno dello stato ebraico prosegue da cinquanta anni, con poche interruzioni, grande perizia, grandissima disponibilità di fondi e precisa maniacalità. A Gerusalemme ci sono due città, anche per le Nazioni Unite, ma l’impressione, attraversando oggi il suo territorio, è che i quartieri palestinesi altro non siano che piccole anomalie all’interno della città israeliana.»

Il quartiere arabo di Silwan. Foto di Francesco Chiodelli

Il quartiere arabo di Silwan. Foto di Francesco Chiodelli

Il “Jerusalem Master Plan”, redatto nel 2000, non è ancora stato adottato e molto probabilmente sarà sostituito da un piano regolatore aggiornato: nonostante ciò, la sua importanza è fondamentale, perché rappresenta lo strumento politico che indica le vie da percorrere per ottenere gli obiettivi che si è prefissata Israele, e rispecchia perfettamente la direzione verso cui la città si sta muovendo.

Al suo interno sono contenuti dei principi generali di indirizzo, che si pongono in contrasto rispetto alle politiche di carattere discriminatorio del passato: l’intento è di affrontare i problemi della città nella sua totalità, al di là dei conflitti etnici, prendendosi carico di problemi legati al degrado dei quartieri arabi (completamente trascurati in precedenza) e alla domanda di alloggi da parte della popolazione araba residente.

Di contro, andando ad analizzare in dettaglio gli strumenti attuativi, i principi generali assumono un carattere completamente diverso, riservando trattamenti diversi alla popolazione araba e a quella israeliana: per esempio, nella parte riservata alle nuove abitazioni ebree, si parla di espansione, quindi nuove costruzioni in nuove aree della città, mentre per la parte riguardante le residenze arabe, si parla di densificazione, quindi nuove abitazioni in aree già urbanizzate.

La differenza è sostanziale: da una parte un processo di appropriamento del territorio a fini espansionistici, dall’altro un incremento di alloggi in zone già fittamente costruite, per la maggior parte in modo abusivo (spesso conseguenza dell’iter burocratico per ottenere permessi regolari particolarmente difficoltoso per la popolazione araba residente a Gerusalemme).

«Le interpretazioni sono due» sostiene Chiodelli. «O veramente sono dichiarati degli intenti e di proposito si attua il contrario, oppure, essendo il masterplan un documento molto complesso, in realtà gli urbanistici hanno enunciato degli intenti che poi, a livello pratico, si sono tramutati in qualcosa di diverso: potrebbero essere delle intenzionalità conflittuali di un documento che non è stato assemblato in modo unitario. Probabilmente le dichiarazioni a favore dei palestinesi non sono solo specchietti per le allodole per dare un’immagine diversa a livello internazionale o a livello interno, ma sono in parte il frutto sincero di qualche urbanista e pensatore che teorizza una via neutrale. Fatto sta che sarà molto probabilmente attuato solo ciò che è coerente alla politica israeliana. Quindi che le dichiarazioni siano state fatte in buona o cattiva fede, il risultato non cambia.»

Gerusalemme Est rappresenta ancora oggi, nonostante l’occupazione e la colonizzazione israeliana, il punto di riferimento per la Cisgiordania, sia per gli aspetti simbolici o religiosi, sia per quelli funzionali ed economici. All’esterno del perimetro della città, nella parte orientale, si sono sviluppati degli agglomerati suburbani arabi, ponte tra la città stessa e la Cisgiordania, una sorta di piccola metropoli ai confini di Gerusalemme, fortemente legata all’attività dei quartieri arabi interni, con i quali ha intrecciato uno stretto rapporto a doppio filo, diventando lo spazio di relazione con l’esterno per eccellenza.

Le politiche israeliane, a partire dagli anni novanta, hanno cercato di ostacolare questa forte relazione, introducendo i check point e i permessi di transito. Ma è stata la costruzione del “muro” a dare il colpo di grazia a una situazione già compromessa.

Abu Dis, il muro. Foto di Davide Locatelli

Abu Dis, il muro. Foto di Davide Locatelli

L’ideazione della barriera è da attribuire al partito laburista israeliano alla fine degli anni novanta con il motto “Pace attraverso la separazione: noi siamo di qui e loro sono di là”: uno strumento “fisico” per raggiungere finalmente un equilibrio.

Negli anni successivi il primo ministro Sharon (dello schieramento politico opposto) si appropria dell’idea, stravolgendone completamente il significato: il muro diventa uno strumento di colonizzazione con il motto “noi siamo sia di qui, sia di là” e, allo stesso tempo, una misura di sicurezza contro il terrorismo considerata da Israele assolutamente necessaria.

Le decisioni che riguardano Gerusalemme e i territori occupati sono prese direttamente dal Ministero degli Interni, anche gli aspetti che riguardano la pianificazione edilizia: tutto viene considerato “questione di sicurezza nazionale”.

Il tracciato del muro viene modificato varie volte nel corso degli anni, per riuscire a soddisfare al meglio gli obiettivi della politica israeliana attraverso un sapiente taglia e cuci: da una parte, indebolire i quartieri arabi di Gerusalemme Est tranciando di netto i collegamenti con gli insediamenti suburbani della Cisgiordania, e dall’altra inglobare all’interno del perimetro cittadino le colonie ebree e nuovi territori.

«La Corte Internazionale dell’Aia» continua Chiodelli «ha giudicato la barriera illegale non in quanto ostacolo fisico, ma per il suo tragitto: se è una questione di sicurezza, il muro va fatto sul confine e deve avere un senso per quell’obiettivo. È fondamentale conoscere un’informazione del genere perché non è il giudizio di un singolo, ma quello di un organo internazionale che si è espresso in modo chiaro. La barriera esclude o include (a seconda del caso) quartieri, riserve d’acqua, parti di territorio non ancora edificate (ma pianificate) con l’evidente scopo di perseguire obiettivi altri rispetto alla sicurezza. Il lato israeliano del muro è camuffato da colline verdi artificiali o da altri escamotage estetici, perché la sua presenza non venga percepita dai cittadini israeliani e, di conseguenza, non venga avvertita la vicinanza fisica con i quartieri arabi, ormai piccole eccezioni del tessuto urbano.»

Muro ad Abu Dis, 2006. Foto di Francesco Chiodelli

Muro ad Abu Dis, 2006. Foto di Francesco Chiodelli

Il punto centrale della questione è tutto qui, secondo Chiodelli. «Il muro dà vita a quella che può essere definita una “Grande Gerusalemme Ebraica”, un’entità urbana composta dall’unione dell’area municipale con le più significative colonie limitrofe in Cisgiordania e caratterizzata da uno spazio prevalentemente ebraico. A livello politico la barriera rischia di assestare un colpo fatale al processo di pace: nel tracciare quelli che per Israele sono i confini ottimali della città, il muro determina una soluzione inaccettabile per la controparte palestinese, poiché impedisce di fatto che Gerusalemme Est possa diventare la capitale di un futuro stato palestinese».

 

Post scriptum: si segnala per il 13 giugno prossimo a Milano:

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