Gezi Park Perspectives 5

L’identità curda, tra assimilazione e resistenza. Continua la galleria delle interviste alle varie anime della protesta di un anno fa a Istanbul

Il progetto delle voci del movimento Gezi Park sarà completato qui sul sito di Q Code Magazine, mentre interviste inedite saranno pubblicate sul prossimo numero de Il Reportage, nelle librerie dal 1 luglio prossimo.

di Christian Elia e Alessandro Ingaria

10 giugno 2014 – “L’idea di passare la vita in una riserva indiana non poteva essere il senso della mia vita. Come non poteva esserlo accettare un’assimilazione, un vivere dissimulando me stesso e la mia identità per non avere problemi. Ecco, i giorni di Gezi, per me, hanno rappresentato la prova pratica, vissuta, che esiste un modo per essere me stesso in una comunità plurale”.

Cem è un uomo imponente, lo noti nella folla mentre avanza venrso un caffè di Besiktas. Attore e regista, cinema e teatro. Un artista che, con una gestualità coinvolgente, comunica l’entusiasmo che mette nel raccontarsi.

“Ho studiato al Conservatorio di Ankara, ma le assi di un palcoscenico le ho sempre sentite come il mio luogo ideale. I miei piedi e la scena hanno lo stesso rapporto che c’è tra le radici e un albero. Vita. Quindici anni fa sono andato a New York, non so perché. Non parlavo una parola di inglese, ma volevo crescere, imparare, mettermi in gioco, fare esperienza, umana e professionale. Ma non sono andato via solo per questo. Mi sentivo soffocare in Turchia. Perché sono curdo e mi pareva che qui, tutta la mia vita, sarebbe stata a una dimensione, come un foglio di carta, senza complessità. Chi è Cem? E’ un attore bravo o meno? E’ intelligente? Mi pareva che tutto il resto di me scivolasse via, come la pioggia lungo la strada, perché veniva tutto dopo il passaggio principale: sono curdo”.

 

cean il curdo 2

 

I curdi, in Turchia, rappresentano quasi il 20 percento della popolazione. Dagli anni Ottanta a oggi, nella contrapposizione armata tra l’esercito turco e le milizie curde del PKK sono morte decine di migliaia di persone. Interi villaggi curdi vivono in una militarizzazione perenne. Cem guarda lontano, come riavvolgendo il nastro di una vita.

“Io guardavo mio padre e mi sentivo soffocare. Lui, arrivato ad Ankara da un villaggio di campagna, non sapeva parlare neanche il turco. Oggi, invece, ha quasi rimosso il curdo. Questa è stata una società sbagliata, razzista. Lo è ancora, ma le cose cambiano e Gezi ha dato un segnale in questo senso. Amo portare una sciarpa al collo, tipica per i curdi e per il Medio Oriente. Mi madre mi pregava di lasciarla a casa – racconta Cem – perché temeva che i poliziotti vedendomela al collo potessero fermarmi, arrestarmi, interrogarmi, picchiarmi. Odiavo la loro sottomissione, ma non ero capace di immaginare un’alternativa, perché non ho mai creduto nella lotta armata. Finivo per essere considerato un assimilato dai curdi più radicali, ma non venivo considerato un turco vero e proprio da coloro che sono stati educati a rappresentare la nazione nella lingua turca, nel sunnismo musulmano. Sono andato via, per vivere, ma volevo tornare. Ancora oggi molti miei amici mi chiedono chi me l’ha fatto fare. Oggi gli rispondo che Gezi è stato il motivo. Ero qui e ringrazio ancora Dio, perché sono arrivato in tempo per godere di una visione. Quella di un Paese plurale”.

Solo rose e fiori? Non è che quella pluralità è stata possibile solo perché il nemico comune ha compattato un fronte altrimenti diviso?

“Non sono un ingenuo. Problemi c’erano e ci sono. C’erano anche dentro Gezi. Ma ho visto l’alternativa. E in certe occasioni anche solo immaginare un senso differente rende la vita più bella. Sono ottimista, prima non lo ero. In piazza ho visto, nei primi giorni dell’insurrezione, due gruppi che si fronteggiavano. Kemalisti contro curdi, bandiere turche contro i poster di Ocalan. Mi sono messo in mezzo, non credo che l’avrei fatto prima. Non siete i soldati di Ataturk o quelli di Ocalan. Siete cittadini, che difendono un bene comune a entrambi. Fate il gioco del governo dividendovi. Il gioco che per anni è stato fatto sulla pelle dei turchi. Dividerli, mettendoli gli uni contro gli altri, definendo le identità per contrapposizione, usando l’assimilazione forzata. In quella piazza ho visto l’antidoto. Ognuno è tornato alle sue vite, certo. I semi, però, sono lanciati. I ragazzi che hanno condiviso quella esperienza sono giovani, saranno cittadini migliori, educheranno meglio i loro figli. Perché il kemalista che si è battuto con il curdo, l’omosessuale che ha fatto le barricate con il fascista, hanno creato un legame. Un’esperienza condivisa, che gli resta addosso, come un virus. Ciascuno di loro lo porterà nel suo gruppo, contaminando quella ‘purezza’ assurda che ah creato una società a compartimenti stagni. Questa è la grandezza dell’esperienza di Gezi, non solo in Turchia, perché tutto il mondo ha guardato”.

Basterà cacciare Erdogan allora? Prima di lui, però, non è che la Turchia fosse il paradiso delle libertà individuali.
“Sono perfettamente d’accordo”, risponde Cem, toccandosi la barba curata. “Nessuno lo sa meglio di un curdo. Voi italiani avete avuto la Gladio. Ecco, immaginate che la Gladio fosse al governo, che ordinasse omicidi di leader curdi, impunito. Questo accadeva ogni giorno. Io non nego che negli ultimi dieci anni molte cose siano cambiate, ma un cittadino è tale solo se non vive contento di quello che il potere gli concede. Io non devo ringraziare Erdogan perché non ammazzano più i leader curdi, perché abbiamo solo ottenuto un diritto. Questo deve capirlo lui e tutti gli altri. Il potere non può sentirsi un padre paziente, che se non dai troppo fastidio ti concede delle libertà. Le libertà sono un diritto. Questo Gezi ha mostrato a tutti e le nuove generazioni lo sanno, ma ora lo devono imparare anche le classi dirigenti. E alla fine di questo lungo cammino, anche Erdogan dovrà ringraziare Gezi. Perché molti di noi hanno imparato a essere cittadini migliori, magari anche loro impareranno a essere dei governanti migliori”.

 

 

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