Peace Event Sarajevo

A 100 anni dallo scoppio della prima guerra mondiale, a Sarajevo si è tenuta la prima edizione di un festival sul tema della pace

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/04/Schermata-2014-04-15-alle-14.11.57.png[/author_image] [author_info]di Patrizia Riso, @patriziariso. Calabrese di origine, si interessa di Balcani da qualche tempo e di antimafia e migrazioni da… sempre. Laureata in Cooperazione Internazionale e Diritti Umani a Bologna, vive a Novi Sad da Marzo 2014 dove svolge il servizio civile all’estero.[/author_info] [/author]

17 giugno 2014 – Qualche mese fa un’amica di Belgrado mi ha invitato a partecipare alla prima edizione del Peace Event Festival, a Sarajevo. Guardo il programma e non ho dubbi: sembra un’ottima ragione per tornare nella città più affascinante dei Balcani. Parlo del festival anche ad un amico francese che vive a Novi Sad e conosce bene Sarajevo. Pur non conoscendo l’evento in sé, pensa che queste manifestazioni siano inutili e puntino il dito sulle responsabilità di Sarajevo rispetto allo scoppio della prima guerra mondiale. Il festival si tiene dal 6 al 9 giugno e richiama alla pace, ma nel ricordo dei 100 anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il 28 Giugno 1914 Gavrilo Princip uccise l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo realizzando un attentato divenuto l’evento storico che collega Sarajevo, nell’immaginario collettivo (e scolastico) di tutti noi, al primo conflitto mondiale. Riguardando il programma sembra che Sarajevo venga valorizzata piuttosto che stigmatizzata quindi, pur concedendomi il beneficio del dubbio, decido comunque di partecipare.

Arrivo venerdì pomeriggio e non ho l’opportunità di partecipare alla cerimonia di apertura. Poco male, sabato e domenica sono previsti moltissimi eventi tra workshop, conferenze, proiezioni di film ed esposizioni artistiche. Sono ospite da amici bosniaci che ovviamente mi portano a godere della vita notturna di Sarajevo. Inutile dire che sabato faccio fatica a svegliarmi presto e arrivo un po’ in ritardo all’Hotel Grand dove sono previsti moltissimi workshop che hanno per tema principale la non violenza applicata, spiegata e rielaborata in diversi modi. Scelgo “Bringing about social changes through non violent action training”. La mia mezzora di ritardo è accolta in modo benevolo da Kerstin Deibert, la formatrice che conduce il workshop. Mi colpisce come il suo soave tono di voce e il suo angelico sorriso si accompagnino bene ai racconti dei boicottaggi e delle azioni di protesta contro la guerra organizzate dalla sua associazione in Germania.

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Ci sono altri otto partecipanti provenienti per lo più dalla Germania – che scoprirò poco dopo essere il paese leader dell’organizzazione del Peace Event. Tra loro conosco Martin Arnold, pastore protestante in pensione che ha deciso di dedicarsi alla ricerca non violenta con l’Institute for Peace Work and Nonviolent Conflict Transformation. Mentre prendiamo un gelato mi racconta di quanto sia importante per lui capire il funzionamento del “potere della bontà” e mi dice che è la prima volta che si trova a Sarajevo e che la trova bellissima. Lo saluto all’ingresso del Museo della Bosnia ed Herzegovina e mi dirigo alla sede del sindacato per seguire il workshop “Internal and external (f)actors of the Yugoslav wars in the 1990s”.

Purtroppo scopro che la conferenza è stata cancellata. Poco male, ci sono tante altre opzioni. Inoltre ho l’occasione di conoscere due dei circa 200 volontari del festival, tutti provenienti dalla BiH. Mentre una ragazza inglese si lascia andare ad un colorito sfogo verbale – in pieno spirito pacifista – per la cancellazione dell’incontro, Miloš e Brana, mi spiegano che sono contenti di fare i volontari anche se l’organizzazione è un po’ carente e li obbliga a dover comunicare alle persone la cancellazione o lo spostamento di sede di alcuni eventi. I problemi logistici sono prevedibili e la gentilezza dei volontari e di tutti gli abitanti di Sarajevo rende tutto più semplice. Poco dopo sono al Kamerni Teatar, una sala teatrale nel centro della città. L’incontro “100 years of World War One – The socialist anti-war Movement and the Idea of the Balkan Federation” è organizzato dalla fondazione Rosa Luxemburg Stiftung. Ci sono circa trenta persone e moltissimi relatori che si sono alternati in quattro ore. La complessità dell’argomento richiedeva un certo approfondimento e d’altronde come ha detto uno dei relatori, scusandosi per la durata del suo intervento, “the Left talks too much”. Dopo aver ascoltato analisi sul socialismo serbo e le ragioni delle guerre balcaniche di inizio secolo, capisco di avere bisogno di un po’ di attualità.

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Mi dirigo allora al Bosanski Kulturni Centar, il principale centro culturale della città e quartier generale dell’organizzazione del Festival. La frenesia che vi ritrovo mi ricorda in qualche modo quella che vissuta in prima persona al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. Prendo appuntamento per un’intervista con gli organizzatori ed entro nella sala principale per partecipare all’incontro “Comparison between new social movements, starting from the examples of Bosnia and Ukraine”. Arrivo mentre sta parlando Ines dell’associazione ORC di Tuzla: “Per la prima volta dopo tanti anni, siamo scesi in piazza a protestare per avere giustizia sociale come cittadini, non come croati, bosniaci o serbi”, racconta Ines riferendosi alle proteste sociali nate a Tuzla e poi diffusesi in tutto il Paese a febbraio. Racconta dell’esperienza dei Plenum, assemblee cittadine aperte a tutti, esclusi i membri delle Ong e gli iscritti ai partiti, e usate recentemente per organizzare gli aiuti alle vittime dell’alluvione. Poi dedica un applauso a Zoran Ivančić, cittadino croato presente in sala che ha espresso pubblicamente il suo dissenso durante una manifestazione fascista, organizzata in onore di un criminale di guerra condannato dal Tribunale Penale Internazionale per la Ex-Yugoslavia a 26 anni di carcere. Si tratta di Dario Kordić che è rientrato all’aeroporto di Zagabria il 6 giugno dove ha trovato ad attenderlo alcune centinaia di persone pronte a dirgli “bentornato a casa”. Sembra che in sala ci sia un mosaico formato da storie balcaniche che si intrecciano tra passato e presente.

Lascio l’incontro poco prima della fine e vado al mio appuntamento con Kristine Karch e Reiner Braun dell’International Peace Bureau, uno degli enti del comitato internazionale che da due anni lavora all’organizzazione del Peace Event. Kristine mi spiega che Sarajevo è stata scelta come luogo di svolgimento del festival non solo per essere il luogo del casus belli della prima guerra mondiale, ma anche per l’assedio subito dalla città dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. Il festival è anche un modo per accendere i riflettori sui problemi attuali del Paese. Gli chiedo cosa pensano delle critiche mosse da Zlatko Dizdarević, giornalista bosniaco. “Mi dispiace che qualcuno pensi che fosse nostra intenzione indicare Sarajevo come città responsabile della guerra – risponde Reiner – L’assassinio di Francesco Ferdinando è avvenuto qui, questo è un dato di fatto, ma il festival richiama questo avvenimento per parlare non solo dell’importanza della memoria storica, ma anche di attivismo e pacifismo nella nostra vita quotidiana”.

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Elsa Rassbach, una delle speaker del festival, ha espresso il suo dissenso per il finanziamento ricevuto da USAID, l’agenzia di Cooperazione degli Stati Uniti. Kristin sembra conoscere l’articolo e risponde così: “Il Festival aveva bisogno di un finanziamento. I soldi arrivano comunque spesso dai governi ed è importante chiederli per responsabilizzare le istituzioni. Inoltre questa partnership non ha influito sulle tematiche del festival, un esempio è l’incontro sulla NATO”. Kristin si riferisce all’incontro “NATO 2014: It talks of peace but wages war”, organizzato dalla fondazione Rosa Luxemburg e previsto per il giorno seguente. Ci partecipo con piacere e vengo colpita da un intervento dal pubblico. Dopo un’interessante analisi sull’approccio integrato alla sicurezza della NATO e la presa di posizione pacifista di tutti i relatori, prende la parola un veterano serbo della guerra in Kosovo che dichiara il suo totale rifiuto alle operazioni della NATO, responsabili di crimini contro i civili e atrocità. L’applauso dei presenti sembra sincero, ma lascia pensare alle possibili interpretazioni del termine pace e, ancora una volta, richiama l’intreccio di storie e punti di vista balcanici.

È l’unico incontro a cui partecipo il sabato perché dedico il resto della giornata all’arte. Visito il museo di arte contemporanea Ars Eavi di Sarajevo e soprattutto vado all’incontro dedicato al video di animazione “MOnuMENTImotion – The Art of Dealing with the past in the Western Balkans”. Il video è il risultato di un workshop cui hanno partecipato 18 giovani artisti provenienti da Serbia, Kosovo, BiH, Macedonia e Germania. Menti artistiche del progetto gli artisti Muhamed Kafedzic e Marko Krojač, cittadino tedesco autore della mostra fotografica MonuMENTI – the changing face of remembrance”. La passione per i monumenti socialisti e per i Balcani lo ha portato a fotografare più di 300 monumenti tra Serbia, BiH, Croazia, Kosovo e Macedonia. Alcune di queste foto hanno formato la collezione esposta alla Umjetnička Galeria BiH di Sarajevo in occasione del festival. Tra le foto troviamo l’unico monumento dedicato a Bob Marley presente in Europa che si trova in una scuola elementare a Banatski Sokolac (Serbia) ed è stato voluto dagli organizzatori del festival Rock Village; o ancora la statua di Rocky Balboa a Žitiste, voluta dall’associazione locale omonima rappresenta un ideale serbo di coraggio e autodeterminazione. E ovviamente non poteva mancare la statua di Tito a Kumrovec, suo paese natio, distrutta da ignoti nel 2004 e poi ricostruita.

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Guardo le foto e il video realizzato da questo gruppo di artisti capaci di interessare ed emozionare il pubblico senza pretendere di dare verità assolute o risposte universali – e con i quali peraltro qualche ora dopo avrò il piacere di bere un bicchiere di vino – e capisco che, nonostante tutte le critiche possibili, il Peace Event di Sarajevo è stato l’occasione di conoscere punti di vista altri e ascoltare racconti paradossali e affascinanti, come Sarajevo, come i Balcani.

 

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