I Mondiali visti da Beirut

Le bandiere del Brasile sventolano davvero in ogni dove, dai quartieri sciiti di Dahiyye a piazza Sassine, cuore della zona cristiana di Beirut. E lo stesso vale per Spagna, Germania e Argentina. Anzi, talvolta i vessilli sono esibiti uno di fianco all’altro

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Clara-Capelli-NFC-Tunis-2013-Picture.jpg[/author_image] [author_info]di Clara Capelli, @clariscap, da Beirut. Dottoranda in economia dello sviluppo con la passione per la lingua araba, si occupa di mercato del lavoro in Nord Africa e Medio Oriente. Ha lavorato in Cisgiordania, Libano e Tunisia, ma non ha ancora capito quale Paese le piaccia di più. [/author_info] [/author]

21 giugno 2014 – Dai quartieri a maggioranza sunnita a quelli cristiani, fino alla periferia sciita dove i muri di sacchi di sabbia ancora raccontano delle esplosioni dei primi mesi dell’anno, Beirut celebra i Mondiali fiorendo di bandiere. Balconi, finestre, vetrine e soprattutto macchine: ogni posto va bene per dichiarare con orgoglio per quale nazione si tiferà. Una cosa inusuale ai miei occhi, perché vengo da un Paese dove la questione non si pone: fuori il tricolore, forza Azzurri e al massimo ti domandi a quale squadra concedere la tua simpatia se l’Italia viene eliminata.

Nella Beirut dei Mondiali 2014, sospesa tra la guerra in Siria e l’impasse politica interna, la bandiera del Brasile fa concorrenza a quella libanese. Sono molte le automobili rivestite da teli e gadget verdeoro. Seguono per ordine di preferenza Spagna, Germania e Argentina.

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Impossibile non porsi delle domande sulle ragioni di queste scelte in un Paese dove l’identità e l’interazione sociale passano per l’appartenenza a una comunità confessionale (cristiani maroniti o ortodossi, musulmani sunniti o sciiti, drusi, armeni e via elencando) e l’affiliazione a uno dei due principali blocchi politici: 8 Marzo, legato al regime di al-Asaad in Siria e facente perno principalmente su Hezbollah e sul Free Patriotic Moviment del maronita Michel Aoun; e 14 Marzo, ostile ad al-Asaad e dominato da al-Mustaqbal del sunnita Saad Hariri (figlio di Rafik, morto in un attentato nel 2005) e dalle Falangi Libanesi del maronita Amin Gemayel.

Una situazione così intricata da portarti tuo malgrado a leggere tutto attraverso le lenti del confessionalismo. Sviluppi un’inconscia e maniacale attenzione ai dettagli, cerchi di indovinare la religione dell’interlocutore dal suo nome, dalla zona dove abita o dalla città da cui proviene, da come si veste. E ti ritrovi a etichettare, incasellare, classificare, nell’illusione di capire qualcosa di più in un mosaico in cui anche quando le tessere paiono combaciare non vedi mai un’immagine chiara.

Anche il calcio libanese si articola intorno a dinamiche confessionali. Dimmi per quale squadra tifi e saprò di che religione sei e addirittura da quale parte stai politicamente. Per questa ragione da anni il campionato si gioca a porte chiuse, troppo forte è la paura che la vittoria di questa o quell’altra squadra sfoci in una rissa tra gruppi politico-religiosi rivali. Sarà così anche per i Mondiali? Eppure le bandiere del Brasile sventolano davvero in ogni dove, dai quartieri sciiti di Dahiyye a piazza Sassine, cuore della zona cristiana di Beirut. E lo stesso vale per Spagna, Germania e Argentina. Anzi, talvolta i vessilli sono esibiti uno di fianco all’altro.

“Spesso il confessionalismo ce lo inventiamo”, commenta un’amica mentre passeggiamo lungo lo khatt, la linea di demarcazione che durante la guerra civile separava le diverse fazioni in lotta, discutendo di una possibile relazione tra Mondiali e identità confessionale. Nell’ansia di imbrigliare ciò che vediamo in una qualche logica, tendiamo a esagerare e ricondurre ogni scelta a una questione politica. Si tifa una squadra perché ne si è innamorati, perché quel giocatore è davvero un fenomeno, perché è un gruppo vincente e si desidera un poco sognare. Khalas, basta, a volte le cose possono essere semplici.

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Le bandiere a sostegno dell’Italia, invece, non sono molte. Il campionato di calcio italiano non appassiona più come un tempo. “Una volta era il più bello del mondo, ma ora? Tanto vince sempre la Juventus perché corrompe gli arbitri”, mi prendono in giro i miei colleghi. “Il campionato inglese è il migliore ora”, dichiara uno, convinto tifoso del Liverpool. “Non è vero, quello spagnolo è spettacolare”, ribatte un altro. E infatti qui le magliette del Real Madrid e del Barcelona sono in vendita ovunque, Ronaldo e Messi sono gli eroi dei bambini libanesi. Per la finale di Champions League non si trovava un posto a sedere in centro a Beirut e le bandiere del Real erano dappertutto, quasi si fosse nella capitale spagnola.

“Poi l’Italia porta sfortuna al Libano se vince il Mondiale”, si inserisce un terzo, facendo ironia sul fatto che sia nel 1982 sia nel 2006 il Libano ha subito un’invasione militare da parte di Israele. Così ora si scherza sperando che l’Italia non vinca, altrimenti Israele tornerà e sarà di nuovo guerra.

Ma proprio al Mondiale del 1982 sono legate alcune delle storie più toccanti raccontatemi sulla guerra civile. Racconti di appassionati di calcio che volevano a tutti costi vedere le partite, specialmente quelle dell’Italia, di cui recitano con compiacimento la formazione. Racconti di tifosi che hanno aggirato posti di blocco delle varie milizie per raggiungere quei pochi luoghi che avevano una televisione e un generatore in grado di fornire abbastanza elettricità per 90 minuti, sempre però con il timore che, al momento buono, non si sarebbe riusciti a ricevere il segnale da Cipro. Racconti di festeggiamenti per la vittoria di un Paese che non era il loro tra gli spari e le bombe di una terra in guerra con se stessa. Racconti di momenti condivisi che la memoria ha reso magici ed epici, in cui il calcio si sceglieva per passione e non come una divisa indossata perché nati da una parte o l’altra di una linea di demarcazione umana prima ancora che geografica.

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