Il pantano siriano

Una giornata con la brigata dei martiri di Idlib, tra comandanti, partigiani e civili in fuga da una guerra che non interessa più nessuno

di Christian Elia, foto di Alessandro Ingaria, tratto da Galatea
@eliachr

 

7 luglio 2014 – L’aeroporto di Antakya, la millenaria Antiochia, è un terminal moderno, rimesso a nuovo da poco. Pochi controlli, poche domande, eppure questa è una delle porte dell’inferno-Siria.

La città è avvolta da un pulviscolo tenue, una polvere sottile, che attenua rumori e bagliori. Un formicaio umano si muove sotto questa traccia grigia, sono i profughi siriani. La macchina di Abed ha il lunotto posteriore decorato con uno sticker che riporta una sura del Corano: libertà e lotta e resistenza. Abed si sente partigiano «come quelli italiani, della Seconda Guerra mondiale. Conosco bene la vostra storia, l’Italia per me è un sogno. Fin da quando ero uno studente di archeologia, ad Aleppo, sognavo l’Italia. L’Italia è un museo a cielo aperto. Ho lavorato qui in Siria, come apprendista, con un’equipe di studiosi italiani. Ho mantenuto contatti con loro, spero prima o poi di ritrovarli. Magari in Italia. Il sito dove abbiamo lavorato ad Aleppo, non solo con gli italiani, ma con archeologi di tutto il mondo, è distrutto. Non ci penso, è meglio. Oggi quella vita, quei luoghi, quei volti mi sembrano così lontani. Un’altra vita. Mi concentro sul mio presente e futuro: distruggere Assad e il suo clan».

A qualche decina di chilometri la città. Le strade si animano, i vicoli si fanno più serrati, attorno al centro storico. Coppie a passeggio, amici al ristorante, locali curati. A cinquanta chilometri la guerra. Dall’inizio, marzo 2011, sono 150mila le vittime, due milioni e mezzo i siriani che hanno lasciato il Paese, sei milioni e mezzo gli sfollati interni. Un Paese di 24 milioni di abitanti. Un esodo biblico che cresce di giorno in giorno.

 

04 guerriglieri su carro

 

«Ad Antakia siamo migliaia; oramai ogni calcolo è solo una stima approssimativa. Domani vedrai con i tuoi occhi» racconta Abed «campi profughi da per tutto. La maggior parte non vuole restare qui, fuggono verso Istanbul, verso i paesi europei, ma non l’Italia. Nessuno vuole stare in Italia, per i rifugiati la vita è dura da voi. Vogliono l’Europa del Nord, dove ai profughi viene data accoglienza. Quelli che restano qui sono i ‘pendolari’. Da quando siamo arrivati noi, ad Antakya, gli affitti sono esplosi. Si arriva a pagare 500 euro per una casa. Siamo diventati un business. Non voglio parlar male della Turchia, il governo di Ankara ha aiutato la nostra rivoluzione fin dal primo giorno, solo che qui c’è una situazione particolare: è una città turca a maggioranza alevita…si sentono legati alla famiglia Assad, noi ci vedono come dei cospiratori, degli ingrati».

In Turchia gli aleviti sono dieci milioni, in Siria sono il 13% della popolazione. In Turchia sono una minoranza che è stata messa al margine della vita del Paese, in Siria sono al potere fin dal golpe militare del 1970 di Hafez al-Assad, il padre. Gli aleviti di Antakya guardano alla dinastia Assad come a leader amici e vicini.

«I siriani – approfondisce Abed – tengono un basso profilo, stanno ai margini. Ci sono state anche tensioni in città, piccoli incidenti, tensioni settarie tra noi e gli aleviti. Ma per noi la religione non conta». Noi chi? Noisiriani, sunniti, miliziani del Free Syrian Army. Trent’anni, volto affilato, un paio di occhialetti da intellettuale, una precoce calvizie e un fisico asciutto, Abed è un soldato. «Un cecchino. Molto bravo, nonostante gli occhiali» si definisce, sarcastico. Da archeologo a cecchino. Una parabola assurda, come è nelle regioni di morte e di guerra. «Ho avuto problemi con lo Stato da quando sono nato. Io, mio padre, i miei fratelli. Non c’è famiglia in Siria, eccezion fatta per il clan vicino agli Assad, che non abbia avuto problemi. Per cosa? Per qualsiasi cosa. Se non eri abbastanza zelante nel salutare un poliziotto, se dicevi qualcosa di critico verso il governo, all’università o sul posto di lavoro. Ma anche al bar, al ristorante. Se anche solo avevi un parente, ma bastava anche un conoscente, che dissentiva dal regime diventavi un legittimo bersaglio. È vita questa? No, non lo è. Una vita con un sacchetto in testa, questa è la Siria di Assad. Mancava il fiato e quando nel 2011 è esploso tutto il Medio Oriente, non potevo perdere l’occasione. Sono insorti a Deraa, ma è stato un lampo, un incendio, che si è esteso a tutto il Paese. L’inizio è stato pacifico. Ma di fronte alla repressione dell’esercito e della polizia, abbiamo reagito e indietro la storia non ti permette di tornare». Chi ha guidato chi? «È stato un passaparola, un vento che volava di bocca in bocca, parenti, amici, conoscenti. La rete si è creata nelle manifestazioni anti-governative come sui posti di lavoro, nelle università come nei locali di ritrovo. Volevamo tutti la stessa cosa: liberarci del regime di Assad». Ma un’insurrezione non si fa senza armi. Chi le ha portate in Siria? «Le armi ce le siamo procurate, da soli, combattendo. Questa è la nostra rivoluzione, nessuno può reclamarla, se non noi combattenti e tutti i martiri».

 

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La frontiera

 

Si parte all’alba. L’unico rumore è il fluire lento e regolare dell’Oronte. Il nome origina dalla fama: fiume ribelle. Al tempo stesso racconta di un carattere bizzoso e dei conflitti che le sue acque hanno visto succedersi da sempre. Abed tace, guarda il fiume.

Bab al-Hawa: varco di frontiera e sequela infinita di camion. Centinaia, migliaia di camion. «Portano quello che serve per sopravvivere in Siria, e non basta mai. L’assedio delle città dura da tre anni. Abbiamo provato a rendere meno difficile la vita della popolazione civile, ma i turchi fanno controlli rigorosi, le procedure sono lente e difficili». Alla fine della sequela di tir, quella degli umani. Ancora più immobile e dolorosa. Vecchi, donne, bambini stretti gli uni agli altri. Attaccati a un cancello chiuso.

«Sono siriani, tornano dall’altra parte, la grande maggioranza farà la stessa strada al ritorno, stasera, prima che chiuda la frontiera. Sono i ‘pendolari’. Molti hanno familiari dentro, altri hanno le botteghe, le case. Tornano per sostenere i vivi, per portare quello che non si trova più in Siria. Tornano per vedere cosa resta delle loro vite, per portare in salvo pezzi di casa, ricordi. Sono tanti i motivi per tornare, anche se sono di più quelli per fuggire».

 

03 guerriglieri a riposo

 

 

01 Guerrigliero fumando

 

 

Un nugolo di ragazzini, il più adulto avrà 12 o 13 anni, organizzati in una specie di cooperativa di trasporto. Carrelli, bancali con le ruote, mezzi di fortuna per i gruppi che arrivano. Portano lavatrici, alimenti, enormi valigie, bombole di gas, taniche di benzina. I piccoli sherpa corrono verso i migranti, tra zuffe, insulti e spintoni. Un uomo tenta di mettere ordine, la sua cantilena è stanca. Nella fila anche piccoli camioncini a otto posti, macchine di lusso. Ogni tanto la fila si apre, lascia passare, come una mandria stanca, e volano anche parole grosse, un ragazzo sui trenta anni perde la calma, urla di essere in fila da ore, comincia a prendere a calci l’auto che lo sopravanza. Mani, volti, abbracci. Un nugolo di vinti gli si fa attorno, lo consola e lo invita a subire. Si ferma, con le lacrime agli occhi. Tutto attorno donne e bambini aspettano in una calma impressionante, eterna.

Il cancello è ancora chiuso. Dall’altra parte appaiono i poliziotti turchi, alcuni in borghese. Facce dure da frontiera, occhi sempre in movimento, guardano tutto. Quelli in borghese si muovono dentro e fuori dal passaggio, quelli in divisa, più nervosi, restano dentro. Alla terza o quarta piccola zuffa, iniziano a urlare in malo modo mentre decine di persone si muovono in orizzontale, da destra a sinistra, lungo il cancello. «Cercano qualcuno che conoscono, per pagarlo, per passare prima» dice Abed «la guerra è dura e c’è sempre qualcuno che sa farla diventare vantaggiosa». Anche lui comincia a muoversi, cerca qualcuno in particolare, lo trova, si fanno segni d’intesa, per ora non si passa.

La gente comincia a spazientirsi, i piccoli piangono, il cancello, dopo tre ore, comincia a muoversi. Un varco piccolo anche per una persona sola e la pressione è enorme. Un primo gruppo di siriani entra, sopra le teste passano valigie, borse, masserizie. Chi è passato prende quelle di chi aspetta. Un poliziotto tenta di richiudere il cancello, in modo da controllare i primi entrati. La folla vede il cancello che si richiude, preme, mani e braccia tentano di fermare lo scorrere delle ruote sul binario. Gli agenti si oppongono, uno perde la testa e comincia a sparare in aria. La folla si ferma, il silenzio cala tutt’attorno. Non per molto. Iniziano di nuovo le spinte, i conciliaboli, le chiacchiere, le urla. Il cancello si riapre, l’amico di Abed ha fatto dei cenni, tocca a noi. Lo spiazzo verso il controllo di polizia è da percorrere a piedi, in coda tra persone di tutte le età. Il passaporto italiano permette una fila differente, libera. Insieme ad Abed, che non parla più, il poliziotto amico di Abed. Un edificio basso, un bancone grigio, un altro agente, con lo sguardo spento, assonnato. Il controllo è minuzioso. Fotocopia il passaporto e fa domande. Fotocopia le tessere da giornalisti, e fa domande. Dopo un breve confabulare con altri due agenti, spunta un modulo: “Dichiaro che il governo turco mi ha perfettamente informato delle condizioni di sicurezza in Siria. Attraversando il confine, sono consapevole di entrare in un territorio insicuro, dove una guerra civile mette a rischio l’incolumità di tutti. Consapevole di questo, libero lo Stato turco da qualsiasi responsabilità in merito a tutto quello che possa accadermi”. Si firma. Si passa. Un timbro e via. Si muore, si sa, e non vogliamo problemi.

 

I martiri di Idlib

 

«Adesso ci vengono a prendere», dice Abed. Un’auto giapponese nuova di zecca supera a grande velocità vecchi pullman stracarichi di uomini e merci, e ci carica a bordo. Tre dietro, due davanti. Kalashnikov nuovi, mimetiche e magliette verde militare. Musica a tutto volume. “Italia? Italia?”, una sequela di ovvietà: Totti, Berlusconi, la moda. Hanno poco più di venti anni, sorridenti e gioviali. In fuori sincro, fuori dall’auto, lo scenario altro: il vecchio shopping center, il vecchio posto di frontiera siriano, le nicchie distrutte dove i ritratti di Assad, e bandiere, nere in maggioranza. “Al-Qaeda, al-Qaeda” tra derisione e minaccia centinaia di ragazzi armati fino ai denti.

La zona è saldamente in mano ai ribelli. «Ma la zona sicura si è assottigliata» dice Abed «il passaggio di frontiera lo controlliamo noi. Non solo il Free Syrian Army, ma anche altri gruppi. Non andiamo d’accordo con tutti, ma questo passaggio è troppo importante per ogni gruppo. È un tacito accordo lasciarlo libero e difeso». Si cambia macchina, si cambia compagni di viaggio. Abed sembra d’improvviso sereno. Ride, scherza, s’informa sui compagni. Siamo con i guerriglieri del Free Syrian Army, Abed è a casa. Prima le insegne erano diverse e i guerriglieri islamisti. Questi sono i ragazzi della rivoluzione, i primi a insorgere contro Assad, prima che il conflitto siriano diventasse un conflitto regionale e globale. Usa, Israele, Ue con i ribelli, Qatar con i Fratelli musulmani, Arabia Saudita con i salafiti, Russia, Iran, Hezbollah con Assad. Questi sono i guerriglieri della Brigata dei Martiri di Idlib, la città da cui provengono tutti. Ahmed il meccanico, Karim il barista. In un tempo che è passato.

La macchina corre veloce dentro le campagne. La città è in mano ai governativi, i ribelli si sono asserragliati nelle vecchie case fuoriporta un tempo luoghi di relax della borghesia di Idlib. L’auto compie scarti improvvisi. La strada è disseminata di buche. «L’esercito ci è passato con i tank verso Idlib. L’ha ripresa, ma li teniamo sotto tiro. Ci scontriamo ogni giorno: attacchiamo e ci ritiriamo in campagna. Non vengono a inseguirci, non ci riescono» villaggi mezzo abbandonati, poche persone, file infinite di taniche «è la benzina prodotta qui o contrabbandata dalla Turchia. Serve per i generatori», spiega Abed, ridendo con i suoi compagni. Dalla strada principale, dopo l’ennesimo check-point superato tra grandi colpi di clacson e saluti, si lascia l’asfalto per gli sterrati. Un grande edificio, proprio al limitare della città, è sventrato da un colpo di mortaio. Sulla facciata a grandi lettere ‘Meglio morire da martiri, che vivere nella schiavitù’. La villetta è a due piani. Una vedetta sul terrazzo mette in moto la guardia: pick-up con mitragliatrice sul cassone, due moto due uomini ognuna. L’auto affonda nel fango, ha piovuto molto. Tra un nugolo di piccoli ulivi, spunta la casa bianca e sporca. Sulla veranda un paio di miliziani armati. Saluti, abbracci, presentazioni. «Giornalisti, basta!», dice un ragazzo piccolo e tozzo, con braccia forti e massicce. Dargli la mano è metterla in una morsa. «Io sono…non te lo dico. Tanto non cambia nulla. Ci avete dimenticato». Abed lo guarda duro: «Devi capirlo, nessuno di noi riesce a capire per quale motivo il mondo non guarda il cuore ferito della Siria».

 

18 guerrigliero che fuma

 

Mohammed Isa

Shadi, il cambusiere, porta il the. Frigge uova, taglia pomodori. Non ha più di sedici anni e dice di averne venti. In un lettone a piano terra dormono due persone. Gli altri, 23-25 in tutto, si muovono tra fuori e dentro la casa, maneggiano armi, barbe lunghe e visi rasati di fresco. Ecco, arriva il comandante, Mohammed Isa. Lo noti subito, appena entra nella piccola costruzione. Barba curata, fisico da palestra, la maglietta stretta sotto il giubbotto di pelle. Quaranta anni, sigaretta in una mano rosario nell’altra. Tutti si fanno seri e abbassano la voce. Mohammed prende posto su un divano, sotto un poster che ritrae un ragazzo che gli somiglia molto. «È mio fratello. È morto combattendo. Ci battiamo per lui, per tutti gli altri». Inizia una fitta trattativa tra Abed e Mohammed. Il comandante è preoccupato per il suo inglese. Vuole rispondere da solo, ma chiede ad Abed di ‘pesare le parole’. «La comunicazione, ormai, è tutto», dice Mohammed con un ghigno. Arriva il caffè, una lunga pausa. «Allora, cosa vuoi sapere? Nella mia vita normale, quella di prima, sono un uomo d’affari. Avevo tre uffici per l’export delle auto in tutto il Medio Oriente. Shangai Cina, Seoul Corea del Sud, Tokyo Giappone. Importavo cibo dalla Cina, dal Sudan e dall’Africa in Siria, in Iraq, in Libia. Ero ricco, molto ricco. La mia vita era bella, non mancava nulla a me e alla mia famiglia. Tre negozi tra Aleppo e Idlib. Quattro case. Due, tre macchine» recita con orgoglio, serrando gli occhi neri e penetranti.

«Ma tutto era illusione, vivevo in una dittatura, quella di Bashar al-Assad. Ho girato tutto il mondo sempre con una domanda, che viaggiava con me: perché queste persone, in Europa, in Asia, altrove, sono libere? Perché il popolo siriano non è libero? Vedevo, negli anni, questi paesi cambiare: l’India, la Corea, la Malesia. Li vedevo svilupparsi, migliorare. Cultura, internet, cure mediche, scuole…tutto andava bene, tutto cresceva, le persone vivevano ogni giorno meglio. Continuavo a chiedermi perché a noi, in Siria, non capita? Per dei nostri limiti? La risposta era una sola: Assad e il suo clan, il suo governo, il suo gruppo di potere. C’erano ragazzi in gamba che lavoravano, che si impegnavano, e i loro sforzi finivano nelle tasche di un servo del regime. Intelligenze brillanti, lavoratori di acciaio, che non lavoravano per se stessi, ma per la famiglia di Bashar e amici. Tutti i ragazzi che vedi qui, come me, vengono da Idlib. Molti di loro, come Abed, hanno avuto problemi con il governo. Ma altri no, come me ad esempio. Alla mia vita non serviva la guerra. Serviva alla mia dignità. Tutto il sistema ruotava attorno al clan e alla sua corruzione, che arrivava in tutti i gangli della vita economica del Paese. La Siria è al centro del mondo: tra Asia, Europa e Africa. Ha tutto: gas, petrolio, turismo. La sua gente è dinamica, in gamba. E allora perché non siamo ricchi? Perché non siamo liberi? Non possiamo parlare, contestare, esprimere un’opinione. Che vita è? Che destino è? Non potevo andare avanti così. Ne parlavo con i miei amici, uno stato d’ansia mi assaliva già all’aeroporto. Venivo dal bello e trovavo un posto orribile, corrotto. Dovevi pagare per tutto. Tasse, gabelle soffocanti. Stipendi da 200 dollari per insegnanti o medici, mentre il clan – come dei vampiri – si nutriva del sangue e del sudore della sua gente. Era necessario cambiare, tornare a vivere. Ho sognato per anni il giorno che ci saremmo ripresi la nostra vita. Ho sognato, ho sperato e ho desiderato che la Siria rovesciasse il presidente Assad. Quando a Deraa, nel 2011, la gente è scesa in piazza, sono tornato subito a casa, con una grande felicità nel cuore. Io e i miei fratelli, con i nostri amici, eravamo rinati. Per una due, tre settimane, poi un mese. Eravamo consapevoli che non poteva cambiare in un giorno, sarebbe stata dura, ma da qualche parte bisognava iniziare. A quel tempo il problema non era neanche se Bashar andava o restava, ma doveva cambiare il Paese. Ogni giorno siamo andati in piazza, con il sogno del cambiamento. Sognando una Siria differente. Quando le dimostrazioni sono iniziate, ho ricordato tutti i miei sogni, la mia voglia di vivere in un Paese migliore. Niente di speciale, sapete? Solo giustizia. Se nel tuo Paese, o in America, o altrove in Europa, uccidi una persona vai in carcere. In Siria no. Non accadeva e non accade. Centinaia di migliaia di siriani sono stati uccisi e non accade nulla. Francia, Gran Bretagna, Italia, Usa, tutti a dire: basta Assad! deve andare via, deve smetterla di uccidere il suo popolo! Ma non fanno nulla. Un europeo è meglio di un siriano? È più grave uccidere un europeo che un siriano? Avete chiuso gli occhi, guardate altrove, ma sbagliate. Guardate negli occhi il popolo siriano e la sua dignità, fate qualcosa per quello che accade».

Tutto è immobile mentre parla il comandante. In sottofondo, il tiro di artiglieria leggera. Le parole di Mohammed, sono dure, profonde, scavate da tre anni di guerra. C’è rancore, rabbia. «Nessuno nega che ci hanno aiutato all’inizio con armi e soldi. Ma questa situazione di stallo si è venuta a creare perché nessuno nel mondo ha voluto scrivere la parola fine a questo conflitto. Qui si sta distruggendo un Paese, con devastazioni che dureranno per decenni. Muoiono migliaia di donne, vecchi, bambini. Anche di fame, in certe zone. E voi, voi vi preoccupate di al-Qaeda. Chiacchiere. Tutte chiacchiere. E la gente muore. Il fronte degli oppositori ad Assad è variegato, d’accordo, ma vi dico una cosa: non permetteremo a nessuno di rubare la nostra rivoluzione» dice, sporgendosi in avanti con un lampo negli occhi.

«Non manderò via nessuno che combatte contro Assad, ma non permetterò a nessuno di prendere il mio Paese, la mia città, la mia gente. Da tempo, oramai, le formazioni del Free Syrian Army si scontrano con i miliziani integralisti del Fronte al-Nusra o di Isis. Non ci tiriamo indietro, ma fino a quando non cade Assad, non ci fermeremo. Dopo, solo dopo, faremo i conti con la nostra realtà e il nostro futuro».

 

07 guerrigliero manda sms

 

Dopo l’ennesima tazza di the e la decima sigaretta Mohammed si alza «Venite in terrazza». Saliamo le scale, ogni spazio della casa è buono per un materasso. La vedetta, che non era mai scesa, si alza di scatto di fronte al comandante. Saluta, si risiede con un fare sospettoso, come se la visita rovinasse la cura che mette nel suo lavoro. Tutto attorno una campagna bellissima.

«Guarda là» il comandante indica la città di Idlib. «Tutti ci accusano di essere nelle mani di al-Qaeda, ma perché nessuno denuncia che a Idlib, la mia città, ci sono truppe iraniane? ci sono gli Hezbollah libanesi? Perché siete ossessionati dai gruppi armati islamisti? Con al-Qaeda, combattiamo, a volte insieme, a volte contro. Non siamo la stessa cosa, ma vogliamo cacciare Assad. Vorrei non aver bisogno di loro. Ci basterebbe poco, pochissimo. Servirebbe solo un rifornimento di anti-aerea di qualità, è solo grazie alla superiorità aerea che il regime si tiene aggrappato al potere, massacrando civili. Con il Free Syrian Army ci sono musulmani e cristiani, curdi e drusi, anche alauiti. Un mosaico, come la Siria. Ma sta andando in pezzi e se non riceveremo aiuto, può finire male. Proprio con quell’al-Qaeda che vi preoccupa tanto».

Il fronte è a un passo, colonne di fumo sottile qui e là. Mohammed deve andare. Un conciliabolo stretto tra i miliziani attorno a lui. Abed spiega: «Si deve decidere dove dorme il capo stasera». La guerra è movimento continuo. Di nuovo in auto, di nuovo la radio a tutto volume. Di nuovo i sorrisi. La scorta, questa volta, è composta da Adnan e Omar. Elettricista il primo, camionista il secondo. Nel tempo passato.

L’auto vola veloce verso la porta del mondo senza guerra. Attorno blocchi di cemento, che costringono a rapidi cambi di rotta. Prima di uscire, tappa a un piccolo ambulatorio. L’interno è fatiscente, in contrasto con scatole di farmaci nuove, alcune con la scritta in italiano. «La solidarietà internazionale c’è ancora, ma meno di prima», racconta il medico, anche lui Mohammed. Ha due occhiaie profonde come ferite. Mani grandi, che si muovono leggere attorno a un bimbo. Il padre del piccolo, silenzioso, sta appoggiato a un muro. Il bimbo ha una ferita alla testa: il medico fa quel che può, con uno sguardo attento, triste. Il bimbo si guarda attorno. A lui devono dire davvero poco le parole che sente tutto intorno, la guerra e la politica, le alleanze e le strategie. Quella ferita deve fare male, ma il piccolo sorride. Mohammed no, non sorride. E ha l’aria di non farlo da molto tempo.

 

 

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