Ai confini dell’umanità

Le frontiere in Medio Oriente sono uno spartiacque fra il diritto e l’abuso. Luoghi dimenticati in cui gli uomini e le donne non sono tutti uguali

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/FacebookHomescreenImage.jpg[/author_image] [author_info]di Susanna Allegra Azzaro. Amo definirmi “cittadina del Mediterraneo”. Le mie origini si perdono tra Sardegna, Genova, Sicilia e Nord Africa, ma è a Roma che sono (casualmente) nata. Lavorare nella cooperazione internazionale mi ha dato la possibilità di vivere un po’ in giro nel mondo; la curiosità, invece, mi ha spinta a cercare di imparare il più possibile dalle culture con cui sono venuta a contatto. Tra il 2008 e il 2009 il lavoro mi porta in Medio Oriente e da allora esso continua ad essere una presenza costante nella mia vita. Recentemente vi sono tornata per approfondire i miei studi della lingua araba colloquiale “levantina”.[/author_info] [/author]

8 luglio 2014 – Abbiamo quasi dimenticato che cosa vuol dire oltrepassare una frontiera in Europa. Fino a non molto tempo fa, ancora si aveva la sensazione che attraversando una sottile striscia di terra si potesse avere accesso a chissà quale luogo esotico.
Dal 1993, grazie agli accordi di Schengen, spostarsi all’interno dell’Unione Europea è diventata una passeggiata; addio file, complicazioni e l’emozione, o la mera illusione, che si provava quando, con le proprie gambe, si passava da un mondo a un altro.
Il Medio Oriente è forse il luogo dove più si percepisce ancora il concetto di frontiera. Spostarsi via terra da un paese all’altro può essere in alcuni casi un’impresa, in altri complicato, spesso e volentieri impossibile. Prendete una cartina politica del Medio Oriente; quasi sicuramente oggi al telegiornale avrete sentito parlare di alcuni di quei paesi i cui nomi vedete ora scritti su quel pezzo di carta colorato. Brutto segno.

cartina_mediooriente

Osservate la Giordania e i paesi con i quali confina: Arabia Saudita, Israele, Siria e, dulcis in fundo, Iraq.
I giordani non hanno vie di fuga e ne sono coscienti, sono stretti in una morsa pericolosa e sanno che la propria sicurezza si regge su equilibri molto fragili. Prima dell’inizio della mattanza in Siria in molti si recavano a Damasco per il weekend. Poche ore di macchina, un confine facile da attraversare e dalla caotica Amman ci si rigenerava nella più riposante Damasco.
Oggi quella stessa frontiera è chiusa e invalicabile, come lo è da tempo quella irachena e, per i cittadini giordani, il confine con Israele.

Per gli europei è, invece, possibile recarsi dalla Giordania in Israele via terra. Qui la frontiera separa due mondi lontani costretti a vivere uno accanto all’altro, solo qui e in pochi altri posti al mondo esiste un “noi”e un “loro”.
In questa sottile striscia di terra muoiono alcune delle nostre convinzioni basate su quello che fin da piccoli hanno cercato di inculcarci, e cioè che siamo tutti uguali. Non è vero, lo sappiamo in fondo da sempre, ma è solo qui che lo tocchiamo con mano.

Esistono tre punti di accesso tra la Giordania e Israele, due considerati piuttosto semplici da attraversare e situati nelle due estremità, a nord e a sud, del paese; il terzo, il celeberrimo Ponte Re Hussein/Allenby, conduce direttamente in Cisgiordania ed è, perciò, il punto di passaggio maggiormente utilizzato dai palestinesi che dalla Giordania si recano in visita alle proprie famiglie al di là del confine.

Poco più di 70 chilometri separano la città di Amman da quella di Gerusalemme e, per un individuo munito di passaporto europeo, quattro ore sono il tempo minimo necessario per percorrere questa distanza.
Diverso è il caso dei palestinesi. Molti hanno la cittadinanza giordana, altri sono muniti di passaporto palestinese (ebbene sì, dal 1995 esiste un passaporto palestinese!), ma il risultato non cambia: per loro il viaggio, dovesse arrivare a conclusione, potrebbe anche durare giorni.

RamallahCheckpoint
Dopo aver attraversato la frontiera giordana si entra in una terra di nessuno, pochi chilometri dove il deserto fa da padrone e la somiglianza con le immagini di Marte è impressionante.
Di esseri viventi nemmeno l’ombra, solo rocce e polvere; non una bandiera, un’insegna, un qualcosa che ti aiuti a ritrovare le coordinate. Qui sei in una terra che non ha nome.

Poi all’improvviso li vedi ammassati su autobus parcheggiati in mezzo al nulla, sotto un sole che non lascia scampo; donne con il velo, uomini carichi di pacchi, un numero spropositato di bambini dagli occhi aperti e vispi.
Stanno lì, ore e ore, anche un giorno intero, aspettando che dall’altra parte gli diano l’autorizzazione per raggiungere la frontiera israeliana e rimettersi in fila per ore sotto il sole cocente. Nel frattempo noi privilegiati gli passiamo accanto su autobus con aria condizionata e i nostri passaporti che ci rendono, agli occhi di alcuni, individui di un livello superiore.

Superiamo i check-points in entrambi i lati e il pullman scarica noi passeggeri fortunati davanti le basse costruzioni della polizia di frontiera israeliana.
Un numero impressionante di palestinesi aspetta in una fila disordinata il proprio turno per il primo controllo dei documenti.
La fila è lunga, nervosismo e rassegnazione sono tangibili.
Qualcuno alza la voce, protesta per le condizioni in cui sono costretti ad attendere il proprio turno, ma i giovani militari israeliani in un attimo zittiscono la folla nel loro arabo biascicato.
Una volta arrivati al primo controllo, i passaporti vengono studiati con attenzione. Poche domande, secche e dirette. Se superi questo primo step puoi passare a quello successivo, ad un’altra fila e, di nuovo, un numero spropositato di gente.
La giovane israeliana che controlla il mio passaporto mi ha vista parlare con un uomo palestinese e mi chiede di quale natura siano i nostri rapporti.
Le dico che non lo conosco, ma mi sento in colpa nel momento preciso in cui pronuncio quelle parole.

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© Activestills.org

 

Quell’uomo mi ha raccontato parte della sua vita, mi ha reso partecipe di episodi privati della sua esistenza e, senza che glielo chiedessi, ha tenuto un occhio aperto su di me durante il tragitto. Il senso di colpa mi attanaglia. Vorrei guardare dritta negli occhi la giovane israeliana con il mio destino fra le mani e dirle che sì, conosco quell’uomo anche se non saprò mai il suo nome.

Ma subito vengo catapultata in un’altra fila, altri bambini palestinesi che ti guardano incuriositi.
Al metal detector riconsegno il mio passaporto a un giovane israeliano. Ai palestinesi parla con durezza e un pizzico di rabbia, a me sorride e dice forza Juve. Vorrei sparire in quel preciso istante, mi vergogno del trattamento privilegiato che ricevo, cos’è che mi rende migliore degli altri?
È proprio vero, non siamo tutti uguali e a fare la differenza, a decidere a quale categoria appartieni, basta un mucchietto di carta con una tua foto sopra.
Frastornata arrivo all’ultimo controllo, quello più difficile, ma se supero questo è fatta, potrò finalmente mettere piede in Israele.

[Continua]

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