Ritorno in Albania

Secondo gli ultimi dati Istat, gli albanesi
che hanno lasciato l’Italia nel 2013 sono stati più di duemila.
Il 23 per cento in più rispetto all’anno precedente

Foto di Ennio Brilli

Alba e Gas, Fation e Ardjan. Mentre l’Albania ha compiuto il tanto atteso primo passo per entrare nell’Ue, loro, dopo averci vissuto, l’Europa l’hanno abbandonata. Hanno ripercorso la rotta che oltre vent’anni fa seguivano le navi come la Vlora e sono tornati nel Paese delle Aquile.

“Quando sono arrivato a Scutari – spiega Ardjan – i miei compaesani mi dicevano “Perché sei tornato? Sei una testa di cavolo!” Non capivano”. Era il 2004 e da allora in molti hanno seguito la scelta di Ardjan che, prima di rientrare nella sua città natale nel nord del Paese, ha trascorso undici anni in Italia lavorando nel settore alberghiero.

Secondo gli ultimi dati Istat, gli albanesi che hanno lasciato l’Italia nel 2013 sono stati più di duemila. Pochi, se confrontati con i numeri di una comunità straniera che, con i suoi 500mila membri, rimane una delle più radicate e la seconda più numerosa del Belpaese. Tanti, se si scopre che il dato è cresciuto del 23 per cento rispetto all’anno precedente.

Inoltre, spiega Antonio Ricci, “tra il 2002 e il 2011, dalle nostre anagrafi sono stati cancellati circa 24mila cittadini albanesi che, con ogni probabilità, hanno deciso di tornare a casa”. Non solo. Per il ricercatore del Centro Idos, a questi numeri vanno sommati quelli delle espulsioni. “Quelle dei lavoratori rimasti senza occupazione che diventano irregolari, per esempio. Complessivamente, dal 2008 al 2013, stiamo parlando di 15.500 persone”.

Insomma, il fatto che l’Adriatico non sia più solcato da navi e gommoni non significa che le persone abbiano smesso di spostarsi. Ad essere cambiate sono le modalità, le direzioni e le mete dei viaggi. C’è ancora chi parte e oggi lo fa in aereo perché dal 2010 i visti di tre mesi dall’Albania per l’area Schengen sono stati liberalizzati. E soprattutto, da qualche anno, c’è anche chi torna. “Alcuni miei connazionali emigrati qui oggi vedono più opportunità nella loro terra d’origine che in un Paese bloccato come il nostro”. Spiega Leonard Berberi che, è nato vicino a Durazzo, è cresciuto con la famiglia a Milano ed oggi è un giornalista del Corriere della Sera fresco di cittadinanza italiana.

“Il risollevarsi dell’Albania e la stanchezza dell’Italia – continua – credo vadano di pari passo. La conseguenza è che gli immigrati, vedendo che non riescono a scalare nessun gradino della scala sociale, si chiedono: Ma chi me lo fa fare? Perché devo rimanere all’estero a sgobbare quando posso fare lo stesso sostanzialmente a casa mia?”.

Il risultato è un andirivieni costante tra Tirana e Roma, differente rispetto al passato e decisivo per il futuro.

Bruxelles, infatti, dopo aver concesso al Paese balcanico lo status di candidato, vorrebbe “una pronta riduzione della pressione migratoria”. E le esperienze di chi rientra potrebbero non solo scoraggiare altre partenze verso l’esterno, ma anche contribuire a un’ulteriore crescita interna. “Se però le istituzioni non accompagnano questi processi – prosegue Ricci – i migranti di ritorno rischiano di ritrovarsi abbandonati. Servirebbero, per esempio, degli accordi bilaterali per sicurezza sociale, contributi e pensioni, ma ancora non sono stati ratificati”.

Un sostegno lo ha fornito in questi anni la cooperazione. Nella zona di Scutari il progetto Risorse Migranti di Ipsia, tra il 2009 e il 2013, ha seguito una trentina di attività imprenditoriali e oltre 300 lavoratori rientrati dall’Italia. A coordinarlo Mauro Platé, che ammonisce: “Con la crisi i rientri sono cresciuti, ma anche prima ho visto tante persone trovarsi perse pur essendo tornate con competenze e risparmi. Non avevano idea del Paese in cui arrivavano, dei cambiamenti ancora in atto e della loro velocità. Spesso poi – continua Platè – non avevano più una rete sociale su cui appoggiarsi, non possedevano capacità imprenditoriali sufficienti o si erano costruiti aspettative eccessive”. Gas è uno di questi ultimi.

Oggi vive con i genitori nel villaggio di campagna dove è nato. “Lavoravo a Taranto – spiega il trentacinquenne in un buon italiano – ma ho deciso di tornare per mia madre e mio padre. Sono anziani e non volevano raggiungermi. Altrimenti, io sarei rimasto là”. Appena rientrato, tre anni fa, Risorse migranti gli ha offerto un tirocinio di inserimento in una tipografia, ma lui ha rifiutato. “Il lavoro da dipendente non combaciava con l’idea di ritorno che si era costruito” spiega Platé. E da allora Gas si limita a vivacchiare alla giornata, a frequentare troppo spesso il bar e a coltivare il terreno che possiede lungo la strada principale. “Vorrei farci una panetteria, ma ho paura di fallire”. In effetti, il paese è senza forno perché i due che avevano aperto in precedenza hanno chiuso entrambi: troppi pochi clienti. Qui il pane si fa ancora in casa. “Anche noi lo facciamo così” confessa Gas con un sorriso imbarazzato.

 

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Anche Fation sorride, nonostante anche il suo rientro sia stato più faticoso del previsto. “Dopo sei anni a Rimini, i miei spingevano per tornare – ricorda – e io ero stanco del lavoro in fabbrica. Così, ho pensato che s Scutari le imprese di pulizie erano poche e, una volta rientrato nel 2010, ne ho aperta una”. Dopo un inizio positivo, gli affari sono peggiorati, anche a causa della crisi. “Speravo di aggiudicarmi qualche appalto pubblico, ma ho scoperto che queste decisioni vengono tutte prese a Tirana” dice amareggiato, alludendo indirettamente a quella corruzione che proprio l’Ue ha chiesto di combattere in maniera efficace all’Albania per entrare a far parte dell’Unione. “Per ora – conclude Fation – i clienti sono davvero pochi e quindi lavoro come barista da un amico, ma il fatto che la mia azienda esista ancora mi spinge a restare”.

“Non bisogna pensare che la migrazione di ritorno significhi automaticamente sviluppo” riflette Platé. “Non sempre è così e, soprattutto, lo sviluppo creato non sempre è armonico”.

Eppure, di esempi positivi ne esistono numerosi, alcuni più celebri, altri più nascosti, tutti rivelatori di un paese che cerca di cambiare. Tra i più famosi, si contano sicuramente quelli di Ëngjëll Agaçi e di Agron Shehaj. Il primo ha lasciato il suo studio legale a Roma per diventare lo scorso anno il segretario generale del nuovo primo ministro socialista Edi Rama. Il secondo, dopo essere cresciuto a Bolzano, è tornato in patria per fare affari, lanciando il business dei call center in Albania e diventando nel giro di pochi anni un imprenditore che con il suo gruppo dà lavoro a circa 3mila suoi connazionali.

I nomi di Ardjan e Alba, invece, non sono conosciuti e le loro storie non hanno mai raggiunto le prima pagine dei giornali, ma sono anch’esse dei capitoli a lieto fine del libro sui ritorni.

Un volume che ogni giorno viene scritto dai tanti emigranti che hanno scelto di nuovo l’Albania per aprire colorifici e pizzerie, caseifici e serre, cantine e aziende per i pannelli solari. Ma anche pasticcerie, come quella di Ardjan. “Sono tornato a Scutari il 20 ottobre 2004” ricorda con precisione. “Ho tentato il rientro sapendo che, se fosse andato male, avrei avuto la possibilità di ricominciare di nuovo in Italia grazie alla carta di soggiorno. Da un lato, c’era questa garanzia, dall’altro la speranza di trovare maggiori possibilità nel mio paese in crescita. Ho sempre lavorato come cuoco e contavo sull’esperienza acquisita. Mi dicevo: Se l’hanno fatto i miei capi perché non posso farlo anche io? É come se l’Italia mi avesse iniettato in vena l’idea di lavorare per conto mio”.

E la terapia ha funzionato. Dieci anni dopo, le sue torte sono conosciute in tutta Scutari e, grazie anche al contributo di Risorse migranti, la sua attività impiega lui, la moglie e due nuovi dipendenti.

A poca distanza dalla pasticceria di Ardjan c’è lo studio dentistico di Alba, aperto nel 2012, quando è tornata in Albania insieme al marito e ai due figli. “Abbiamo lasciato il Paese nel 1997. In quel periodo – dice ricordando con timore l’instabilità economica e politica di metà anni Novanta – la città era tremendamente insicura e così abbiamo raggiunto dei parenti in Piemonte”. In Italia si trovavano bene ma, a causa di una serie di intoppi burocratici, Alba non poteva sfruttare la sua laurea in odontoiatria, che tanti sacrifici le è costata durante gli anni della dittatura di Enver Hoxa. Così, piano piano, è nata l’idea di lasciare il Belpaese e rientrare a casa. “Amo da morire la mia professione – si confida Alba – e qui finalmente posso esercitarla. Ho parecchi pazienti e l’attività, avviata grazie al sostegno di Ipsia, funziona: non è in perdita”.

I problemi sono nati sul fronte famigliare: i figli adolescenti non si sono ambientati bene in una città per loro praticamente sconosciuta e anche il marito ha fatto fatica. Che fare allora? La risposta è stata, ancora una volta, spostarsi. “Non è stato facile – spiega Alba – ma abbiamo deciso insieme che mio marito e i figli si sarebbero ritrasferiti in Abruzzo, in una località di mare dove avevamo fatto le vacanze in passato. Certo, mi mancano, ma passo del tempo con loro appena posso: uno, due, a volte, tre mesi”. L’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea potrebbe un giorno riunirli tutti sotto una stessa bandiera. Ma ci vorranno anni. Quanti, dipenderà dall’impegno di Tirana e dalla disponibilità di Bruxelles. Ardjan e Alba il loro l’hanno già fatto.

 

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