Svezia, Svezia!

Dalla Siria, dal Sudan o dall’Afghanistan fino al nord Europa. Storie di diritto d’asilo e disobbedienza civile in Svezia e Danimarca

Testo di Giulia Bondi @gnomade per Galatea

Foto di Giulia Bondi e Giulio Ferrari

Fotogallery finale di Marco Garofalo per Io sto con la sposa

 

 

31 luglio 2014 – Kotada è arrivato in aereo. Il visto era per la Danimarca, gli è bastato passare il confine e chiedere asilo per avere, in pochi giorni, un alloggio e la prima carta di credito della sua vita.

Masi ha perso ogni notizia della sua famiglia scappando via terra attraverso mezza Asia e mezza Europa. Ora è accampato in un parco di Malmo per protestare contro le autorità che vogliono rimandarlo in Afghanistan.

Kriztin e Sara hanno i capelli biondi e la pelle candida. Nessuno sospetterebbe che nelle case loro e di decine di amici dormano altrettanti ‘casi Dublino’, rifugiati che si nascondono alla polizia nella speranza di poter restare in Scandinavia.

Morten è un artista, ha cominciato a interessarsi di asilo con un worskshop di arte sociale ed è finito a fondare la ‘Trampolin House’, che a Copenhagen fa lavorare insieme giovani migranti e cittadini danesi.

Nina e Lisa hanno i capelli grigi e un esercito di nipotini a testa, più quelli acquisiti, conosciuti nelle proteste davanti ai centri di accoglienza sparsi per la Danimarca.

Ferry parla in farsi con un giovane afgano al centro di accoglienza di Malmo. Arrivato dall’Iran vent’anni fa, ora fa volontariato insieme alla pastora della sua chiesa, un pomeriggio la settimana: torte fatte in casa, tè caldo e chiacchiere.

Al centro d’accoglienza c’è anche Manar, siriano palestinese. Ha raggiunto la Svezia col padre, in un falso corteo nuziale organizzato per beffare le frontiere. Manar ha 12 anni e ci sa fare con il rap. «Anche io sono stato un cantante», gli dice Jovan, rom macedone in attesa di rimpatrio, alzando lo sguardo da un giornale svedese che legge senza capire.

 

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Sono migliaia i cittadini dei paesi balcanici, soprattutto rom, che continuano a raggiungere i paesi scandinavi per chiedere asilo. In attesa dell’esame della domanda, che spesso si conclude col rimpatrio, passano qualche mese al caldo beneficiando del welfare nordico.

In Svezia, la media di richiedenti asilo fino al 2011 era di 30mila persone l’anno. Con l’inasprirsi della crisi siriana si è saliti a 54mila (2013). Per il 2014 si attendono 65mila persone.

La porta d’accesso è Malmo, terza città del paese dopo Stoccolma e Goteborg. A sud la Svezia è collegata alla Danimarca con il ponte Oresund e Malmo accoglie i potenziali rifugiati al Migrationsverket, l’Agenzia per l’immigrazione, una grande e moderna struttura in un viale della prima periferia, a due passi dall’ippodromo.

L’Agenzia ha personale interamente civile, circa 4000 persone in tutta la Svezia. Un paio di operatori danno indicazioni in più lingue nel grande atrio. L’atmosfera è tranquilla: tutti parlano a bassa voce, un bambino gioca vestito da Batman, giovani donne con l’hijab cullano i figli spingendo ritmicamente le carrozzine.

«Siamo organizzati per accogliere fino a 3mila persone alla settimana», spiegano due responsabili del servizio, Anne Wessel e Kristina Romdhani. «In caso di necessità anche di più, ci sono stati momenti in cui abbiamo dovuto aggiungere materassi sui pavimenti, ma è l’eccezione», spiegano. Il protocollo prevede che le persone siano identificate («spiegando loro il motivo», chiarisce Anne) e poi sistemate in un centro di accoglienza per i primi giorni.

Kotada, 26enne palestinese di Yarmouk, campo profughi del 1948 diventato quartiere della capitale siriana, Damasco: «Sono arrivato nel 2011, avevo un visto per la Danimarca, ho attraversato il ponte e chiesto asilo qui. Ho avuto la mia prima carta di credito, che dopo due giorni funzionava, in un giorno ho fatto tutte le pratiche e dopo un mese l’intervista approfondita. Ho avuto la residenza temporanea, che dopo 6 mesi è diventata permanente, e ho trovato un lavoro. Va tutto  bene, solo che la gente è un po’ fredda». Dall’autunno 2013, il governo svedese concede visti permanenti a tutti i profughi siriani.

«Il mio è un caso particolare, io e la mia famiglia abbiamo usato i trafficanti a cinque stelle» chiarisce Kotada, che in Siria, e poi in Libano, lavorava come fixer per giornalisti stranieri e organizzazioni non governative «avevo già viaggiato, conosco le lingue, per mia madre e mio fratello sono riuscito a organizzare un viaggio in aereo con dei passaporti falsi».

Ai diversi tipi di fuga dalla Siria, Kotada ha dedicato un articolo sulla rivista di cui è direttore regionale per l’area di Malmo, Al Kompis, che in arabo significa L’Amico, in pochi mesi primo mezzo d’informazione in lingua araba dei paesi scandinavi. «I trafficanti di lusso – spiega – sono quelli che ti permettono di viaggiare in aereo, per 10 o 12mila dollari a persona. Il viaggio in nave dall’Egitto all’Italia, più i minibus o le auto, che recuperano le persone in Italia e le portano in nord Europa, costa 3mila dollari a testa».

Raggiungere la Svezia o la Norvegia, i paesi più ambiti dai richiedenti asilo, è una questione di soldi. Se hai pochi soldi ti rimane la dea fortuna: sopravvivere alla traversata in mare e attraversare l’Europa senza essere fermati dalla polizia e identificati in un paese diverso da quello desiderato.

L’accoglienza dei rifugiati nell’Unione Europea si basa sul cosiddetto Regolamento Dublino, in base al quale l’onere di esaminare la richiesta di asilo spetta al primo paese nel quale lo straniero lascia le impronte digitali. In Svezia e Danimarca si chiamano ‘casi Dublino’ quelli degli stranieri già identificati in un altro paese, l’Italia o la Grecia.

«Verso la Grecia non viene rimandato nessuno – spiega Mikael Ribbenvik, portavoce dell’Agenzia svedese dell’immigrazione – e per il momento non mandiamo i rifugiati nemmeno in Bulgaria, anche se confidiamo che si doti presto di un sistema appropriato» ma chi ha lasciato le impronte in Italia deve tornarci. I richiedenti asilo hanno diritto di fare ricorso, ma prima o poi il loro destino è tornare indietro, 3mila chilometri più a sud.

Il sistema svedese prevede che le persone passino prima possibile dai centri di accoglienza in appartamenti. C’è una somma per l’affitto, denaro per il vitto, medicinali e beni di prima necessità. «Le cifre sono basse per il costo della vita svedese» spiega Lena Yohanes della Croce Rossa «e sono ferme al 1995». Ma ‘tutti vogliono la Svezia’, il welfare scandinavo continua ad attrarre rifugiati e immigrati da mezzo mondo. I ristoranti di Malmo propongono ogni tipo di cucina etnica e per le strade di Rosengard, quartiere dove è nato Zlatan Ibrahimovic, figlio di bosniaci, si parlano decine di lingue.

 

Asylgruppen

Si alternano lingue diverse negli interventi alla manifestazione a Mollevangstorget, nel cuore di un quartiere alla moda di Malmo. Davanti al monumento dedicato all’‘Onore dei lavoratori’ parlano attivisti svedesi e giovani afgani. È la giornata contro il razzismo, decine di persone manifestano nonostante la pioggia. I bambini corrono tra la gente, le famiglie raccontano la propria protesta contro il rimpatrio.

«Siamo accampati in un parco», spiega Masi, 20 anni, partito dall’Afghanistan quando ne aveva 15 «prima ho avuto il problema di Dublino – racconta – durante il viaggio mi hanno preso le impronte in Slovenia, ma lì non volevano accogliermi e ho rischiato di tornare direttamente in Afghanistan. Ho passato un anno e mezzo nascosto, poi ho rifatto domanda di asilo, ma continuano a dirmi che devo tornare, perché adesso l’Afghanistan è sicuro. Ma pochi giorni fa (il 12 marzo, ndr) è morto a Kabul un giornalista svedese. La gente qui è gentile – prosegue – ci aiutano con cibo, tende, vestiti, ma fa molto freddo e dormiamo fuori, ed è pericoloso per via degli attacchi razzisti e nazisti». L’8 marzo un gruppo neofascista ha assaltato una manifestazione ferendo gravemente una persona.

Masi parla del colloquio-intervista per la valutazione del suo caso: «C’era un interprete iraniano che non parlava bene la mia lingua. Facevano domande precisissime, ma il mio è stato un viaggio mostruoso, come posso ricordare tutto?». Alza la maglietta e mostra alcune ferite: «Me le hanno fatte i taliban, per quello ho deciso di partire».

Sull’importanza di non porre domande troppo precise a persone traumatizzate o vittime di tortura insistono gli operatori della Croce rossa. A Malmo c’è chi comunque è passato alla disobbedienza civile. Kriztin e Sara, avvocato la prima e studentessa la seconda, sono membri di ‘Asylgruppen’, un comitato di cittadini che si impegna in prima persona contro leggi ritenute ingiuste.

«Faccio parte di questo gruppo da cinque anni – racconta Sara, seduta a un tavolino di un locale affollato – aiutiamo i ‘casi Dublino’ e le persone la cui domanda è stata respinta a rimanere in Svezia, le aiutiamo a nascondersi». Il lavoro del gruppo si fonda su una clausola del regolamento di Dublino che recita: “dopo 18 mesi dalla prima identificazione, il regolamento non si applica più e si può ripresentare domanda di asilo”.

«Quello che facciamo – chiarisce Sara – è aiutare le persone a nascondersi, in attesa che passi quest’anno e mezzo». Per chi ha visto respinta la domanda, il periodo di clandestinità sale a 4 anni. «In Svezia non ci sono sanzioni per chi aiuta uno straniero. E la polizia non è autorizzata a fermarti per la strada e chiederti i documenti, a meno che tu non stia violando qualche legge – aggiunge Kriztin – noi non rischiamo nulla e ai ragazzi spieghiamo che non devono mai mettersi in condizione di essere fermati, neanche girando senza luci in bicicletta, o attraversando a piedi con il rosso».

I membri del gruppo sono alcune centinaia, i migranti in clandestinità sono tra i 15 e i 35 mila in tutta la Svezia. «Alcuni hanno anche la propria famiglia». Non tutti gli attivisti ospitano persone a casa propria, c’è chi si occupa di raccolta di cibo e abiti, chi organizza calcetto o breakdance, chi fa consulenza legale. «La Polizia e l’ufficio immigrazione sanno chi siamo. Crediamo che in un certo senso ci tollerino».

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Vive nascosta, in attesa che passino gli ultimi 8 dei 18 mesi necessari, anche Molly – nome di fantasia – 19enne ugandese. A un’affollata conferenza dedicata ai rifugiati Lgbtq (Lesbian, gay, bisexual, transgender and queer), Molly racconta la storia del suo paese e i deliri del presidente, che contro gli omosessuali ha avviato un crociata.

Il giorno dopo, al tavolino di un bar, spiegherà come sia stata sua madre a farla scappare, comprandole a caro prezzo, da un funzionario corrotto, un visto per l’Italia e un biglietto aereo. Un visto a causa del quale Molly sarebbe dovuta tornare in Italia, fino a quando un’amica svedese non si è offerta di nasconderla.

Alla conferenza, dove è vietato fare foto e condividerle sui social network, interviene anche Jim, studente giamaicano «credo farò richiesta di asilo quando scadrà il mio visto da studente, perché qui in Svezia per la prima volta riesco a vivere serenamente la mia identità di maschio omosessuale».

Un’agguerrita ragazza palestinese attacca Israele e la sua politica di ‘pink-washing’: «Finge di tutelare i diritti degli omosessuali, invece li discrimina, specialmente i palestinesi». Il discorso più atteso è di Alexander Ward, produttore musicale, giudice di talent show e autore conosciutissimo in Svezia: «Dobbiamo tenere alta la guardia per i diritti di tutti, anche qui in Svezia».

 

Nonni e trampolini

Se la Svezia, nonostante i paradossi, rimane la meta più ambita, le cose vanno diversamente nella vicina Danimarca, dove rimangono in funzione diversi grandi centri di accoglienza, gestiti dalla Croce rossa e dai Comuni per conto del Governo. «Impieghiamo in media 80 giorni per l’esame delle domande di asilo», spiega il portavoce del Servizio immigrazione danese, Morten Bo Laursen, «ma i tempi non comprendono gli eventuali ricorsi». Il problema è che tra ricorsi e impossibilità di rimpatrio (alcuni paesi, come l’Iran, non accettano rimpatri forzati) ci sono persone che rimangono in un limbo e vivono nei centri anche per anni.

Sandholm, a nord di Copenhagen, è una caserma di inizio Novecento, trasformata in centro di accoglienza. Alle strutture originarie sono stati aggiunti prefabbricati e casette per accogliere più persone e ospitare gli uffici. Dal centro si può entrare e uscire, a eccezione di una parte, circondata dal filo spinato e dedicata ai richiedenti asilo colpevoli di reati, commessi in Danimarca o nei paesi d’origine. «Questi 65 detenuti – spiega Laursen – sono le uniche persone a trovarsi di fatto ‘bloccate’ in Danimarca».

La loro situazione si chiama ‘tolerated stay’: non possono ottenere l’asilo, ma nemmeno essere respinte in paesi potenzialmente pericolosi, se non violando le convenzioni internazionali. «Tutti gli altri tecnicamente non sono ‘bloccati’ – aggiunge – se volessero potrebbero accettare un rimpatrio volontario. Si trovano in Danimarca perché hanno fatto ricorso, o perché il governo non è in grado di rimpatriarli in modo coatto».

I centri sono ordinati e puliti, ma sempre simili a prigioni. «I primi mesi la situazione è accettabile, perché le persone sono così felici di non essere vessate, torturate e non rischiare la vita che non si accorgono di nulla» racconta l’attivista Morten Goll «ma dopo sei mesi cominciano i sintomi psichiatrici e psicosomatici. Sono persone che vivono isolate, private della possibilità di una vita normale, con un lavoro e relazioni sociali».

«Se si tratta di famiglie con bambini, i bambini diventano irrequieti dopo pochi mesi» spiega Lise, capelli candidi e cappotto rosso, che assieme al marito partecipa ogni sabato alle manifestazioni dei ‘Bedsteforaldre for Asyl’, i Nonni per il diritto di asilo.

 

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I ‘nonni’ sono una quindicina di pensionati che – con striscioni, volantini e un piccolo amplificatore – si ritrovano nel centro di Copenhagen, manifestano, si piazzano davanti ai centri di accoglienza e visitano famiglie con le quali hanno allacciato rapporti di amicizia. Lisa e suo marito quest’anno hanno compiuto il grande passo: aiutare i ‘nipotini’, rom albanesi, a comprare casa in Kosovo dopo essere stati rimpatriati. Nina mostra con orgoglio e tenerezza un album di foto della ‘sua’ famiglia, costretta a rientrare in Bosnia.

Ma al di là degli affetti, i nonni protestano contro l’intero sistema. «Non è possibile vivere per anni in un posto come Sandholm – riprende Lisa – né rimpatriare bambini che sono cresciuti qui». È una giornata di sole, molte persone si fermano a e prendere stampati e spille.

Nel gruppo ci sono habitué delle battaglie sociali, ex hippie e femministe, ma anche neofiti. «I miei nonni sono stati emigranti in America – dice Pia, una delle più giovani – non si può impedire alle persone di spostarsi». Il pastore protestante chiosa in italiano, parafrasando Primo Levi: «Se lo straniero è un nemico, arriva una nuova Auschwitz».

A pochi minuti dal centro di Copenhagen, alla Trampolin House, fervono i lavori per il trasloco. Giovani volontari africani e danesi si danno da fare a svuotare mobili, spolverare caschi da parrucchiere, staccare poster dalle pareti. Tra pochi giorni sarà pronta la nuova sede. «La casa è nata a novembre 2010, creata da volontari danesi, studenti internazionali e rifugiati» spiega Morten Goll, uno dei fondatori.

«Il progetto è nato da un esperimento di arte sociale avviato nel 2009. Di solito le pratiche di arte socialmente impegnata prevedono un intervento in una periferia, ovunque ci sia bisogno di un cambiamento sociale. Durano tre settimane o tre mesi e poi finiscono. Nel 2009 abbiamo creato una piattaforma di dialogo con i richiedenti asilo e la prima richiesta emersa è stata: “qualunque cosa facciate, continuatela”.

Alcuni di loro erano da 9 anni nel sistema di accoglienza e non avevano mai parlato con un danese, eccetto il personale della croce rossa» spiega Morten, interrompendosi ogni tanto per spiegare dove va messo un faldone o dare chiarimenti sulla contabilità «così abbiamo creato questo spazio. Serviva una casa per tutti, danesi e rifugiati insieme».

Morten e gli altri ci tengono che la Trampolin House sia un posto “bello e divertente”, dove non si fa beneficenza, ma si lavora insieme. «Il problema dell’internamento è che le persone sono inerti nelle mani del sistema, diventano clienti passivi del sistema di welfare. Invece arriva gente da tutti i posti del mondo, e sono carpentieri, docenti universitari, parrucchieri, sarti. Qui valorizziamo le competenze di tutti. Ci sono persone traumatizzate, persone che nei campi diventano violente, ma qui non alzano un dito».

 

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Chiunque abbia un contratto di internship deve partecipare ai lavori, per esempio al bar, o nelle pulizie, seguire un corso o insegnare quello che sa fare. «Gli interni, che in questo momento sono 89, hanno diritto a due biglietti andata e ritorno alla settimana. Senza, i rifugiati non potrebbero permettersi il viaggio. Ma non possiamo regalare i biglietti a tutti, per non creare un nuovo sistema paternalista».

Il progetto è nato con il finanziamento di una fondazione, ma dal 2013, dopo un lungo lavoro di lobby, ha ottenuto finanziamenti statali. Spiega Morten: «Nella nuova legge sull’immigrazione c’è un fondo di 10 milioni di corone per progetti come il nostro, e noi ne riceviamo un quarto».

La legge consente ai richiedenti asilo di lavorare, ma la burocrazia spaventa i datori di lavoro e gli stessi migranti, che per avere il permesso devono firmare un foglio in cui dichiarano di accettare, se la loro domanda di asilo sarà respinta, il rimpatrio volontario «finisce che per molti è più semplice lavorare in nero. Fanno bene, si tengono attivi e guadagnano qualche soldo. Ma certamente non sono tutelati, e a volte non vengono pagati perché tanto non potrebbero andare a denunciare».

Davanti a una pizza kebab vicino Christiania, Ahmed, un ragazzone sudanese che lavorava in nero in un’impresa di pulizie, racconta:«Arriva un’ispezione notturna della polizia nel palazzo in cui si facevo le pulizie. Apro io la porta ai poliziotti – ride – con tanta naturalezza che non mi chiedono nemmeno i documenti. O forse è stata la mia statura a spaventarli.» È in Danimarca da un paio d’anni e parla benissimo inglese e danese, ma non sa di preciso quanti anni ha. Anzi, si stupisce “dell’ossessione europea per i compleanni”, dichiara.

Al quartiere hippie dove è legale comprare e vendere marijuana c’è un’insolita tensione, dopo che nelle ultime settimane è arrivata, inattesa, una retata della polizia. Mentre tramonta il sole compaiono all’orizzonte dei fuochi d’artificio. «È il capodanno iraniano», commenta Kotada, che siede a chiacchierare con l’amico sudanese.

Deve ingannare il tempo fino a notte fonda, quando alla stazione di Copenhagen arriverà in treno un suo vicino di casa di Yarmouk. Kotada dovrà accompagnarlo in Svezia per chiedere asilo l’indomani. A un biliardino poco distante inizia una partitella tra studenti di tre o quattro nazionalità.

 

Io sto con la sposa

È una babele di lingue la saletta del ‘Centria Hospitality’, albergo di Malmo trasformato in centro di prima accoglienza. Transita qui, in media cinque giorni, massimo due mesi, chi è appena arrivato e aspetta una sistemazione o chi, invece, sta per essere espulso. Ferry, volontario sulla sessantina, chiacchiera con un giovane afgano, arrivato assieme alla moglie e due figli piccoli. Parlano in farsi.

«È la mia lingua – ammette sorridendo Ferry – sono rifugiato anch’io». Sta qui da vent’anni, qui sono nate le sue figlie, e in Svezia ci è arrivato dopo 35 giorni di viaggio, metà a piedi per le montagne, il resto in autobus, camion e trattori, pagando chi sapeva la strada.

«Mi ci sono voluti tre anni per mettere insieme le carte che provavano il mio diritto di asilo, ma alla fine ce l’ho fatta. Ero nella stessa situazione in cui sono loro, so quanto è difficile» spiega versando tè nelle tazze. Ferry viene ogni settimana, assieme alla pastora della chiesa svedese.

Alaa è un bell’uomo, alto, con i baffi, sembra un attore del cinema slavo e a portarlo in Svezia è stato un film, Io sto con la sposa. Un documentario, a dire il vero, e un atto di disobbedienza. Tre registi e un gruppo di amici contro la ‘Fortezza Europa’. Alaa e suo figlio Manar, 12 anni, hanno incontrato i registi a Milano, mentre cercavano un passaggio per la Svezia.

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Sono stati ‘scritturati’ per un finto corteo nuziale, che in pochi giorni ha attraversato le frontiere fino alla Svezia, beffando i controlli. I registi rischiano fino a quindici anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione, in base alle leggi italiane. Alaa e Manar saranno comunque rispediti in Italia. «A mio padre avevano preso le impronte» spiega Manar «dicono che dobbiamo tornare, ma io vorrei restare qui». Il padre ha altri due figli, ha scelto di portare Manar in Europa perché spera faccia fortuna come rapper.

«Voglio restare in Svezia, voglio una nuova vita» ritma in arabo Manar. Un senso del ritmo strabiliante per un ragazzino della sua età. Poi torna bambino all’improvviso, mostra il simbolo che ha sul berretto e sorride: «Sai, ogni martedì alle cinque viene ‘Save the children’ a farci giocare».

Jovan, un rom macedone di 63 anni, due denti in tutto, entrambi sul lato destro della bocca, ha sentito cantare il bambino. «Ero anch’io un cantante – dice – sono stato anche attore, in un film sugli zingari». A mezza voce intona una melodia, è quella della scena finale del Tempo dei gitani di Kusturica, dedicata a San Giorgio di maggio. Manar ascolta, incantato.

 

 


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