Caveira

Recensione del libro di Giampiero Spinelli sulla guerra della polizia brasiliana al narcotraffico

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1015058_4778608114201_571572631_o.jpg[/author_image] [author_info]di Elena Esposto. @loveSleepless. Nata in una ridente cittadina tra i monti trentini chiamata Rovereto, scappa di casa per la prima volta di casa a sedici anni, destinazione Ungheria. Ha frequentato l’Università Cattolica a Milano e si è laureata in Politiche per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. Ha vissuto per nove mesi a Rio de Janeiro durante l’università per studiare le favelas, le loro dinamiche socio-economiche, il traffico di droga e le politiche di controllo alla criminalità ed è rimasta decisamente segnata dalla saudade. Folle viaggiatrice, poliglotta, bevitrice di birra, mediamente cattolica e amante del bel tempo. Attualmente fa la spola tra Rovereto e Milano[/author_info] [/author]

2 agosto 2014 – Dopo l’Iraq qualunque cosa dovrebbe essere una passeggiata; così pensava Giampiero Spinelli. Tornato dal medioriente dove lavorava per la Presidium Corporation (di cui era socio) carico dell’accusa di aver ingaggiato Nicolò Quattrocchi e i suoi compagni rapiti in Iraq nel 2004, decide di trasferirsi in Brasile per inserirsi nel settore della sicurezza privata in vista dei giochi Panamericani del 2007. Da quest’esperienza nasce un libro, Caveira. La guerra della polizia brasiliana contro il narcotraffico (Mursia, 2014), crudo e agghiacciante sulla guerra quotidiana della polizia brasiliana contro i narcotrafficanti.

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Ammetto che durante le prime 50 pagine la tentazione di lanciare il libro dalla finestra è stata tanta. Spinelli arriva a Rio, si sistema in un hotel di Copacabana e fa la spola tra camera da letto, spiaggia, night club e appuntamenti con poliziotti poco affidabili. Il tutto condito da qualche morto sull’asfalto. Cartolina classica del Brasile visto da fuori, tutto quello che non mi piace raccontare nel mio blog: fighe galattiche, culi marmorei, samba, spiagge bianche, caipirinha, poliziotti corrotti, terra impregnata di sangue, proiettili che tagliano l’aria fischiando.

Leggevo e borbottavo tra me e me “il Brasile non è solo questo…”, sfogliavo le pagine con un misto di rabbia e superficialità ma poi ho deciso che se volevo recensire questo libro, nel bene o nel male, dovevo cercare di guardarlo con sguardo più distaccato possibile. Anche perché certamente “il Brasile non è solo questo” ma volendo davvero essere onesta con me stessa il Brasile è anche questo

Quindi non importava chi avesse scritto il libro, quale fosse il suo passato, che avesse idee agli antipodi delle mie. Volevo prima sapere che cosa ci avrei trovato dentro; avrei giudicato alla fine. E ho letto. Ho letto fino in fondo, sottolineando energicamente i punti interessanti, scrivendo appunti e disappunti sul bordo delle pagine cercando nella mia testa le parole per quella recensione obiettiva cui tanto anelavo. Non so se ci sono riuscita.

La guerra tra narcotrafficanti e polizia è una storia di orrore quotidiano. Qua e là mi è già capitato di parlarne, è una storia di morte e violenza. Da una parte ci sono i trafficanti, che impongono il loro controllo spietato sui territori delle favelas, dall’altra ci sono i poliziotti che combattono una guerra senza fine contro il potere parallelo.

Uno scenario che Spinelli descrive così: “Una guerra fatta di poliziotti, criminali e vittime innocenti. A ben guardare tutti poveri cristi. I poliziotti che per poche centinaia di reais avevano rischiato più di qualsiasi soldato della coalizione in Iraq o in Afghanistan. I favelados che avevano l’unica colpa di non potersene andare da quell’inferno e persino i criminali, carne da macello per interessi economici che nemmeno potevano immaginare. Non c’erano in quelle strade i colletti bianchi, i ricchi che consumano cocaina nei loro lussuosi appartamenti dei quartieri vip, i capataz del narcotraffico. Quella era una guerra e come in tutte le guerre non muoiono mai quelli che la dichiarano”.

violenza_rio_de_janeiro

Il ruolo di Spinelli in questa guerra urbana è stato quello di addestrare un gruppo scelto delle forze dell’ordine (Polícia Militar, Polícia Civil e Esercito) alle tattiche di antiterrorismo in vista dei giochi Panamericani che si tennero a Rio nel 2007. Dopo il fallimento di una prima esperienza di società di sicurezza privata infatti, con la protezione degli alti gradi dell’Esercito, del BOPE (Batalhão de Operações Especiais, un’unità della Polícia Militar di Rio de Janeiro specializzata in operazioni in favelas che ha come simbolo un teschio attraversato da una spada, la caveira appunto) e del consolato americano crea un equipe di istruttori specializzati in antiterrorismo.

Spinelli alterna al racconto dettagliato della sua attività professionale episodi cruciali della sua permanenza in Brasile. Dal tentativo finito male di togliere un revolver dalle mani di un gruppo di ragazzini alle sparatorie sulle vie a lunga percorrenza fino all’esperienza in prima persona del carcere brasiliano.

La narrazione di un Brasile spietato e talvolta troppo stereotipato, popolato da criminali che tutto sommato meritano di morire e poliziotti corrotti oppure onesti che, per quanto brutali possono comunque essere considerati eroi (non concordo affatto ma tornerò su questo argomento più avanti) è intercalata da riflessioni che sembrano contraddire quanto raccontato poche righe prima. Come quella riferita all’esperienza della prigione quando l’autore entra in contatto con gli altri detenuti:

“Abbiamo chiacchierato un po’ e loro mi hanno raccontato che cosa avrebbero voluto fare una volta usciti di galera. In buona sostanza erano le stesse cose che ce li avevano portati. Mi sono reso conto che per loro era impossibile pensarsi diversi da quelli che erano. Non riuscivano nemmeno a immaginarsela una vita diversa. Tutti i loro sogni, le loro speranze ruotavano in un modo o nell’altro attorno al crimine, alle fazioni, al traffico. Davano per scontato che in galera ci sarebbero tornati, se non fossero morti prima. Avevano dei figli fatti Dio solo sa con chi. Anche per i loro figli non avevano sogni”.

Insieme ai dati accuratissimi sulle favelas, i gruppi di narcotrafficanti e le loro rispettive storie sono presenti però alcune imperfezioni e alcune superficialità che, data la precisione delle altre informazioni, non hanno mancato di stupirmi.

Come lo scivolone sul funk, un genere musicale che nasce nelle favelas, dipinto come qualcosa di strettamente legato al traffico di droga, e i bailes funk come feste della morte, occasioni di violenza e di scontro tra fazioni. Certamente esiste un certo tipo di funk chiamato funk de facção che inneggia al traffico di droga ma il funk è molto altro. Innanzitutto ne esistono diversi tipi, così come esistono diversi tipi di baile funk; inoltre questo genere musicale è espressione di una certa cultura di periferia e nasce come musica di denuncia. Qualcosa che ricorda il rap dei ghetti neri americani per capirci. Ma scriverò un articolo anche sul funk prima o poi.

O la sparata finale sulle UPP (Unidades de Polícia Pacificadora). Forse funzionavano all’inizio ma oggi, dopo decine di morti, poliziotti arrestati per tortura, omicidio e occultamento di cadavere e i trafficanti che tornano alla ribalta io ci penserei due volte prima di affermare che i favelados si sono schierati a favore della polizia. Del resto anche nei miei mesi di ricerca per la tesi le persone che ho intervistato non riscontravano dei gran miglioramenti. La gente delle favelas tende a fidarsi di più dei poliziotti delle UPP ma da lì a dire che non vedono più gli uomini del BOPE come “veri e propri nemici”, bé ne passa di acqua sotto il ponte…

Brazil Violence

Per concludere vorrei precisare che nonostante ritenga questo libro un lucido spaccato di quella che è la guerra della polizia brasiliana contro il crimine organizzato non posso condividere l’opinione dell’autore quando egli considera questi uomini alla stregua di eroi.

Ho vissuto abbastanza in mezzo a poliziotti militari per sapere che sono solo le ultime ruote di un carro che è la società capitalista e borghese che permea il Brasile, che sono la bassa manovalanza adibita a svolgere un lavoro sporco ordinato da una società ipocrita e settaria la quale vuole relegare il povero nelle periferie e il cui motto è “bandido bom é bandido morto”. Tuttavia la cultura del pregiudizio contro il favelado che permea le corporazioni di polizia brasiliane è inaccettabile in un Paese in cui vige (o per lo meno dovrebbe vigere) lo stato di diritto.

Ci vorrebbero decine di pagine per spiegare perché la polizia in Brasile viola quotidianamente in diritti umani della popolazione che dovrebbe difendere. Non ho tempo di farlo. Comunque. “Tutto quello che arriva dal primo mondo è meglio, pensano troppo spesso i brasiliani. Posso garantire che per quanto riguarda la polizia non è vero”. Eh già, perché tutti noi preferiremmo dei poliziotti armati fino ai denti e pronti a sparare al minimo sospetto, anche infondato.

A me una volta un poliziotto ha puntato in faccia un fucile M-964 perché tornavo a casa (vivevo in una favela) dal cinema nel cuore della notte con un amico nero che, guarda caso, era un capitano della Polícia Militar pure lui. Sulla base di un sospetto un po’ così, alla cazzo di cane. Avete mai visto un fucile M-964? Andatevelo a cercare su Google immagini e poi ditemi. La vorremmo tutti una polizia così giusto?

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