Scozia, Catalunya: esprimersi è libertà

18 settembre 2014, è il giorno della Scozia. Si celebra il referendum che ha visto sondaggi altalenanti e una campagna pressante, con indicazioni addirittura dalla reggia britannica, soprattutto contro l’indipendenza scozzese. Ma il tema dell’esprimersi è legato indissolubilmente a libertà e diritti, non può essere un mera variante di disturbo del Mercato

 

di Angelo Miotto
@angelomiotto

Scozia-21

 

18 settembre 2014 – Il bravo Matteo Zola di East Journal, che ripubblichiamo su Q Code Mag, ci ha raccontato molto delle ragioni storiche e del ‘mito’ che avvolge le tradizioni che spesso vengono costruite o esaltate in nome della contrapposizione di chi vuole ottenere la propria indipendenza. Oltre alle questioni economiche, che sono a ben vedere quelle che stanno più a cuore dei dirigenti sparsi fra le istituzioni nazionali e internazionali, economiche e finanziarie. Perché, alla fine, tutto finisce in questo nostro tempo per cadere lì, nel motore che muove le nostre vite e che ci ha visti nascere nel periodo dello strapotere di un capitalismo che se mai sarà agonizzante ha ancora grinfie affilate e aguzze da pian tare nelle carni del nemico di classe (che ha unghie e corazza peraltro più che mai logore).

Il voto scozzese avviene a sette giorni dalla cerimonia imponente e moltitudinaria della Diada catalana, quasi due milioni di persone in giallo e rosso che formano una enorme V per ricordare al governo di Madrid tre parole: volontà, vittoria, voto. Anche qui le analisi degli ultimi anni si basano su due macro assi; il primo è quello deik partiti indipendentisti che si sono sempre visti schiacciare dall’appoggio del centro moderato catalanista che ha sorretto le maggioranze alterne a Madrid sulla contrattazione del fisco. Ora una parte di quella classe politica capisce che in tempo di crisi e di malcontento verso il sistema centrale conviene chiedere l’indipendenza per ragioni economiche e fiscali. Di qui il gran lavorio per sondare oltre alla Confindustria locale come naturale, gli organismi economici, politici e finanziari sovranazionali con ambasciatori che si sono premurati di capire cosa potrebbe avvenire in un per ora immaginifico passaggio di sovranità nazionale.

Va detto che per la stragrande maggioranza degli analisti e commentatori le richieste di chi cerca l’indipendenza vanno archiviate sotto la parola ‘velleità’, così come il vetero dibattito a sinistra ha sempre considerato ‘di destra’ la questione dei nazionalismi, mentre i governi centrali di qualsivoglia Paese han sempre accordato un appoggio immediato ai propri omologhi che si trovavano a rispondere a domande di indipendenza quasi in una chiamata di complice solidarietà di sistema che tutto deve tenere e nulla deve lasciare a elementi in qualche maniera e per qualche verso ‘strani’ o ‘rivoluzionari’, mi si passi il termine.

Nulla dovrebbe turbare la calma che piace alla Borsa e agli affari: tutto ha un ordine preciso nel mondo del profitto.

Eppure. Se è vero che anche fra gli indipendentisti la questione economico finanziaria è quella principale da studiare, anche perché se il giochino riesce devi avere le risorse per far fronte a possibili ritorsioni annunciate da parte dell’entità territoriale da cui chiedi e vuoi emanciparti, è di tutta evidenza che si assiste a un pensiero dominante che si fa beffe della libertà altrui e di principi che sono stati anche accolti dal diritto internazionale. Ma come, dicono i detrattori delle domande di indipendenza, proprio nel momento in cui si vorrebbero gli Stati Uniti d’Europa, nel momento in cui si cerca una coesione politica da far valere, un continente che possa parlare con una voce unica, proprio in quel momento ci si vuole distaccare e mettersi in proprio?

Pare quasi che nelle menti di costoro le possibili nuove entità territoriali debbano e vogliano alzare mura e ponti levatoi, costruendo armate a difesa, tagliando accuratamente i cavi di trasmissione dei normali e placidi rapporti che avevano intrattenuto fino a urne ancora aperte. Matteo Zola ci ricorda, nel suo articolo, il pensiero dell’antropologo francese Jean-Loup Amselle. Scrisse, in modo illuminato, che l’identità non è un prodotto confezionato, calato dall’alto, bensì è frutto della scelta individuale e può mutare nel corso della vita di un individuo come nella storia di un gruppo umano.

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Ci sono percorsi che una comunità chiede con forza e il fatto che questa sia una minoranza non dovrebbe impedire che quella voce debba rimanere inascoltata. Nel caso scozzese, o catalano o basco – non si citi per piacere le fandonie inventate e rimestate dal becero leghismo nord-padano che nulla hanno a che vedere – i movimenti che chiedono di potersi esprimere per decidere della propria sorte, che chiedono cioè di auto-determinarsi lo fanno in base a un percorso che poggia saldamente le propri radici su un humus fertile e profondo di cultura, lingua e tradizioni, che ormai sono sedimentate, ma vive nelle abitudini e nel sentimento di quel numero di persone, che si riconoscono in una comunità e che per quel gruppo chiedono la possibilità di vivere secondo ciò che può essere deciso in maniera collettiva.

Che altri decidano al posto di chi è portatore dell’interesse soggettivo è cosa strana, specie quando quegli altri non hanno ricevuto nessuna delega, come accade per i dirigenti delle grandi banche, i big del gotha finanziario che nessuno elegge, se non fra poteri forti o le associazioni di imprenditori e oligarchie che comandano le sorti del pianeta. Ecco dove molto spesso prende vita e forza e nuova linfa il così tanto vituperato slancio indipendentista in diverse aree del pianeta: dalla violenza e repressione che viene imposta senza nemmeno prendersi la briga di accettare uno scenario di confronto e di decisione, cioè di scelta e voto, che possa dire davvero quale sia il sentimento o l’afflato di un popolo o di una parte di esso.

Non possiamo accettare tout court che i centri di potere finanziario indichino la perenne ricetta del ‘tutto senza scosse e a modo mio’ per evitare crisi e sbalzi nel sistema che hanno creato e che ci troviamo a vivere/subire. Questo è il capitalismo del terrore, della paura, quello che impone le larghe intese a colpi di spread o della fantomatica ‘instabilità’, quando a ben vedere siamo molto instabili a livello planetario in una percentuale altissima, per la stabilità di una percentuale di benestanti risibile.
Lo stesso vale sulle richieste di esprimersi, che non si impongono de facto, ma che avvengono attraverso percorsi, cioè anche cambiando regole pensate in tempi rigidi per non permettere che parti della propria nazione potessero dire, potessero scegliere.

La Spagna che esce dalla dittatura nel compromesso della Transizione ha avuto bisogno di scrivere nella Costituzione all’articolo 8 che l’esercito è garante della sua unità; un deterrente che la dice lunga su quanto fossero già pronte da tempo le condizioni per uno stato federale, mentre i poderes facticos del rancido nazionalismo spagnolo volevano che tutto fosse ‘atado’, legato, a doppio giro, in sicurezza. Son passati 34 anni dall’entrata in vigore della Carta Magna e quell’articolo è ancora lì.

Il peggior nazionalismo, pensateci, è quello dei governi centrali, perché reprime, è violento grazie a leggi che autoproduce e gode sempre di una folta schiera di lacché muniti di penne, oggi tecnologia, per propagandare un messaggio univoco. Nella diversità è la ricchezza, così come del dibattito e infine nella capacità di saper accettare le decisioni dopo un percorso condiviso.
Altrimenti la parola ‘libertà’ o ‘democrazia e diritto’ sono solo graziosi orpelli senza senso con cui infarcire la sbobba istituzionale che gronda retorica mai applicata.

 

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