Siria, un popolo cancellato

Asad padre è riuscito negli anni a “cancellare” il popolo siriano facendo in modo che il mondo lo vedesse come mediatore geopolitico regionale, e non come leader che soffocava la sua società e il suo popolo. Intervista al politologo libanese Ziad Majed

 

di Antoine Ajoury*, tratto da Osservatorio Iraq 

 

22 novembre 2014 – “Perché tanta esitazione quando si tratta del conflitto siriano?”, si chiede giustamente Ziad Majed, politologo libanese e professore di Studi mediorientali presso l’Università Americana di Parigi. Governi, organizzazioni internazionali, partiti politici, intellettuali e media … tutti, di fronte alla rivoluzione contro il regime di Bashar al-Asad, si sono “lavati le mani come Ponzio Pilato”.

Tutti “continuano a fornire giustificazioni e scuse per non aiutare i siriani a voltare pagina dalla tirannia”, aggiunge l’autore di Siria, la rivoluzione orfana (“Syrie, la révolution orpheline”, éd. Sindbad/ActesSud, L’Orient des livres, 2014) suo ultimo libro.

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I pretesti sono tanti: “complotto ordito dagli imperialisti”, “regime e opposizioni che in termini di violenza e di barbarie si equivalgono”, “minaccia jihadista”. In sostanza, eventi “complicati” che si svolgono in un paese “complicato”.

Nel suo nuovo libro, Ziad Majed riesce brillantemente ad illuminare il lettore su un conflitto in corso da tre anni, guardando indietro, alle cause, alle problematiche e alle sfide della rivoluzione siriana, da un punto di vista storico, socio-economico e geopolitico.
Il testo è ricco di note, riferimenti e fonti che fanno di questo studio un esauriente compendio della rivoluzione siriana.

“L’idea del libro è di mostrare che la situazione in Siria non è così complicata come la gente pensa. Si può capire”, afferma l’autore.

In occasione della sua presenza alla Fiera del Libro francofono di Beirut per firmare il suo nuovo lavoro, Ziad Majed ha concesso a L’Orient-Le Jour, un’intervista.

 

C’è un filo conduttore che attraversa il libro, che formulerei così: “l’indifferenza” nei confronti del popolo siriano. Come si spiega questo fenomeno?

E’ esattamente così. Se ora ci chiedessimo perché il popolo siriano non suscita tanta simpatia e solidarietà anche dal punto di vista umano e umanitario, credo sia più che altro perché Hafez Asad (il padre di Bashar, ndt) è riuscito a far passare in secondo piano le persone, il popolo stesso.

La Siria si è trasformata sotto il suo regno in uno Stato in cui il popolo non esiste, ma che tuttavia è in grado di intervenire in Libano, di parlare della causa palestinese, di fare da mediatore tra il paesi arabi del Golfo e l’Iran, e così via.

In questo modo, il regime di Asad, è riuscito a cancellare il popolo siriano; giocando un ruolo geostrategico e facendo sì che tutto il mondo si rivolgesse a lui quale mediatore delle varie crisi regionali, e non in quanto leader di un paese e di un popolo, di una società siriana che ha soffocato e di cui ha ridotto il campo politico attaccando la sinistra e gli islamisti.

Ha trasformato la Siria in un paese di individui che vivono in solitudine, che non comunicano più e dove la fiducia non esiste. Oggi siamo ancora allo stesso punto, tanti politici e analisti si chiedono cosa vogliono gli americani, i russi, gli iraniani, i sauditi, e ancora una volta ci si dimentica che ci sono milioni di siriani dentro il paese che dal marzo 2011 tentano di alzare la testa.

Quali pensa che siano le responsabilità dell’Occidente per ciò che sta accadendo in Siria?

Bisogna fare una distinzione tra gli Stati Uniti e l’Europa. Data la vicinanza geografica e la storia del Mediterraneo, gli europei conoscono un po’meglio la Siria. Tuttavia, l’opinione pubblica ha un problema con i propri dirigenti. Tende a non credergli. Pensa ancora che ci siano giochi nascosti, problemi di corruzione, interessi segreti.

Ci ritroviamo così un pubblico attratto molto di più dalle teorie del complotto che dalla volontà di un popolo oppresso di sbarazzarsi di un dittatore.

Per quanto riguarda i governi, gli europei sono divisi, francesi e britannici sono più progressisti rispetto alla questione siriana, mentre tedeschi, svedesi e austriaci sono riluttanti. E la posizione degli Stati Uniti non li ha aiutati a spingere verso una direzione. Gli Stati Uniti sono stati molto titubanti sin dall’inizio: il presidente Obama, che aveva promesso di ritirarsi dal Medio Oriente, non voleva tornarci. Sapendo che i pessimi risultati dell’esperienza irachena e libica hanno pesato anche sulla Siria.

In sostanza, gli occidentali hanno lasciato marcire la situazione, mentre nel 2011 in molti dicevano che il conflitto si sarebbe trasformato in un incubo se non ci fosse stato alcun intervento straniero, intervento che non doveva essere necessariamente militare all’inizio. L’Occidente è in parte responsabile di questo decadimento, non come parte delle teorie del complotto ma per la sua inazione.

Pensa ci sia un collegamento tra il regime siriano e i jihadisti?

Sì, ma questo link non spiega da solo il fenomeno dell’Isis, che è molto più complicato del lavoro dei servizi segreti siriani e degli altri servizi segreti.

All’epoca di Hafez al-Asad, quest’ultimo ha permesso al salafismo quietista estremamente conservatore di svilupparsi in Siria contro l’Islam politico dei Fratelli Musulmani che combatteva. E dal 2003, il regime ha abilmente manipolato l’altra forma di salafismo jihadista permettendogli di passare attraverso la Siria per andare a creare il caos in Iraq e mettere in difficoltà gli americani.

All’inizio della rivoluzione siriana, sono stati liberati degli islamisti che hanno aderito a Jabat al-Nusra o al Fronte Islamico. Non sto dicendo che questi elementi sono stati manipolati dal regime. Assolutamente. Ma Asad sapeva quello che stava facendo. Conoscendo la loro capacità di mobilitazione, era consapevole che sarebbero immediatamente entrati in concorrenza con l’opposizione laica. Voleva anche dire: guardate cosa mi trovo di fronte.

Poi c’è stato l’overflow iracheno. Non dobbiamo inoltre dimenticare che si è verificato un fenomeno di radicalizzazione nelle aree ferocemente bombardate.

Ma alla fine, tutto quello che il regime ha predetto si è avverato: il caos, il terrorismo, la persecuzione delle minoranze …

Se viene avviato un meccanismo di violenza e di barbarie in un paese, non è né stupefacente né sorprendente dopo tre anni vedere l’emergere di un fenomeno come l’Isis. Se si lascia un regime massacrare la sua popolazione impunemente, si può finire in una situazione di simile caos. Il caos è effettivamente iniziato presto con lo slogan: “O Asad o bruciamo il paese”. Hanno bruciato il paese per mantenere Asad al potere.

D’altra parte, l’Iran, le milizie sciite in Iraq e Hezbollah hanno provocato anche in gran parte della Siria e in Iraq una reazione violenta in quella componente sunnita della popolazione che si sentiva umiliata, soprattutto a causa del linguaggio aggressivo sciita.

Penso che l’Isis non sia un fatto inevitabile. Si tratta di un fenomeno che è stato costruito e al quale è stato permesso di fiorire. E la barbarie di questi jihadisti non può essere spiegata con gli argomenti del regime, ma con quello che non abbiamo fatto per evitare a questa situazione di degenerare e andare in questa direzione.

Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che anche gli uomini di Asad hanno sgozzato le persone, hanno usato i coltelli allo stesso modo dell’Isis. Ci sono centinaia di morti per tortura, ci sono 11mila cadaveri, fotografati dal famoso “Cesar”, deceduti sotto tortura, o di fame, o di malattia nelle carceri del regime.

Parliamo infine del fallimento dell’opposizione siriana nell’affermarsi…

Dipende da quattro fattori a mio parere. In primo luogo, la maggior parte degli oppositori siriani non aveva alcuna esperienza politica. Hanno scoperto la politica nel ruolo di leader. Questo non fornisce loro alcuna scusante dopo tre anni. Poi ci sono differenze sostanziali tra i Fratelli Musulmani (ben organizzati), personalità di sinistra (mal organizzate), gli oppositori della diaspora e quelli che vivono in Siria.

Il terzo fattore è la mancanza di supporto esterno alla rivoluzione, soprattutto nella sua prima fase. L’ultimo fattore è il conflitto di interessi e il regolamento di conti tra i diversi attori regionali. Infine, vorrei dire che tra i 200mila morti, le migliaia di prigionieri, i milioni di sfollati e rifugiati, gli uccisi, gli imprigionati, chi è scomparso e chi è finito in clandestinità c’era un potenziale umano impressionante: avrebbero potuto essere leader di grande valore.

 

*Questo articolo è stato pubblicato su L’Orient Le Jour . La versione originale è disponibile qui. La traduzione è a cura di Paola Robino Rizet.

 



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