La Catalogna del dopo Consulta (II)

Questa seconda parte di “La Catalogna del dopo Consulta” doveva essere una tranquilla carrellata attraverso posizioni politiche di fondo e possibili scenari di futuro più o meno lontani. La cronaca politica degli ultimi giorni, quelli trascorsi dalla pubblicazione della prima parte a oggi, rendono irrinunciabile contrastare questa visione generale e l’interpretazione di fondo che veniamo difendendo con l’attualità politica.

La prima puntata:  La Catalogna del dopo Consulta

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/11/geniola-foto-bio-Qcode.jpg[/author_image] [author_info]di Andrea Geniola @andreageniola
Dottore di ricerca in Filosofie e Teorie Sociali Contemporanee, DEA in Storia Comparata Contemporanea, ricercatore presso il CEFID-UAB, condirettore della rivista “Nazioni e Regioni”, sta preparando una seconda tesi di dottorato presso l’Universitat Autònoma de Barcelona. Studia la costruzione, codificazione, manipolazione, semantizzazione e uso delle identità stato-nazionali, regionali e nazional-periferiche tra Spagna e Francia, nella seconda metà del XX secolo. Abruzzese, cresciuto a Bari, vive a Barcellona. [/author_info] [/author]

 

5 dicembre 2014 – Il processo catalano si sovrappone inevitabilmente alla crisi dello Stato spagnolo, di cui ne è solamente un’espressione tra le tante, e allo scenario di opportunità che si aprono in Spagna, tra continuità, riforma e rottura, parafrasando i tre concetti cardine che entrarono in gioco durante il cambio di regime di trent’anni fa, dalla dittatura franchista alla democrazia liberal-rappresentativa. Ora, anche l’attualità può essere vista in profondità e prospettiva, soprattutto quando muove questioni di fondo.

 

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È lecito sostenere che prima del 9 novembre erano possibili accordi concentrici sulla base della cosiddetta tercera vía auspicata da UCD e dal PSOE, il primo attorno all’autonomia fiscale e il secondo attorno a una non ancor chiara idea di riforma federale dello stato. È altrettanto lecito affermare che a sbarrare il cammino verso un possibile negoziato siano stati il contenuto politico delle conferenze di Mas e Rajoy. Crediamo si tratti d’interpretazioni poco solide, per due ragioni. In primo luogo, perché in politica tutto è possibile e basterebbe la concessione da parte di Madrid dell’autonomia fiscale, il riconoscimento della nazione catalana e il blindaggio di alcune competenze chiave per il catalanismo storico, per eliminare dalla contesa una parte importante degli argomenti indipendentisti e ridurne di conseguenza il peso sociale. Che questo accada o meno ha poco a che vedere con la stretta attualità bensì riguarda decisioni politiche di fondo che coloro che, a destra come a sinistra, difendono l’integrità della nazione spagnola, non sono intenzionati per il momento a prendere. In secondo luogo, si tratta di letture e interpretazioni visibilmente ossessionate dal paradigma del negoziato e della necessità della sopravvivenza della Spagna così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Salvaguardare l’integrità territoriale della Spagna è un’aspirazione legittima ma non può essere una preoccupazione condivisa dagli analisti politici, o perlomeno non con certe dosi di drammaticità.

Una situazione come quella catalana dovrebbe essere piuttosto uno splendido oggetto di analisi e ricerca per politologi, sociologi e storici contemporaneisti, dato che presenta in presa diretta la possibile nascita di un nuovo stato o, in alternativa, la profonda riforma di uno già esistente oppure, ovviamente, nessuna di queste due cose. Se vi sarà un punto di non ritorno o se la situazione ha già oltrepassato questa linea non siamo in grado di affermarlo. Ciò che sì è chiaro è che è l’accumulo di fatti, episodi e circostanze degli ultimi trent’anni ad aver creato le condizioni e i precedenti per quanto sta accadendo. E con una minor dosi di drammaticità possiamo affermare solamente che oggi l’ipotesi più accreditata, quella con più numeri, è quella dell’anticipo elettorale, a discapito sia dell’ipotesi della Dichiarazione Unilaterale d’Indipendenza (DUI) immediata, inizialmente caldeggiata da ERC e voluta dalla CUP, sia dell’ipotesti di una grosse koalition autonomica tra CiU e PSOE-PSC, la cosiddetta sociovergència tanto agognata dai democristiani di UDC e dal suo leader Duran i Lleida.

Se il 9 novembre è stato un successo relativo è anche vero che questo non ha sbloccato la situazione, a giudicare dalla dinamica catalana delle ultime due settimane. Se tutti i partiti pro-consulta concordano nell’affermare la legittimità della stessa e il suo alto valore politico simbolico, meno d’accordo si sono trovati sul “che fare” il giorno dopo. Il dibattito tra queste forze politiche che, è bene non dimenticarlo, rappresentano la maggioranza nel Parlament e quindi sono formalmente espressione delegata della maggioranza della cittadinanza catalana (vedi articolo sulle elezioni autonomiche del 25 novembre 2012), è stato dominato dalla dialettica tra la soluzione della DUI, da realizzare attraverso la maggioranza parlamentare e la celebrazione di elezioni anticipate, cosiddette plebiscitarie. Finalmente si è affermata questa seconda opzione, non priva delle caratteristiche del déjà-vu, dato che anche le precedenti elezioni autonomiche erano state presentate come plebiscitaries e poi non lo sono state affatto. Dietro l’idea delle elezioni anticipate vi è l’obiettivo dell’attuale Governo catalano di ottenere un parlamento quasi-costituente, con l’unico compito di traghettare la Catalogna verso l’ultima tappa della costruzione di uno stato proprio però, e forse soprattutto, anche la battaglia per l’egemonia politica. Il President Artur Mas, indebolito più che rafforzato da tre anni di processo indipendentista, con una coalizione in netta caduta elettorale, spinge per una lista unica per il dret a decidir. Da più parti si sostiene che l’impeto indipendentista dell’erede del pujolismo sia dovuto alla necessità di disporre di un diversivo per evitare che il cittadino comune pensi troppo ai tagli al welfare e agli scandali di corruzione che stanno facendo sgretolare lo statu quo in tutta la Spagna e certo non risparmiano la Catalogna. Da questo punto di vista è possibile che tanto Mas sul fronte catalano come Rajoy su quello spagnolo usino il conflitto nazionale come una cortina di fumo per nascondere, se non le proprie vergogne, almeno quelle della propria parte politica. Ma a che prezzo? Nel resto della Spagna, mobilitare il sentimento nazionale spagnolo contro la minaccia (fino ad oggi relativa) del separatismo produce un reddito politico-elettorale per la destra, diciamo che rappresenta un investimento sicuro. Nemmeno la sinistra spagnola è riuscita a sottrarsi a questa infallibile legge dei numeri; la Catalogna è un serbatoio di voti di sinistra ma non serve da sola a conquistare la Moncloa. Invece, lo scenario politico catalano non è così semplice come quello spagnolo e per vincere le elezioni politiche è necessario fare qualcosa di più che fare appello all’identità nazionale. E i risultati elettorali lo corroborano.

 

A pro-Catalan independence flag known as the "Estelada" hangs from a balcony in central Barcelona as Catalonia participates in a symbolic independence vote

 

La coalizione catalanista centrista che ha praticamente edificato l’autonomia catalana (Convergència i Unió-CiU è una coalizione tra Convergència Democratica de Catalunya-CDC, di orientamento liberal-democratico, e Unió Democratica de Catalunya-UDC, di tradizione democristiana), ha subito un evidente calo elettorale da quando è cominciato il processo, perdendo quasi il 50% del proprio patrimonio elettorale. Nelle elezioni autonomiche passa dal 38,47% del 2010 al 30,68% del 2012, mentre alle europee del 2014 scende al 21,86%, e questo nel pieno della mobilitazione del voto nazionalista e indipendentista. I segni di usura sono evidenti mentre coloro che stanno capitalizzando questo processo sono maggioritariamente i partiti catalanisti di sinistra, da ERC a ICV fino alla CUP. La realtà dei fatti cozza con l’interpretazione secondo la quale Mas e CiU starebbero approfittando del processo indipendentista. A CiU non potrebbe andare peggio di così. Al di sotto di queste percentuali la coalizione sarebbe sull’orlo del fallimento e in parte già lo è. In realtà CiU, con ritmi diversi e con alterne vicende per i due partiti che ne fanno parte, sta inseguendo il processo, non lo sta guidando. Certamente lo sta facendo per calcolo politico ma anche per non perdere il contatto con la realtà. L’unico reddito politico raccolto da Mas è stato quello di restare al governo della Generalitat, cosa certamente non di poco conto, ma in termini elettorali ha raccolto davvero poco. E, in definitiva, un partito d’ordine e governo come CiU non si trova affatto a suo agio nella parte del discolo disobbediente, e la stessa cosa si può dire per il suo elettorato più fedele. In questo contesto, l’idea di una lista unica rappresenterebbe l’ultima spiaggia prima del tracollo elettorale.

 

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Il 25 novembre il Presidente catalano rende pubblica la sua road-map per l’indipendenza, attraverso la conferenza Després del 9-N: temps de decidir, temps de sumar. Mas propone lo scioglimento del Parlament de Catalunya per celebrare nuove elezioni in cui i partiti a favore dell’indipendenza presentino una lista unitaria con l’ambizione di ottenere la maggioranza assoluta e proclamare l’indipendenza entro 18 mesi attraverso quattro tappe: negoziato con lo Stato spagnolo e le istituzioni europee per consensuare i termini della separazione; costruzione di strutture istituzionali strategiche di tipo statuale, come le Finanze; processo di redazione della Costituzione catalana; nuove elezioni e referendum per la proclamazione del nuovo stato. La realizzazione di questa ipotesi rafforzerebbe decisamente la figura di Mas dinnanzi al governo di Madrid, inoltre la visualizzazione di una sola lista ampliamente maggioritaria sarebbe percepita a livello internazionale (per il limitato interesse che una notizia di politica estera può suscitare nonostante la retorica della globalizzazione) come una sorta di plebiscito. In un certo senso Mas e CDC propongono una specie d’ibernazione dei partiti, ma allo stesso tempo investono su una forte personalizzazione del processo; certamente un’astuzia poco digeribile che avrebbe come unica conseguenza quella d’ibernare qualsiasi altro discorso politico e di spoliticizzare l’indipendenza stessa. ERC, la CUP e, a quanto pare, ICV preferiscono invece che sia un Parlament a maggioranza indipendentista, affiancato dalla mobilitazione popolare, e non il prestigio del President, a guidare il processo, determinare il rapporti di forza con Madrid e spostare l’asse della comunità internazionale verso l’accettazione dei risultati del processo di autodeterminazione, in concomitanza con gradi differenti di mobilitazione popolare.

Come ha osservato il deputato della CUP David Fernández, «il discorso di Mas è una OPA nei confronti di ERC», data in testa da la maggior parte dei sondaggi elettorali. Infatti nessuno ha mai pensato che ICV e la CUP potessero accettare tale proposta e l’obiettivo reale è la neutralizzazione di ERC come concorrente nella corsa verso l’egemonia. Il no di ERC si è condensato in una proposta alternativa che il suo leader Oriol Junqueras ha presentato nel corso di un’altra conferenza (un genere pare di moda da queste parti), Crida a un nou país: la República Catalana. Forte dei risultati di una serie di studi e sondaggi, che danno come superiore la somma aritmetica dei risultati di liste separate rispetto ai risultati di una lista unica, Junqueras ha affermato l’inutilità funzionale della stessa. In concreto CiU ed ERC assieme non raggiungerebbero la tanto agognata maggioranza assoluta mentre la somma dei voti delle due liste separate, più quelli di CUP e ICV, sì che darebbe una maggioranza assoluta in vista di un processo costituente.

La controproposta di ERC è la condivisione di un punto centrale, quello dell’indipendenza, attraverso liste separate ma coordinate attraverso una parte del nome e una raod-map accordata in precedenza e dinnanzi agli elettori; il nome in comune potrebbe essere Ara és l’hora, Independència Sí Sí o Cadnidatura per la Independència. Tale opzione garantirebbe una giusta rappresentazione delle diverse idee di Catalogna in vista di un processo costituente. Junqueras, partendo dalla considerazione di un esaurimento della via legalitaria, propone un governo unitario con fini costituenti senza ulteriori passaggi referendari né consulte circa l’autodeterminazione. Tale governo unitario avrebbe il compito di creare delle strutture statuali o proto-statuali in quegli ambiti in cui lo Statuto di Autonomia non prevede competenze e, parallelamente, dichiarare l’indipendenza della Catalogna. Il punto di arrivo del processo disegnato da ERC non è quello dell’indipendenza bensì quello del referendum costituzionale della nuova repubblica indipendente. Ciò detto, esiste una pressione civica a favore di questa via, ma anche questa sta prendendo forme differenti, più articolate, come lo è la realtà del resto. Soprattutto attraverso la piattaforma unitaria “Ara és l’Hora”, “l’Assemblea Nacional Catalana” e “Omnium Cultural“, ovvero le due entità che hanno ripetutamente messo in piazza più di un milione abbondante di persone negli ultimi tre anni, premono, se non già per una lista unica, almeno per una condivisione programmatica chiara rispetto all’autodeterminazione. Diciamo che sembrano disposte a declinare il paradigma dell’unità anche in altri modi ma su questo non transigono.

 

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Ci limitiamo per il momento alle posizioni di CDC ed ERC, senza entrare nel discorso di ICV e la CUP, cui dedicheremo tra gli altri la terza parte di questo nostro intervento, essenzialmente perché è tra queste due forze che si gioca la partita dell’egemonia del processo in termini elettorali e dall’accordo o tensioni tra queste verranno alcune delle questioni che maggiormente condizioneranno il suddetto processo. È invece utile insistere in questa sede sulla questione della crisi di CiU come coalizione (Mas è stato eletto in questa coalizione non dalla sola CDC) e sulle contraddizioni di fondo che il catalanismo centrista vive in questi mesi. Da più parti s’insiste sull’incompatibilità d’interessi tra indipendenza nazionale e, da una parte, la base sociale di CiU e, dall’altra, il progetto politico di fondo dei due partiti che la compongono, CDC e UDC. Ripetiamo, la complessità della situazione non permette semplificazioni e facilonerie. I due partiti sono in crisi evidente: non sono abituati a vivere ai margini della legalità costituita, non vogliono rotture, forse addirittura hanno paura del protagonismo che la piazza sta assumendo in questi anni; e senza la spinta della piazza e una crisi economica de gestire, mai avrebbero intrapreso questo cammino. La retorica ufficiale, paradossalmente avallata dagli stessi detrattori di Mas, vuole che il President abbia prefigurato la via indipendentista già nel 2007, nell’ambito del processo di dibattito della Casa Gran del Catalanisme e il discorso ufficiale del suo partito fa discendere questa svolta dalla conferenza pronunciata da Mas in quell’occasione, El catalanisme, energia i esperança per a un país millor. In realtà, il testo faceva riferimento al solo diritto a decidere da parte della nazione catalana, non parlava d’indipendenza. Certamente quella conferenza e il progetto della Casa Gran del Catalanisme rispondevano ad altre esigenze, come il bisogno di riprendere l’iniziativa politica nell’ambito del catalanismo e dare una risposta articolata alla politica di ricentralizzazione dello Stato. È ugualmente significativo che quel progetto sia praticamente scomparso dalla scena politica, ingoiato dagli eventi, ma non il suo spirito di fondo.

CDC quando parla oggi d’indipendenza non lo fa riferendosi alla costruzione di uno stato-nazione classico, con il suo welfare e il suo patrimonio pubblico, bensì immagina uno stato light, forse più aperto alle esigenze dell’economia di mercato che ai bisogni delle persone; una posizione, questa, non condivisa, anche se a profondità diverse, da ERC, ICV, CUP e dalla diaspora socialista pro-consulta e in via di riaggregazione fuori dal PSOE-PSC. Inoltre, CiU ha il ruolo storico di rappresentante di determinati interessi economici che vedono la rottura dello statu quo come un pericolo per la stabilità politica e sociale e per la riproduzione dei propri interessi. Come segnalava un mese fa la rivista di movimento e inchiesta “La Directa”, «i legami di Artur Mas con le multinazionali ostacolano la via della disobbedienza» (La Directa, n. 369, p. 3), ovvero sono in contraddizione diretta con la via della DUI.

 

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Se poi andiamo ad osservare l’altro versante della coalizione, quello dell’UDC e del suo leader Josep Antoni Duran i Lleida, i dubbi si accumulano. A questi il contenuto della conferenza di Mas non è piaciuto affatto e da tempo mostra grande inquietudine per le rotture che potrebbe provocare l’attuale processo. Solo per citare l’ultimo fatto in linea cronologica, il partito democristiano ha celebrato il 23 novembre una giornata di studio dal titolo Valors i política: Costruïm, in cui il leader del partito ha affermato ancora una volta la sua incomodità nei confronti della centralità politica del discorso indipendentista. La direzione dell’UDC non ha alcuna intenzione di andare verso delle elezioni anticipate e spinge per un accordo di legislatura con i socialisti che metta nel congelatore gli ultimi tre anni di corsa verso l’indipendenza. Come ospite della giornata, è intervenuto Enrico Letta, la cui opinione in materia è sintetizzata dall’aver paragonato il referendum scozzese all’attentato di Sarajevo. Un fatto simbolico che fa da contorno alla messa in scena della divergenza strategica tra CDC e UDC. Se infatti la linea del CDC è quella di spingere per una lista frontista con l’obiettivo di egemonizzare il campo indipendentista, la maggiore preoccupazione dell’UCD, o perlomeno del settore più vicino al suo leader, è quella di combattere l’egemonia della sinistra e costruire un Podemos de derecha, esattamente come suggeriva mesi fa il presidente del Banc Sabadell, Josep Oliu. La traduzione pratica e attualizzazione di questa idea si situa al centro del progetto di Duran i Lleida di porre le basi per un nuovo soggetto politico del centro catalanista, capace di rappresentare il ceto imprenditoriale. Mentre il dirigente ha esplicitamente affermato che il centrismo non può centrare la sua politica sulla sola questione nazionale. E se Duran i Lleida afferma questo vuol dire che il processo indipendentista in corso non rispecchia gli interessi delle classi dirigenti classiche catalane. Queste erano ben rappresentate nella prima fila di poltrone dell’Hotel Crowne Plaza di Barcellona mentre il leader dell’UDC illustrava il suo progetto ed elencava le critiche alla via indipendentista: il proprietario del quotidiano “La Vanguardia”, Javier Godó, Salvador Alemany, del gruppo Abertis, Rafael Vilascea, di Gas Natural, Joan Castells, del gruppo Fiatc, José Luis Bonet, de Freixenet, Miquel Valls, della Camera di Commercio di Barcellona, e Jordi Alberich, del Cercle d’Economia, tra gli altri. Ora, questa volontà di creare una terza via neo-autonomista non trova sponda nel Governo di Madrid; il suo nazionalismo pare aver contribuito a creare più indipendentisti di qualsiasi altro partito od organizzazione nazionalista catalana.

 

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Ma allora cosa sta accadendo all’interno del centro-destra catalano? In proposito si possono fare differenti supposizioni, cercando di rifuggire la banalità del paradigma del provincialismo o del particolarismo. Non è inusuale che in un momento di crisi le forze che hanno rappresentato le pareti maestre del sistema politico siano soggette a tensioni. Nel caso specifico di CiU, questa si è identificata a tal punto con l’autonomia e l’autonomismo e con la tradizione del catalanismo, che l’esaurimento di questi non poteva non avere delle conseguenze. Oggi CDC e UDC hanno due progetti e programmi nazionali completamente differenti. I primi probabilmente ci sono finiti controvoglia, i secondi tirati per i capelli dal timore di perdere la loro quota di potere. Questa l’unica spiegazione meccanicamente plausibile della non ancora avvenuta rottura della coalizione. Ma ci sono anche altri motivi.

Tra questi le ragioni che adduce un articolo apparso su “Le Monde Diplomatique” di novembre. In Etats en miettes dans l’Europe des régions Paul Dirkx (Le Monde Diplomatique, 728, pp. 16-17), secondo il quale gli stati-nazione europei si troverebbero soggetti a una doppia tensione verso l’alto e verso il basso, che tende a trasferire poteri da un lato verso Bruxelles e dall’altro verso le regioni. Quindi, la reazione degli stati-nazione è di ricentralizzazione in un momento in cui si sta affermando il decentramento. Ed è questo che genera una tensione di tipo sub-statale, in questo caso tra stato spagnolo e regione catalana. A questa tensione si somma la pressione democratica verso un recupero di sovranità popolare da parte dei movimenti sociali, che in situazioni come quella catalana può assumere la forma (tra le altre) dell’indipendentismo.

Insomma, il centro-destra catalano si trova schiacciato tra queste tre forze in atto e ha sviluppato strategie differenti per cercare di sopravvivere a sé stesso. La ricetta del CDC è quella di assecondare quanto più possibile il processo, per evitare di perdere il contatto con l’elettorato, mentre quella dell’UCD è quella di tirare il freno presentandosi come il garante dell’ordine e degli interessi economici. È possibile che queste due forze un giorno possano riconciliarsi o è anche possibile che finiscano per consumare una rottura definitiva. Ciò che è certo è che difficilmente l’UDC potrà sopportare a lungo la convivenza con un indipendentismo che non condivide, ma che ha ormai fatto atto di presenza, per ora minoritaria, anche all’interno del partito.

 

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In tutto ciò gioca un ruolo decisivo la sordità del governo di Madrid. Il Presidente spagnolo è sbarcato a Barcellona il 29 novembre, senza seguire la moda delle conferenze, ma con il vecchio modello del meeting di partito. È sbarcato ed è ripartito senza quasi dare l’occasione ai suoi fans di scattarsi un selfie assieme a lui. Il discorso di Rajoy meriterebbe un articolo a parte per il suo valore di accumulo di argomentazioni nazionaliste di stato, ma anche per l’accumulo di retorica che in ogni caso non ti aspetti dall’erede della tradizione politica del post-franchismo e che governa a Madrid con el rodillo de la mayoría absoluta: Non vogliamo un paese di liste uniche, partiti unici e politiche uniche al servizio di un’unica causa. Per favore, un po’ di rispetto per la Catalogna (“El País”, 30/11/2014, p. 14).

Rajoy non vuole un paese in cui si debba (o possa) scegliere la propria identità nazionale e, in definitiva, non è disposto a negoziare né la sovranità nazionale né una riforma della Costituzione del 1978. Rajoy è venuto a Barcellona per riaffermare la presenza dello Stato. Per farlo ha celebrato un discorso duro e di rottura di ponti, ma il senso politico a nostro parere glielo hanno dato le dichiarazioni fatte dalla leader del PP in Catalogna.

Alicia Sánchez-Camacho ha invitato il Presidente a rafforzare lo Stato in Catalogna saltando le istituzioni autonomiche, a suo parere non più legittime dopo il 9 novembre. E a dare maggior tensione intervengono le dichiarazioni del Ministro di Grazia e Giustizia, Rafael Catalá, il quale si è reso protagonista dell’ennesimo infausto paragone tra nazismo e indipendentismo che siamo stati costretti ad ascoltare in questi mesi (“Ara”, 3/12/2014, p.14). Tra appelli a governare invece di fare salti in avanti e affermazioni della sovranità nazionale spagnola, accompagnate da quale strizzatina d’occhio costumbrista, il nazionalismo non-detto del PP ha notevoli tratti in comune con quello del PSOE e una poderosa base (anche elettorale) condivisa con nuovi partiti come Unión Progreso y Democracia (UPyD) e Ciudadanos (Cs), questione che affronteremo in un prossimo intervento.

A nostro parere, se il governo di Madrid si sedesse al tavolo dei negoziati con la sola CiU, accordando autonomia fiscale e alcuni blindaggi competenziali nei settori della cultura e dell’educazione, o se si andasse con decisione verso una riforma territoriale federale, l’indipendentismo nel catalanismo di centro scomparirebbe in brevi istanti. Il giorno dopo l’indipendentismo smetterebbe di essere trasversale per diventare patrimonio esclusivo della sinistra, sebbene in tutta la sua variegata pluralità. Ricordiamo che nella storia del catalanismo c’è la solenne proclamazione nella pubblica piazza della Repubblica Catalana del 1931 da parte di Francesc Macià.

Quella repubblica durò poche ore perché il suo senso funzionale era quello di creare una situazione favorevole alla nascita della Seconda Repubblica spagnola. Sono abbondanti i precedenti nella storia catalana che fanno pensare alla possibilità di una sistemazione della questione. Ma attenzione! Una riforma, ad esempio federale, comporterebbe anche una ridefinizione dei confini sub-statali, con la probabile sparizione di alcune delle attuali comunità autonome, cosa certo non facile dopo trent’anni di attività istituzionale. Inoltre questa via oggi aprirebbe la strada ad altri scenari, dato che l’indipendentismo ha raggiunto livelli di socializzazione molto lati, e solo chiuderebbe la partita per alcuni lustri, fino alla prossima crisi istituzionale. È qui che entra in gioco la ricostruzione della sinistra catalana, questione che affronteremo nella terza e ultima parte di questo intervento.

 

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