La strada di Hector

Camacho, pugile di strada, da dove è partito per riscattarsi con il ring, e dove è tornato a morire


di Christian Elia

@eliachr

 

12 dicembre 2014 – Due anni fa, a fine novembre, moriva Hector ‘Macho’ Camacho. Uno dei più beffardi, sfuggenti, spettacolari, furbi e scorretti pugili della storia della boxe. Che non poteva certo morire di vecchiaia, tenendo fede al suo personaggio.

La sua vita, dopo un coma durante il quale non si è mai svegliato, è stata portata via da una pallottola. Una sparatoria. Hector, 50enne, che non combatteva da dieci anni senza però mai annunciare il suo ritiro ufficiale, viene colpito alla testa. In auto con lui un suo amico freddato sul colpo e un mare di cocaina.

Riavvolgiamo il nastro. Hector nasce a Portorico, nella capitale San Juan, nel quartiere Bayamon, che è un mondo a parte. Una ragazza, con un bambino, abbandonati dal padre. La strada è dura: due milioni di persone che si contendono la sopravvivenza a colpi bassi. Lei, sola, scappa via, negli Stati Uniti, come milioni di connazionali. Si porta dietro il suo Hector.

 

 

Li accoglie New York, quartiere Harlem. Il sogno americano è lontano dai vicoli dove gli immigrati lottano ogni giorno tra miseria e speranza. Hector cresce in strada. Si fa notare, perché è uno che si difende bene, picchia duro, è veloce. La strada, in breve, diventa una palestra di boxe.

Hector è bello, pure troppo. Per un latinos di strada la reputazione è tutto e da subito, con una scelta che fa tenerezza, si fa chiamare ‘Macho’, per scansar gli equivoci di un viso angelico. Una cultura elementare, che non fa sconti. Ma se qualcuno dubita della sua virilità, assaggia i pugni. Solo da dilettante le vittorie sono più di cento.

Con uno stile tutto suo: la strada rimane nel dna. I combattimenti di Camacho sono al limite del regolamento. Sempre. Strette, colpi scorretti, scambi rapidi, insulti sussurrati all’orecchio dell’avversario. Ma anche tanta velocità, tanta precisione. Non troppa potenza, ma a quella mancanza rimedia l’astuzia. E i suoi costumi improbabili (è salito sul ring vestito da Capitan America e da indiano) e il suo ricciolo feticcio.

Debutta a 18 anni, nel 1980. Diventa un’icona degli anni Ottanta: edonismo, successo, soldi. Batte tutti i migliori, scala tre categorie. Superpiuma, leggeri, superleggeri. Affronta i migliori della sua epoca: Luis Ramirez, Boza-Edwards, Howard Davis, Ray Mancini, Vinny Pazienza, Greg Haugen, Roberto Duran, Leonard e Chavez.

 

hector-macho-camacho-1987

 

Sarà campione del mondo, in un misto di complimenti e critiche, colpi bassi dati e subiti, insulti presi e resi, guasconate e colpi subiti. Ma la sua età dell’oro finisce, arrivano i 40 anni, gli ultimi fuochi di uno spirito ribelle.

Iniziano i guai, quelli che la boxe sa tener lontani come una madre affettuosa con i suoi figli più scapestrati. Che fino a quando hanno un round e delle corde a dargli i confini della vita, riescono a trovare un equilibrio. Forse. Ma quando il ring diventa troppo, la vita presenta il conto.

Hector ‘Macho’ Camacho entra in un tunnel buio, una via crucis giudiziaria nella quale non manca nulla. Spaccio, rapina. Lui sosterrà che avendo trovato il negozio chiuso, ma necessitando del computer, lo ha preso. Magari è vero. Perché le regole, fuori, sono senza la fantasia che ti permette il ring. Ancora giudici e prigioni, violenza su una minorenne e risse. E droga. Come nell’ultimo round, in un vicolo di San Juan. Era tornato indietro, da dove era partito. Senza forse essere mai andato via davvero.

 

 

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