Donbass: la linea
invisibile 3

Diario di viaggio dove finisce l’Europa, ma non inizia ancora la Russia, dove l’Ucraina si perde nel Donbass

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/12/10805622_10205385288531467_7355464163906478836_n.jpg[/author_image] [author_info]foto e testo di Teo Butturini, da Lugansk, Dobass, Ucraina. 33 anni, da circa tre si dedica a documentare fotograficamente il mondo intorno a lui. Prima in Egitto, dove segue la rivoluzione, poi in Cina ed in Sud America. Ora si trova in Ucraina, diretto nel Donbass, per cercare di capire cosa succede in quelle aree, devastate dalla guerra che sta spaccando il paese in due. Il viaggio si può anche seguire su: http://instagram.com/teo_butturini[/author_info] [/author]

2 gennaio 2015 – La strada scorre, il sole si fa timidamente strada tra le nubi e ancora non ho trovato un punto fisso o un senso in quello che vedo. La nebbia dei giorni prima mi è rimasta dentro, i brandelli di informazioni si mescolano in un quadro astratto, ancora indecifrabile.

Quando mi svegliano siamo a pochi chilometri da Lugansk. Dal lunotto oscurato dallo sporco si vede un ponte crollato, scendo a darci un’occhiata. Sopra: trincee piene di scatolette vuote, quadrati di gommapiuma e buchi che passano da parte a parte della struttura. Sotto: macchine che viaggiano contromano in autostrada, per passare dal lato “sano”. Almeno fintanto che non viene giù tutto e si dovrà farlo saltare con la dinamite, questa specie di monumento sbilenco all’idiozia umana.

Da sopra quel che rimane della struttura si vede un occhio di Sauron sull’asfalto sottostante, dove un tank deve aver fatto il girotondo. La follia di quegli istanti non me la voglio immaginare, ché già ho visto cosa può succedere e non è niente di bello: roba che ti domandi che diavolo ci sei venuto a fare, roba da tornare subito a casa a far all’amore e fanculo la guerra. Come se ci fosse davvero, qualcosa da cui tornare. Meglio far finta di riderci sopra e concentrarsi sugli scatti.

Arriviamo prima del previsto a Lugansk. Passiamo subito a prendere i nostri accrediti civili al palazzo in centro, quello davanti al quale qualche mese fa c’è piovuto un missile, che ha fatto a brandelli la piazza e le persone che ci stavano in mezzo. Ogni città è una repubblica, qui, e ogni repubblica ha i suoi pass. Aspettiamo chiusi in una stanza, in compagnia di una pantegana in gabbia. I documenti per fortuna arrivano relativamente in fretta.

 

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La trafila si ripete per quelli militari, ma senza topi in gabbia stavolta. E’ qui che incontriamo il boss del press center locale. Yuri (lo chiameremo così) è un uomo sui cinquantacinque: pancia sporgente, barba grigia. Sembra un nonno, la sua faccia ha un che di rassicurante, e ci piacciamo al volo, credo. Dopo un po’ che parliamo della situazione, gli chiedo: “Sei già stato in altre guerre, vero?”. Mi fissa, sorride, e mi risponde con un’altra domanda: “Secondo te?!” Ci penso un attimo, mentre lo guardo negli occhi.
“Beh… hai dei modi che non fanno assolutamente pensare a una persona che ha ucciso qualcuno. Però sei qui, adesso, con questo ruolo. Direi che è già una risposta”.

Esplode in una fragorosa risata e dice “Afghanistan per tanto tempo, poi Tagikistan, ora qui. Ed è la peggiore, perché stavolta si combatte tra fratelli.”. Bisogna attendere qualche ora, per ricevere la clearance, quindi lo salutiamo e ci dirigiamo verso Novosvietlovka per ammazzare il tempo e dare un’occhiata in giro. Qui prima c’era una base dell’esercito ucraino, e i segni sulle case rimaste in piedi tra la nebbia dicono che la battaglia è stata feroce.

Ci fermiamo vicino ad una chiesa, all’incrocio si vedono una camion ed un carro armato bruciati. Dall’altro lato della strada c’è la torretta del tank, riversa nel fango. Non so bene con cosa si possa creare uno sfacelo del genere, ma quando è successo non dev’essere stato un bel quarto d’ora.

Entro nel cortile e, mentre giro intorno all’edificio pieno di fori di shrapnel, incontro il prete. E’ relativamente giovane, sulla quarantina, barba lunga e ben curata, occhi azzurrissimi. Cerchiamo di capirci con un po’ di russo e di inglese, e mi conduce all’interno per mostrarmi gli affreschi crepati, da cui si sono staccati pezzi di intonaco che cerca di conservare per il futuro. Quale non lo sa nemmeno lui.

Ogni tanto ce la vorrei aver anche io questa fede incrollabile in un’entità superiore, in qualcosa che mi aiuti a sopportare il male. Invece riesco solo a pensare che se un dio esiste allora si è dimenticato di questo posto, e di molti altri, un sacco di tempo fa. Sempre che gliene sia mai fregato qualcosa.

Esco dalla chiesa e mi dirigo verso le case attorno, incontro degli uomini intenti a salvare pietre e mattoni da un edificio andato in pezzi. Gli chiedo se posso fargli qualche foto mentre lavorano. Uno di loro mi fa un sorriso triste e dice “Se ci tieni, fai pure”, e continua a caricare materiale su di un cassone attaccato ad un trattore.

Il buio cala lento sul villaggio. Chiacchiero con Sveta, una signora di cui non saprei ben definire l’età, i capelli coperti da uno spesso foulard. Sotto alle lenti spesse si nota un occhio velato dalla cataratta. Sembra alticcia, mi indica una delle tante case dalle finestre divelte, con teli di plastica al posto dei vetri: “Quella è la mia. Quando c’è stata la battaglia ero qui, ad aspettare che finisse tutto”. Non so bene che intenda con quel “finire”, lo prendo come viene.

Mi lascia per un paio di minuti, poi torna mostrandomi la paga della giornata di lavoro: un mazzetto di banconote da cinque grivne, in tutto saran forse due euro. Parliamo un altro po’ dell’Italia, mi nomina Michelangelo, Leonardo, Caravaggio, poi di nuovo Celentano e la Carrà: è una maledizione. Ci salutiamo con un abbraccio.

Tornando verso l’appartamento che abbiamo affittato per la notte, vediamo una lunga colonna di camion dai teloni bianchi, circa ottanta, apparentemente un convoglio umanitario. Vai a sapere cosa c’è davvero là dentro, però.

La mattina dopo, quando torniamo al press center per ritirare i nostri pass, incontriamo Andrea, un ragazzo di Lucca di due o tre anni più grande di me. Ci racconta del suo passato ultrà, della sua passione per la Russia, della militanza di destra e dell’antiamericanismo, di onore e tradizioni. Dice di esser venuto qui a combattere proprio per queste ragioni, che lo spingono a sopportare la fatica ed il freddo nelle trincee.

 

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Andiamo a far colazione insieme, chiacchierando della sua esperienza: “Quando sono arrivato sapevo a stento qualche parola di russo, ora dopo tre mesi inizio a cavarmela. Non voglio parlare Inglese, è la lingua dell’imperialismo occidentale”. A tratti mi confonde, non è esattamente quello che mi sarei aspettato di sentire,dopo aver studiato la sua pagina Facebook.

“Siamo in tanti a venire da posti diversi: ci sono Spagnoli, Francesi, Russi, Tatari, Ceceni. E impari che non c’entra da dove vieni o se sei di destra o sinistra, fascista o comunista, cristiano o musulmano. Siamo qui a combattere per gli stessi ideali, mangiamo dalla stessa gavetta, usiamo le stesse latrine. Ognuno salva la vita all’altro, il resto viene dopo.”, dice.

Mi strappa un sorriso, mi domando se sei mesi fa la pensasse alla stessa maniera, riguardo al dividere tutto con dei musulmani Ceceni. Davvero in guerra puoi vedere tutto il meglio ed il peggio dell’umanità, e mi ritrovo a dover mettere da parte alcune delle mie riserve, se Andrea crede in quel che mi sta dicendo.

Ancora qualche giorno e cercherà di andare in Russia per un turno di riposo, a vedere suo figlio. In Italia non può rientrare per via di questioni legali in sospeso, non lo lascerebbero ripartire.

Ci auguriamo buona fortuna con una stretta di mano, il cielo bianco e la basilica ortodossa alle nostre spalle. Credo che non ci saremmo stati per nulla simpatici, se ci fossimo conosciuti in Italia. Ma questo posto deve aver cambiato qualcosa dentro a questo ragazzo e, nonostante noi si abbia idee molto diverse su quasi tutto, non posso non riconoscere una certa coerenza nelle sue parole e nella decisione di venir qui a rischiare la pelle per quello in cui crede. Non è da tutti. Spero davvero che possa tornare a casa tutto intero.

La luce del sole disegna colori caldi tra le colline, mentre guidiamo verso Stakanov, roccaforte Cosacca, a ritirare i permessi che ci consentono di lavorare in quest’area, che è una sorta di terzo polo all’interno delle milizie indipendentiste del Donbass. Ci viene affidata una scorta armata per raggiungere la nostra destinazione finale: Pervomaisk, una cittadina di ottantacinquemila abitanti persa nella campagna gelata.

Giriamo per un paese fantasma, uno dei tre militari in nostra compagnia rimane sempre in disparte a controllare il perimetro e non dice una parola. Ha l’aria di chi sa fare il suo lavoro.

Nella piazza centrale del paese stanno allestendo un albero di Natale, si cerca di mantenere un parvenza di normalità in qualche modo, anche se di normale non c’è rimasto più nulla, qui.

Aspettiamo qualche minuto e arrivano auto cariche di aiuti umanitari, si forma presto un grosso assembramento di persone che cercano di recuperare viveri e medicinali, le cui scorte però terminano presto. La gente protesta con il sindaco della città, un uomo dagli occhi di ghiaccio, divisa militare e colbacco calcato in testa. Anche lui non sa bene cosa fare, è il primo ad essere arrabbiato per questa situazione terribile, ma da Lugansk purtroppo arriva quel che arriva e bisogna arrangiarsi come si può. Dovrebbero fare di più, ammette.

Lo spazio aperto, i muri dei palazzi attorno pieni di buchi causati dalle schegge, mi dan vagamente sui nervi. L’atmosfera è silenziosa, basterebbe un Grad all’improvviso per fare di tutti noi un grosso spezzatino. La gente però chiacchiera animatamente, sembra non pensarci. Immagino che ci abbiano fatto l’abitudine e cerchino di godersi uno dei rari momenti in comunità, dopo giorni d’inferno.

L’artiglieria ucraina ha martellato questo posto per settimane, tanto che ormai circa l’ottanta per cento degli edifici è danneggiato e solo ventimila persone ancora vivono in quel che ne è rimasto. Il gas e l’elettricità son tornati, ma manca l’acqua: i bombardamenti hanno ridotto l’acquedotto ad un ammasso di calcinacci e pezzi di metallo contorti. Veniamo condotti ad una scuola, dove apparentemente al momento vengono addestrati alcuni combattenti, ma il capitano non è nei paraggi e non riceviamo l’ok alla visita.

Mentre aspettiamo, fumando una sigaretta dopo l’altra, arriva un militare di pattuglia. Saluta con un abbraccio i ragazzi della nostra scorta, poi si dirige verso di noi. Con l’aiuto del fixer scambiamo qualche parola: “E’ vero che anche da voi ci sono delle persone che vorrebbero separarsi dall’Italia, per creare una repubblica indipendente? L’ho letto sui giornali, tempo fa.”

Gli spieghiamo che sì, c’è qualcuno che vorrebbe separarsi, ma che si tratta di una minoranza della popolazione e la situazione è molto diversa da qui. “Però lì il vostro governo non ha mandato l’esercito coi missili, vero?!”, ci chiede. No, niente esercito, niente proiettili o mortai. Non so bene cosa dire a questo ragazzo, che avrà cinque anni in meno di me ma deve averne viste più di quante io possa anche solo immaginare. Purtroppo son venuto da queste parti con più domande che risposte, armato solo della mia confusione, e dopo un po’ non so più che rispondere, se non “udachi”, buona fortuna.

La tappa successiva ci porta in mezzo ad un gruppo di palazzine, una è sventrata da un angolo, come una bocca spaccata da cui sian fuoriusciti pezzi di denti e cibo masticato. C’è di tutto: frammenti di muro, vestiti, scarpe, vinili, diari, fotografie. Ci vedi dentro la vita di chi ci abitava, rimasta sospesa come la porta al terzo piano, che probabilmente dava sulla camera da letto ed ora invece si apre sul vuoto.

Una signora si ferma a parlare con noi, di fronte ad un cratere nell’asfalto, e le chiedo come fa a sopportare tutto questo: “Un altro posto dove andare non ce l’ho, si cerca di fare una vita normale e quando iniziano a bombardare ci nascondiamo, sperando che vada tutto bene.”.

Negli ultimi tre giorni prima del cessate il fuoco su questo paese sono piovuti quotidianamente qualcosa come centosessanta colpi d’artiglieria, l’ultimo giusto dieci minuti prima della mezzanotte.

“Poroshenko dovrebbe provare a venire qui e vedere cosa significa vivere in queste condizioni. E anche Plotnitsky (il capo della Repubblica Popolare di Lugansk), se ne sta a casa sua, tutto tranquillo. Ho sentito dire che, nei mercati in città, si trovano in vendita merci che fanno parte degli aiuti umanitari. Come è possibile un cosa simile?!”.

Rientriamo al media center per i saluti, ma prima ci viene mostrato il poligono di tiro dove vengono addestrate le nuove reclute. Un ragazzo sui trenta, ex membro di un team SWAT della polizia, è l’addestratore. Spiega: “Il training dura solo una settimana, giusto il tempo di spiegare come funzionano le armi, perché servono sempre più soldati sul campo. L’esperienza ce la si fa lì…”, se duri abbastanza, penso io. Salutiamo tutti e imbocchiamo la strada del ritorno verso Lugansk, puntellata di impianti industriali giganteschi, memorie dell’Unione Sovietica.

Fa specie venire in questi posti, non sai mai come andrà a finire. Allo stesso tempo la guerra è un buon posto per dimenticarti di chi sei e di quello che vuoi, dei problemi a casa, per sentirti piccolo e stupido di fronte all’immensità di quello che succede qui. Ma come ogni medicina ha un pessimo sapore.

Di nuovo a Lugansk, di nuovo al media center. Salgo in macchina con Yuri, si va al comando centrale per un rapido briefing, prima di dirigerci ad un check point sul fronte. Ci mostrano quel che rimane di alcuni BM-27 Urugan e Grad, tutti razzi non guidati, caduti sulla città. Il funzionamento è semplice: ci sono delle batterie da 16 o 24 pezzi, e si sceglie un’area di azione entro la quale gli ordigni cascano in maniera casuale. E se le truppe son troppo vicine a zone civili, beh… in gergo si chiama collateral damage. Purtroppo questo tipo di armi vengono usate da entrambe le parti.

 

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L’ultimo posto di blocco, prima della zona sotto controllo Ucraino, è pieno di bunker e e scheletri di automobili, a ricordo di come funzionano le cose se arrivi al momento sbagliato. Non abbiamo molta voglia di stare qui: la situazione può cambiare rapidamente in questi posti e non ti ci vuoi trovare in mezzo, quando il cielo inizia a fischiare.

Facciamo rapidamente un’intervista al capo, come ultima domanda chiedo “C’è qualcosa che vorreste dire a Poroshenko o ai militari Ucraini?”. Mi risponde netto: “Non ti preoccupare, glielo diremo con le bombe.”. So che non sta scherzando. Accanto a lui un uomo sulla sessantina, AK corto appeso al collo e mimetica a foglie d’acero, anche quando sorride ha lo sguardo stanco di chi ne ha viste troppe. Appena spengo la fotocamera vedo comparire i SUV bianchi dell’OSCE, all’altro lato del ponte. Forse per oggi possiam stare tranquilli.

Visitiamo ancora Novosvietlovka, approfittando della giornata di sole. Non c’è molta gente in giro, quindi ci dedichiamo a scattare un teatro devastato, circondato da tank esplosi, ed una scuola. Da una finestra distrutta, dove anche dei teli di plastica ormai non rimangono che i brandelli, si vede uno scuolabus giallo nel cortile sul retro. I vetri e la carrozzeria sono crivellati di colpi di Kalashnikov e schegge di granata.

Yuri mi riporta al comando, e lungo il tragitto cerco di scavare un po’ nella sua vita privata, di conoscere l’uomo che si nasconde sotto alla mimetica scura. “Mi manca mio figlio sai?” dice mentre siamo fermi ad un semaforo, facendo il gesto di chi abbraccia una bambino, “Ormai sono più di tre mesi che non vedo la mia famiglia.”. Ma è quando gli chiedo se ha fratelli, che mi lascia di sasso: “Ne avevo uno, ma è morto.”

Morto qui, in guerra? “Sì.”, e dopo una lunga pausa continua: “Combatte dall’altro lato, e quindi…”. Mi spiega che quando entri in un esercito devi fare un giuramento. Non si giura due volte, non puoi rischiare di trovarti a combattere contro la tua gente, contro chi avevi promesso di proteggere: un uomo, una parola. E quindi suo fratello è morto, fine della storia.

 

 

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