La città delle contraddizioni

Padova è divisa tra due anime: quella delle politiche anti-immigrazione del sindaco, Massimo Bitonci, e quella silenziosa dell’accoglienza allo straniero

Padova, 8 gennaio, sono passate 24 ore dall’attentato che ha devastato la redazione di Charlie Hebdo. La città brulica tranquilla. Corso Milano scivola placido fino a piazza Garibaldi. Via Roma pullula di piumini firmati, da Palazzo Moroni, sede del municipio, campeggia lo striscione che rivuole indietro i suoi marò.

Da qui Massimo Bitonci, il sindaco leghista che governa il capoluogo euganeo dallo scorso giugno, lancia il suo appello ai musulmani presenti in città: che si pronuncino contro i fatti di Parigi o se ne vadano.

Come dire, ogni pretesto è buono purché si ricordi che qui di accoglienza e tolleranza non se ne parla e che non sono esattamente i benvenuti.
Allontanandosi dal centro, la morfologia della città cambia. Padova abbandona le vesti signorili delle piazze e si presenta più discreta, semplice, come dalle parti del Portello, zona universitaria, dove alle copisterie si alternano i kebab, o nei dintorni della stazione. Qui, in via Niccolò Tommaseo, c’è sempre una luce accesa nella casa dei diritti Don Gallo, spazio messo a disposizione di extra-comunitari e senza fissa dimora, dove altri striscioni reclamano il diritto alla libertà dei migranti, all’umanità, per tutti, nessuno escluso.

Padova è sempre di più una città dalle tante contraddizioni. Sotto le sembianze borghesi e i recenti sussulti leghisti, tutto un sottobosco umano è attivo, nel suo piccolo, nel sociale e in fermento per rivendicare uno spazio urbano più libero, i ragazzi un diritto al lavoro e alla vita che vada al di là del famigerato spritz e dell’apertura dei locali fino alle 2, concessione appena accordata dal magnanimo primo cittadino, che si è già guadagnato l’appellativo di “sindaco dei divieti”, in onore delle sue ultime prodezze. Un esempio, l’ordinanza emanata a Padova il 17 ottobre, e poi emulata in alcuni dei comuni vicini, intenzionata a fronteggiare l’emergenza ebola con il divieto di dimora nei centri di accoglienza per chi non avesse un certificato medico e obbligo di certificato medico per gli stranieri irregolari. L’ultima, invece, il divieto di restare aperti dalle 22 alle 7 per i distributori automatici di snack, possibile rifugio per “balordi e senzatetto”.
È in questa città che, lo scorso martedì, sul palcoscenico dorato del Teatro Verdi, principale polo culturale della città, con un pubblico di fedeli abbonati che si tramandano la poltrona da generazioni, sbarca Nella tempesta, un vecchio spettacolo della compagnia romagnola Motus, nato nel 2013, arrivato a Padova grazie al circuito off della stagione di prosa che da quattro anni invita in scena compagnie indipendenti.

La richiesta della compagnia è stata quella di portare una coperta, unico elemento scenografico, da donare poi alle associazioni attive sul territorio. Coperta come sinonimo di rifugio, come prima casa di un clandestino sbarcato a Lampedusa, come unico luogo dove sogni e utopie rimarranno sempre attuabili, sempre in potenza, possibili.

DRO-016

Nella tempesta è il frutto di una riflessione che nasce con Judith Malina e il Living Theatre. Sono proprio le parole di Malina a ribadire quanto le tempeste siano necessarie per ricominciare da zero, che non bisogna fuggirle ma scatenarle, provocare esplosioni. La tempesta come modalità di vita, come incursione improvvisa e inevitabile del mondo esterno. I Motus erano a New York quando l’uragano Sally ha spazzato via la città, proprio durante la preparazione dello spettacolo: la tempesta come interruzione della propria esistenza, il venire meno per cause di forza maggiore di ogni routine e impegno quotidiano e riflessione coatta sulla propria normalità.

Sul palco Ariel, Prospero e Calibano, proprio come nella tempesta di Shakespeare, ragionano sul potere e la libertà, in chiave post-coloniale e contemporanea, citando Aimé Césaire, Orwell e Huxley, ma attingendo anche dalle biografie personali di Silvia, Glen e degli altri attori in scena.

È un testo che contiene innumerevoli tumulti, personali e sociali. L’effetto non può fare a meno di riverberarsi sul pubblico, che segue la tempesta di Ariel e Calibano, accetta l’invito a chiudere gli occhi e a immaginare il proprio di vento cattivo e lasciarsi portare lontano, immaginando le tempeste altrui, quelle vere, che rovesciano i barconi nel Mar Mediterraneo, che inghiottono vite anonime, di cui non si riesce a pronunciare neanche il nome. Quelle tempeste che di romantico non hanno nulla, su un mare che non unisce, ma separa, “un mare in salita”. Nella tempesta nasce proprio da qui, dalle parole degli immigrati, che hanno cercato, a modo loro, interrogati dai Motus, di definire la propria tempesta, dai viaggi lunghissimi, che iniziano nell’Africa sub-sahariana, nel deserto, nelle prigioni libiche e partono con in mano una valigia e un sogno, che finisce confinato nel recinto di un CIE. O a Palazzo Salaam, a Roma, ultima tappa del viaggio di ricerca dei Motus, dove i richiedenti asilo vengono abbandonati a se stessi. O al freddo di una questura, in attesa di un riconoscimento, come è successo a Padova, dove 50 siriani, dopo un viaggio di 14 ore da Crotone, hanno aspettato al gelo 11 ore, lo scorso 9 dicembre, costretti a essere identificati, come riporta il sito di Melting Pot.

La tempesta qui è l’unica forma di resistenza, motore a cui affidarsi per rifondare un universo socio-politico di cui si è perso il controllo.
Gli stessi Ariel e Calibano, come nel testo di Shakespeare, sono i simboli del rifiuto del potere dall’alto, con Calibano e la sua rivolta fisica destinata al fallimento, e Ariel, dall’intuizione più intellettuale, che accetta il potere ma lo analizza, lo viviseziona e non può fare a meno di chiedersi chi tiene le fila del suo immaginario, chi lo ha colonizzato: “Where is the master?”. Dov’è il padrone?

Nella sua semplicità, forse anche troppo banale, questa domanda arriva al cuore stesso di Padova, in un periodo in cui ogni mattina, dalle ordinanze comunali, dai chioschi dei giornali e dalle colonne dei quotidiani locali, la popolazione legge com’è e come sta diventando la sua città.

Bitonci recapita i suoi messaggi ai cittadini, confezionando ogni giorno la propria versione di Padova, a misura solo e soltanto di padovano, senza intollerabili intrusioni dall’esterno. “Da domani si lavora per ripulire la città”, aveva dichiarato il giorno della sua vittoria e Bitonci sembra tenere fede alla promessa, con un inizio anno ricco di novità.
Dai primi di gennaio è attivo il fondo Bitonci, una sorta di colletta messa in piazza dal primo cittadino per raccogliere soldi destinati al rimpatrio degli immigrati comunitari. Ufficialmente si chiama “Fondo per il sostegno al rimpatrio”, una definizione quasi nobile per quella che appare invece come un’iniziativa surreale, un conto corrente rimpolpato dalla giunta e dai cittadini, con contributi volontari, che pagherebbe il biglietto di ritorno in patria a chi ne fa richiesta, in cambio dell’impegno morale a non tornare mai più in suolo padovano.

Da lunedì, dalle colonne del Mattino, giornale locale padovano, Bitonci annuncia che le graduatorie per le assegnazioni dei posti nelle case popolari e negli asili saranno riformate, con precedenza ai padovani, e che saranno tagliati i fondi a quelle associazioni multietniche e alle iniziative culturali il cui beneficio per i padovani non sia certo e provato.

È di mercoledì, invece, la notizia che due milioni di euro saranno stanziati per potenziare la videosorveglianza del capoluogo euganeo con una nuova rete di occhi elettronici, che si aggiungerà alle già annunciate pattuglie di vigili e ranger.
È come se Bitonci si alzasse ogni mattina con una nuova idea su come restituire Padova ai padovani e limitare ogni ingerenza altra, straniera, diversa. Tutto questo accade in una città dove almeno un padovano su tre è impegnato nel sociale, sono attivissime le comunità di accoglienza e sostegno agli stranieri, si dice che alcuni immigrati giungano a Lampedusa con gli indirizzi di alcune comunità padovane in tasca, una città che, Bitonci permettendo, resta la patria dello Sherwood, sinonimo per eccellenza di dialogo con l’altro ma che rischia di mutare lentamente, quasi senza accorgersene, nell’isola personale, fatta a immagine e somiglianza del suo primo cittadino, e di iniziare a pensarsi così, a volersi così.

“Tanti piccoli cambiamenti fanno una rivoluzione”, ripetono gli attori, ma a volte è necessaria una scossa per riappropriarsi della propria vita e del proprio spazio. Rifiutare un consenso acritico e tornare presenti a se stessi. Fermarsi a riflettere e interrogarsi, di tanto in tanto, se la direzione presa è quella davvero desiderata.

La tempesta dei Motus finisce con le coperte raccolte tra il pubblico, disposte sul palco a formare una scritta: “This island is mine”. Questa isola è mia. È Prospero che vuole avere l’ultima parola. Ma Glen, l’attore, ribalta la frase e ci aggiunge un punto di domanda. “Is this land mine?”: questa terra è mia? Da quando è possibile stabilire che un umano sia illegale sulla terra?
Impossibile lasciare il teatro senza un punto di domanda. Dove finisce la tempesta personale e dove inizia quella macro-sociale? Padova fuori è silenziosa e deserta. Sembra quasi che anche le sue strade s’interroghino sulla propria direzione. Pochi metri più in là, tutto torna tranquillo. Girato l’angolo di via Dante, s’intravedono le piazze, il centro storico che inizia a sbadigliare, i vicoli del ghetto, i locali aperti finalmente fino a tardi. Resta solo una strana inquietudine di fondo. Quasi la voglia di correre e di capovolgere tutto, per vedere cosa c’è sotto. Quasi come una tempesta.

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1

.



Lascia un commento