Donbass: la linea invisibile 4

Diario di viaggio dove finisce l’Europa, ma non inizia ancora la Russia, dove l’Ucraina si perde nel Donbass

Da queste parti capita spesso di incrociare dei cartelli pubblicitari del ministero del turismo.
Ritraggono campi coltivati, che si stendono, gialli di grano, a perdita d’occhio.
Sono del tutto simili a quello che ho d’innanzi ora, anche se questo è di girasoli ormai secchi, dato che nessuno li ha raccolti. L’altra differenza è che in mezzo a questo campo c’è un buco nero, lasciato da un colpo di mortaio o da un razzo piovuto da chissà dove.

E’ una perfetta cartolina di questa parte dell’Ucraina, ed è un’immagine molto più eloquente delle case bruciate e del carrarmato che si trovano alle mie spalle: racconta un pezzo di paese rimasto sospeso, di una quotidianità interrotta di colpo da una guerra senza senso.

Un po’ come il prato della Donbass Arena, mantenuto in condizioni perfette ma inutilizzato. Sui sedili della panchina ci puoi vedere un dito di polvere, il silenzio ed il freddo la fan da padroni.
Solo le miniere sembrano proseguire senza sosta con il ritmo abituale delle vite nascoste sottoterra, dove quasi ci si potrebbe dimenticare di cosa succede in superficie. Non fosse che anche lì sotto è un inferno.

Alcuni dei lavoratori riemergono solo per poi ridiscendere nei rifugi antibomba dell’era sovietica, in cui ora alloggiano le loro famiglie: sono tappezzati di immagini di jet e tank e soldati, di istruzioni su come comportarsi in caso di un attacco nucleare. Non esattamente la più rassicurante delle dimore, ma sempre meglio che al gelo o faccia a faccia con i Grad.

Lo stadio della città, di proprietà dell’oligarca Akhmetov, è inutilizzato da tempo: sulle poltrone della panchina si è depositato uno spesso strato di polvere, ma l’erba è mantenuta in condizioni perfette. “Un giorno lo Shaktar tornerà a giocare qui, a casa.” mi dice la nostra guida.
Non so resistere alla tentazione di domandargli quale campionato giocheranno: Ucraino o della Novorossiya? Nel secondo caso non credo ci saran molte squadre di livello con cui scontrarsi.
Mi guarda per qualche secondo “Difficile dirlo, ora. Io sono un uomo di sport, non un militare, spero solo che la pace arrivi presto”.

Il giro prosegue nei parcheggi dello stadio, ora adibiti a deposito per gli aiuti umanitari che Akhmetov invia qui: nei sacchi gialli quelli da ritirare alla biglietteria, per la popolazione locale, nei sacchi bianchi quelli da carica sui camion, in soccorso ai paesi limitrofi.

Dicembre volge al termine mentre tutto scorre più o meno liscio a Donetsk, a parte i soliti ma per fortuna rari colpi di mortaio che si sentono esplodere distanti.
Lascio il Donbass per Natale, mentre inizio a farmi un’idea su questa guerra che sul terreno sembra molto diversa da come appare sulle pagine dei giornali sia russi che occidentali. Da casa sembra tutto così netto, chiaro, definito, e ognuno si fa la propria idea.

Qui invece è difficile separare le persone tra terroristi e fascisti, buoni e cattivi. Sono macro categorie inutili quando hai a che fare con una serie di opinioni sfaccettate, quando arrivi a toccare con mano l’umanità dei singoli. E al tempo stesso tutto sembra una grossa farsa in cui nessuno ha ragione, se non i civili che vorrebbero una vita normale.

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Sulla strada del rientro rimango bloccato cinque ore ad un check point dei ribelli, controllato dal famoso (o famigerato, a seconda di chi parla) Battaglione Vostok: la strada è stata riaperta da poco ed i ragazzi non conoscono gli accrediti. Aspettiamo al freddo, bevendo del cognac di pessima qualità, chiacchierando.

Guardando il mio passaporto uno dei ragazzi dice “La vogliamo anche noi, la nostra repubblica.”.
“E poi, una volta che la guerra sarà finita, che farai?” chiedo io.
“Torno dalla mia ragazza, metto su famiglia e ricomincio a fare il meccanico.”
Rimaniamo ad aspettare così per un’eternità, ad un passo dalla terra di nessuno, solo per un rapido controllo della durata di tre minuti. Partiamo giusto in tempo per sentire un razzo passare troppo vicino, e per perdere il treno.

Italia, Natale, Capodanno. Prima di rendermene conto è già ora di ripartire.

In un edificio ministeriale di Kiev mi consegnano il sesto press pass, sembra di far la raccolta delle figurine. Ce l’ho, non ce l’ho.
Yaro racconta l’Ucraina con la prospettiva di uno studente universitario di storia, davanti alla quarta birra. Io gli spiego quel che ho visto in Donbass, lui in cambio mi erudisce sui sentimenti contrastanti che serpeggiano in questo lato del paese. Già a ottocento chilometri la guerra pare una cosa aerea, rarefatta. Puoi averne una visione tutta tua, da qui, modellandola sulla propaganda o sulle teorie di complotto, potrebbe essere tutto verissimo, come no.

In qualche modo l’impressione è che il supporto per le operazioni militari vada pian piano scemando anche qui, nonostante sian ancora in tanti a comprare materiale tecnico per le truppe ATO , o a far visita a Maidan per lasciare un fiore.

In un pomeriggio freddo e grigio passo davanti al momento dell’amicizia tra Ucraina e Russia: ci son ancora molti turisti in giro, ma la cosa che si nota di più é la scritta Slava Ucraini (Gloria all’Ucraina) in giallo e azzurro, sul piedistallo della statua.

Ore di treno, ore di silenzio, ore di macchina tra la neve ed i soliti check points, di nuovo.
Dnipropetrovsk, Kurakhove, Marinka. Nomi fino ad un mese fa sconosciuti, che iniziano ad essere familiari. Arrivare al momento giusto per la ripresa delle ostilità non è affatto un piacere, anche se ci sono stati giorni in cui l’ho pensata diversamente.
Il ritorno non è mai come la prima volta: le vibrazioni che sento sono pessime.
Le esplosioni si sentono a cadenza costante, non si fermano né di notte né di giorno.

Ma le persone ormai sembrano non accorgersene nemmeno più: un ordigno cade a meno di un chilometro e le babushke camminano per strada con le borse della spesa, come se nulla fosse.
Cerco di non pensarci nemmeno io, mentre intervisto i dottori di un’ospedale psichiatrico a Petrovsky. Ma non è proprio semplice, con la frontline a due passi ed i razzi che cascano comunque e sempre troppo vicino, con le finestre rimaste che ronzano per le vibrazioni.

“Il primo dicembre qui siamo stati colpiti da una decina di Grad”, mi dice il dottor Valdimir Ivanovich, “Pensa: erano pochi giorni da che la sonda era atterrata sulla cometa. Abbiamo mandato un oggetto a spasso nello spazio per dieci anni, siamo riusciti a farlo atterrare su un pezzo di roccia sparato a decine di migliaia di chilometri orari nel nulla, un momento storico per l’umanità. E qui intanto tremava tutto, le finestre esplodevano. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, non credi?”. Mi regala un pezzo di metallo proveniente dalla testa di un Grad, un piccolo souvenir per non dimenticare questo posto.

Continuo a tornare all’ospedale, vengo addirittura invitato a casa del Dott. Ivanovich per la cena del Natale Ortodosso.
E’ appassionato di fotografia e del volo in deltaplano, anche se non sa bene quando potrà riprendere a volare però, date le attuali condizioni. Per le foto invece di materiale ne ha a sufficienza.
Non gli mancava nemmeno prima: mi mostra immagini estive della clinica, il parco in fiore, i muri e le finestre ancora intatti, i pazienti. Alcuni li riconosco, anche se non sembrano le persone che ho visto in reparto. Saran stati il tempo, la malattia o la guerra, a cambiare così quei visi?
Forse l’insieme delle cose.

“Durante i tempi dell’Unione Sovietica le cose erano molto diverse qui, avevamo così tanti soldi per le cure ed i medicinali che non riuscivamo a spenderli tutti. Ora invece manca il pane, manca il riscaldamento, mancano i principi attivi. Ci sono farmaci all’avanguardia, in occidente, e qui non sono disponibili ora, e anche se ci fossero non credo avremmo i fondi per approvvigionarci. Siamo costretti ad usare quel che si trova.”. Mostra un elenco lunghissimo di cose che servirebbero, ed uno composto di poche parole, massimo una decina, che è quello dei medicinali disponibili. I nomi di molti di questi principi attivi si capiscono anche in russo: acido acetilsalicilico, ibuprofene, paracetamolo.

Spero ardentemente che abbiano anche qualcosa di più forte per trattare i disturbi dei pazienti: nel pomeriggio stavo accanto ad alcuni di loro che con un’ascia spaccavano pezzi di legna, provenienti dagli alberi abbattuti nel bombardamento, per alimentare la stufa che riscalda uno dei piani, visto che la caldaia è rotta. Sapendo che qui ci sono aspirine e poco altro, forse non mi ci sarei avvicinato tanto.
Vladimir mi spiega la sua visione delle cose, di come l’occidente sia la terra delle cose, di come da questa parte del pianeta ci fosse un posto dove contavano di più le persone.
E’ evidentemente un nostalgico dell’URSS.

E’ difficile dire se abbia ragione o meno, molti non se la passavano così bene a quei tempi e vien da pensare che il dottore stia idealizzando un po’ il passato. Questione di opinioni, come per qualsiasi altra cosa, e anche se non mi convince non posso non rispettare il suo punto di vista.

Il giorno della partenza, dodici di gennaio, passiamo a salutarlo prima che inizi a lavorare: un abbraccio, un fazzoletto che sventola mentre la nostra macchina si allontana.
Cerchiamo di uscire dalla città, diretti verso Dnipro, ma la strada è chiusa per combattimenti.
Uno dei soldati al check point ci dice “Se volete potete aspettare qui, ma non so quanto potrebbe durare.”. La sola idea sembra totalmente folle: fermi ad un posto di blocco nel mezzo della piana gelata, è il posto migliore per attendere con pazienza bovina che un colpo di mortaio ti trasformi in una macchina rossa sulla neve.

La strada per Kostantinovka, che passa vicino all’aeroporto, sarà messa anche peggio.
Scegliamo di andare verso Mariupol, a sud, e per fortuna il tragitto scorre senza intoppi di sorta.
Aspetto la partenza del pullman per Kiev in un ristorante italiano, cinque ore di Toto Cotugno, Tiziano Ferro, Gigi D’Alessio. Il suono delle bombe non sembra più così terribile.

Sul bus siedo accanto a Sergiy, un ragazzo di ventotto anni con un bomber dello Shaktar, la squadra di Donetsk. Va a Kharkiv, al funerale di sua nonna.
Durante le dieci ore che passiamo insieme mi racconta degli anni trascorsi nell’esercito, tra le truppe aviotrasportate, e del suo punto di vista sulla situazione attuale.

“Io mi sento Ucraino, ma non posso lasciare casa mia: ho aperto un’attività, quando ho lasciato i paracadutisti, ho lì la mia famiglia. E certo, ho paura dei bombardamenti, ma se ce ne andiamo tutti chi rimarrà a Donetsk? Solo i ribelli, ché la metà sono ex criminali che hanno imbracciato i fucili per dettar legge e rubare le macchine dai concessionari. No, la mia città ha bisogno di gente con la testa sulle spalle, io rimango”. Storia già sentita, ma è la prima volta che la sento raccontare così apertamente. Sarà che siam dall’altro lato del fronte e certe cose si possono dire più liberamente.
Quando scende passo il resto del viaggio pensando alle cose che ho visto e sentito, a cercare un filo logico, una parte da cui stare. Non concludo nulla.

Poco dopo essere arrivato in ostello, mentre fumo e mi godo il silenzio, mi imbatto in Andriy. E’ un uomo sulla quarantina, proveniente da Mosca, e ha lasciato il suo business di oggettistica regalo per aziende perché non sopportava più di aver a che fare con grandi industriali vicini a Putin. “Una banda di ladri senza ritegno”, li definisce.

Ora lavora tutti i giorni vicino ad Andriyvsky Uziviz, nel cuore turistico della città, come volontario presso un centro per rifugiati (tecnicamente IDPs, Internally Displaced Persons) provenienti dal Donbass. Anche questa associazione riceve fondi da Akhmetov, imprenditore nell’industria mineraria, patron dello Shaktar e uomo più ricco di tutta l’Ucraina.

Andriy mi mostra la struttura, organizzata in maniera perfetta, che fornisce pasti e aiuti ai profughi per i primi quarantacinque giorni dal loro arrivo a Kiev. Ci sono abiti e scarpe, divisi per taglia, coperte, utensileria per la casa, giocattoli, una cucina, addirittura una clinica mobile dentro al rimorchio di un camion.

Dopo circa un’ora mi saluta, qui c’è sempre qualcosa da fare.
Mentre pranzo in un ristorante le news mi informano che un bus è stato colpito da un razzo, sulla stessa strada tra Donetsk e Mariupol che abbiamo percorso ieri. Dodici morti.
Non so bene cosa pensare, lascio i “what if” a chi ha tempo, ho imparato che essere vivo è l’unica cosa che conta, e quello che sarebbe potuto succedere è solo materiale da PTSD.
Meglio non pensare e basta.

Arriva anche il giorno del rientro a casa, per una volta sono stanco e ho davvero voglia di tornare.
Ma andarsene è sempre la solita storia: il pensiero corre agli amici rimasti indietro, alla gente che hai anche solo incrociato per pochi minuti, il tempo di una sigaretta.
Le persone più vicine ti han lasciato dei recapiti, le comunicazioni sono continue, spesso con tanto di foto. Leggere le news non serve nemmeno più, le notizie arrivano ancor prima che le agenzie abbiano il tempo di batterle.

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Gli altri, la gente con cui hai scambiato due parole, chissà. Ti chiedi quanti, tra quelli con cui sei venuto in contatto, ci hanno lasciato le penne, perso la casa o altro. Speri nessuno, ma col passare dei giorni e l’intensificarsi degli attacchi è difficile crederci.
Mi domando fino a quanto dovrà contare questa gente prima di poter tornare a casa e ricostruire quello che il conflitto ha lasciato in pezzi.

Mentre guardo lo schermo di casa e in sottofondo le news parlano di altri razzi, altri morti, altra follia, mi domando quante siano le cose che non ho compreso. Ero partito con soltanto la mia confusione a farmi compagnia, le cose non sono cambiate granchè: non so bene come condensare le cose che ho visto, per spiegarle alla gente a casa.
Sempre che ci sia qualcuno disposto ad ascoltare anziché dirmi la propria.

Potrei dire che la guerra è brutta, ma in teoria dovrebbero già saperlo tutti. Questa forse è particolarmente sporca, ma guardando al passato sotto alla lente di quello che ho imparato qui è difficile non pensare che anche quelle venute prima non sian da meno. Il fatto di non esserci stato, nelle altre, probabilmente mi ha reso facile avere l’impressione che ci fosse una parte nel giusto e una no. Magari anche qui c’è davvero qualcuno che ha ragione, e sono solo io a non capirlo.

L’unica cosa di cui son quasi certo è che la retorica per cui si può fermare la violenza con altra violenza mi sa di mega stronzata. Non capisco bene come qualcuno possa pensare che lanciare delle bombe possa portare ad un esito diverso dal lanciarne altre e poi altre ancora: Afghanistan, Iraq, Libia. Dovremmo aver imparato, ormai.

Anche lì nel Donbass, sia da un lato che dall’altro della linea invisibile del fronte, la gente non ti sa dire bene chi sia stato iniziare, chi il primo a sparare. Forse perchè non conta.
Però, dopo mesi di guerra, le acredini basate sulle differenze si sono trasformate nell’odio verso chi ti ha ammazzato i genitori o i figli o il fratello o gli amici. Se prima non c’era una ragione valida per farsi la guerra ora molti ne hanno una per portarla avanti.
E se non è una tragedia questa, non saprei come chiamarla.

 

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