So Contemporary / Vito acconci: diario di un corpo

Secono appuntamento con la nuova rubrica di Q Code Magazine, per gustare l’arte come se fosse un piatto di pasta

Davanti a un’opera d’arte capita a tutti, prima o poi, di pensare: «Potevo farlo anch’io».
Che lo ammettiate oppure no. È capitato anche a me, a tredici anni: tutti i giorni, lezione dopo lezione, andavo in cattedra con il libro di storia dell’arte del Novecento, arrabbiata, a chiedere spiegazioni al mio professore del ginnasio. La domanda, ogni volta, tuonava così:
«Perché? Dov’è l’arte?». Oggi so che una risposta giusta non c’è. Esistono, però, tante piccole e grandi storie da raccontare, storie di persone (artisti, galleristi, amatori), di cose (d’arte) e di idee (della vita e del mondo). Perchè l’arte è sempre (stata) contemporanea, perché l’arte è flagranza, perché l’arte è qui, adesso, e ci guarda.

New York, ottobre 1969 – Un artista, ogni giorno, attraversa a piedi le strade della città, sceglie a caso una persona – oggi un uomo in giacca di pelle, domani una ragazza in cappotto arancione – e la segue ovunque vada, il più a lungo possibile. Il pedinamento può consumarsi in una manciata di minuti, quando, ad esempio, il viandante salga all’improvviso su una macchina; può durare ore qualora la sconosciuta entri in un ristorante. Following Piece termina nell’istante in cui la “preda” sgattaiola dentro un luogo privato (la sua casa, il suo ufficio), dove Vito Acconci non può accedere. A questo punto il voyeurismo della performance è “game over”: l’artista inscena il rito di una relazione fittizia con un estraneo, fruga nella sua intimità per depistare se stesso, si ciba della quotidianità di un altro come un parassita.

dattiloscritto

Non è l’intercettazione di un reato di stalking né la sceneggiatura di un film noir. È il reportage dell’arte vissuta fuori dal perimetro della cornice: l’arte che, rovesciando le tradizionali dinamiche di contemplazione passiva, si fa corpo, ci osserva sottecchi e si mischia con la vita.

Nato nel 1940 e cresciuto nel Bronx, Vito Acconci non sceglie l’artificialità dei riflettori di un museo, per le sue performance va in strada alla luce del giorno. Why don’t we do it in the road, cantavano i Beatles in quegli anni. «Potrebbe essere stato il mio nome a condurmi alla performance, io dovevo gettarmi fra le braccia della gente. Il mio nome suscita familiarità. […] Fui chiamato Vito dal nome di mio nonno che, in quel momento, era sul punto di morire. Egli non morì e, peraltro, il suo nome era Carmine. Per qualche ragione – a me sconosciuta – veniva chiamato Vito. Il mio nome dunque è basato su una consuetudine, una convenzione, non ha una storia. Da bambino odiavo le mie origini italiane; desideravo essere un americano. Più tardi – ai balli della scuola, per esempio – detestavo presentarmi, era come se nessuno riuscisse a comprendermi. Ero costretto a scandire ogni lettera del mio nome: No, non Peter. V–I–T–O».

È a proposito delle azioni di Acconci che, nei caffè di New York, si comincia a parlare di Body Art. Mentre i giovani delle contestazioni studentesche occupano le università americane indossando t-shirt e jeans stretti, gli artisti si servono del corpo come il più viscerale dei mezzi di espressione, come strumento di militanza politica, come linguaggio: un corpo vivo che respira, esplora se stesso, geme e rivendica.

Vito Acconci, Following Piece. Street Works IV. 3–25 Ottobre 1969. New York. Fotografie di Betsy Jackson

Le Neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta sabotano il crescente processo di mercificazione del sistema dell’arte, sempre più viziato dall’ingordigia del consumismo e dai feticismi della borghesia: agli artisti non diverte più l’immortalità della materia e fuggono via dai luoghi tradizionalmente consacrati all’arte (musei e gallerie). L’opera allora avviene in spazi aperti, desertici e dispersi (Land Art), diviene idea ed esercizio della mente (Arte Concettuale), si smaterializza realizzandosi come evento unico e irripetibile sul o con il corpo dell’artista.
 

 

Un repertorio di sussurri, mugolii e rumori del corpo di sorprendente espressività prelinguistica, odori e sapori estemporanei, mnemonici; è il riscatto di sensi atrofizzati e addomesticati, è l’immersione dei liquidi corporali negli umori.

Sono cinici cerimoniali di perlustrazione di un corpo quelli di Vito Acconci: gesti semplici esperiti fino al limite estremo della resistenza fisica e della tensione delle relazioni.

Dopo “l’entrare in se stesso”, attraverso performance come Hand & Mouth (1970) in cui spinge la mano dentro la sua bocca in profondità fino quasi a soffocare, l’artista pretende di “entrare negli altri”, esplorando la dualità fra se stesso e un amico, una donna o un estraneo in un continuo drammatizzare isterico: tra licenza e divieto, tra istinti di vita e pulsioni di morte, tra piacere masochistico e fantasie sadiche.

Alla contemplazione, la performance sostituisce l’azione; invece della rappresentazione, la performance sceglie la vita; in una società della mente, la performance introduce la carne. Dimenandosi in un mondo saturo di oggetti e cose, la performance di Vito Acconci è come un toro in un negozio di porcellane.

 

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