Sud America coast to coast/3

Il viaggio prosegue in Paraguay, con fermate ad Areguà e San Bernardino, sulle rive del lago Ypacaraí

Quando arriviamo ad Areguá abbiamo praticamente già tagliato longitudinalmente il piccolo Paraguay, attraversando boschi, villaggi di campagna e campi di soia. Areguá è un cittadina di origine coloniale, in riva al lago, che si trova a una trentina di chilometri dalla capitale Asunción e ha un’atmosfera completamente diversa da quella della città: qui la sera il rumore più forte è quello delle cicale.

All’arrivo troviamo ad accoglierci Fabian e Carmina, dell’Ong Good Neighbors Paraguay, che organizza corsi di lingua ai bimbi. Quindi, andiamo a intervistare i vigili del fuoco che qui, come in tutto il Paraguay, sono dei volontari. Sembra che lo stato non possa permettersi di pagare loro uno stipendio.

«C’arrangiamo, ma il problema principale restano gli investimenti necessari per i camion d’intervento, le caserme e i corsi di formazione» ci racconta Elvio, il responsabile della squadra di volontari di Areguá, all’ombra di un albero di mango.

A pochi passi c’è la stazione dei treni, oggi chiusa: è un bel edificio con gli intonaci gialli e marroni che adesso ospita alcune famiglie. Il piazzale esterno, ricoperto d’erba, negli anni è stato occupato da polli ruspanti e piccoli orti. Dalla stazione dei treni dismessa una strada di ciottolato porta verso il lago.

Le viuzze del centro sono tappezzate di bancarelle di legno. Vendono ceramiche e terracotte che rappresentano i soggetti più disparati: da Gesù Cristo, Giuseppe e Maria, il bue e l’asinello e l’arcangelo Gabriele per il presepe per passare a Pikaciù, l’uomo ragno, maiali con addosso le maglie delle principali squadre di calcio paraguaiane, Shrek, i Simpson, piccoli alieni con un occhio solo e la pelle gialla, c’è addirittura qualche Puffo. La notte le ceramiche vengono lasciate sul posto, protette una da rete metallica: chiunque volesse, potrebbe rubarle.

Foto di Samuel Bregolin

Foto di Samuel Bregolin

Il centro di Areguá ha la caratteristica conformazione urbanistica del periodo della colonizzazione spagnola. Abitato fin da tempi immemorabili dagli indigeni Guaraní, entra nella storia ufficiale solo nel 1538 col l’arrivo di una comunità di francescani. Da lì a poco viene costruita la chiesa bianca attorno alla quale orbita il centro storico. Le tipiche abitazioni coloniali, con i colonnati e i cortili interni con gli alberi di agrumi e mango risalgono però a un periodo successivo, all’inizio del 19esimo secolo, quando questo tipo di architettura cominciò ad andare di moda.

Nei decenni successivi, grazie soprattutto al lago e alla tranquillità, Areguá diventa la destinazione balneare di intellettuali, scrittori e artisti. Il declino della città segue quello delle acque del lago.

Per decenni, i macelli e le fabbriche locali hanno continuato a riversare impunemente sangue e scarti industriali nel Rio Salado, l’unico immissario del lago Ipacaraí. La conseguenza è stata la proliferazione di un’alga puzzolente e tossica che oggi rende le acque del bacino verdastre e fortemente sconsigliato farci il bagno. Purtroppo d’estate la gente del posto non resiste alla calura e a tuffarsi sono soprattutto i bambini. Nel frattempo, venuta meno l’attrazione del lago, sono scomparsi gli intellettuali gli scrittori e gli artisti.

La sera con Fabian e Carmina usciamo con le sedie sotto braccio e andiamo al parco della chiesa. Tutti portano le sedie da casa, insieme a il secchio con il ghiaccio, le lattine di birra e l’immancabile thermos d’acqua fredda per il tereré, l’equivalente ghiacciato del mate. Tutti passano la serata qui, a prendere il fresco che sale dal lago o ad osservare le piccole giostre che già funzionano aspettando la festa parrocchiale della settimana prossima.

Nel piazzale della chiesa invece si ritrovano i ragazzi più giovani e gli adolescenti: arrivano sgasando sulle loro motorette oppure con grandi fuoristrada con la musica a tutto volume. Le ragazze passeggiano decidendo a chi concedersi per la serata. Il principio è che più grande è la macchina più si hanno probabilità di attirare l’attenzione. Alle due di notte la polizia esce dalla centrale e fa rientrare tutti a casa.

Da queste parti lo spagnolo non è la lingua la più parlata, qui per le discussioni quotidiane si utilizza la seconda lingua ufficiale del paese: il guaranì.

I Guaranì sono la popolazione originaria del Paraguay, che ancora oggi rappresenta la stragrande maggioranza della popolazione. Non è raro vedere giovani seduti sulle loro motorette a bordo strada che si rivolgono alle ragazze in guaranì, così come le discussioni in autobus, al mercato o al bar sono spesso in un idioma misto tra guaranì e spagnolo. Fabian ci dà la nostra prima lezione di guaranì: è una lingua secca, gutturale, con poche vocali e suoni nasali che fatico a riprodurre, mi ricorda moltissimo una qualche lingua asiatica. Esistono perfino pagine Facebook e Wikipedia in guaranì, cosa che per la gente del posto rappresenta un riconoscimento da parte del resto del mondo.

Grazie all’aiuto di Fabian inizio ad approfondire meglio i problemi del paese. Il 26 marzo 2014 si è svolta ad Asunción l’ultima manifestazione campesina, hanno partecipato circa 30.000 persone, «Sembrano poche» dice Fabian, «ma se la manifestazione non è stata autorizzata dalla questura la tensione può salire velocemente. Le manifestazioni si svolgono nella capitale per cercare un ascolto che manca in provincia e in campagna. Le differenti comunità portano con sé frutta, verdura, carne e pane, vengono cucinate zuppe in grandi pentole sul fuoco, c’è un clima di festa. Quando il corteo comincia però le cose cambiano».

Fabian solleva il pantalone sul polpaccio per mostrarci una cicatrice: «questa è una ferita di qualche tempo fa, è sempre più comune che la polizia spari sulla folla con proiettili di gomma, non hanno la forza di procurare ferite profonde però fanno perdere molto sangue». Al centro delle contese c’è la riforma agraria, da sempre promessa e mai realizzata dalla politica.

Il problema principale sono i sojeros brasiliani: i grandi coltivatori di soia che qui in Paraguay non pagano le tasse, questo perché molti politici sono o sono stati a loro volta sojeros.

Il problema è tale che l’Itapua e l’Alto Paranà sono ormai soprannominate il paradiso di Monsanto. Si tratta di due regioni a totale monocultura di soia, solo sementi transgeniche, che vengono trattate dal cielo con l’uso di pesticidi spruzzati dagli aerei. Al danno economico dovuto al monopolio della soia si aggiungono quello ecologico, per l’infiltrazione dei prodotti chimici nelle falde acquifere, e quello alla salute, per l’insorgenza di tumori e deformazioni alla nascita.

Il Paraguay importa il 70 per cento del cibo che consuma eppure la popolazione, escluse le metropoli di Asunción ed Encarnacion, è praticamente tutta contadina. L’85 per cento delle terre coltivabili sono di proprietà del 2 per cento della popolazione: i ricchi proprietari terrieri che affittano ai brasiliani. Il Paraguay è il settimo produttore mondiale di soia, eppure questa viene tutta fagocitata dagli ingranaggi della grande economia brasiliana.

Per distrarci decidiamo di andare al lago, ma anche lì le difficoltà ci raggiungono. Pur essendo uno spazio pubblico per raggiungere la spiaggia bisogna pagare una cifra, per noi irrisoria, di 10.000 guaranì (circa due euro). Vicino al pontile troviamo il vecchio Marciel che sta amaramente seduto sulla sua barca, parla solo guaranì e Fabian ci traduce quello che dice: «Da quando l’entrata è diventata a pagamento più nessuno può permettersi il lusso di fare un giro sulla mia barca».

Questo lago mi attira sempre di più, decidiamo di andare a San Bernardino, la località che negli ultimi dieci anni ha rimpiazzato Areguá come destinazione turistica locale.

Andiamo in autostop, con noi viene anche la giovane Sofia: quasi non abbiamo il tempo di uscire il pollice che si ferma un vecchissimo camion blu, dopo di che, con la stessa velocità, un militare in libera uscita ci fa fare gli ultimi chilometri.

Qui a San Bernardino la spiaggia è ad accesso gratuito, eppure siamo i soli ad approfittare del panorama, nel mezzo di quella che sembra una cittadina fantasma. Sul lago un gruppo di moto d’acqua traina divani gonfiabili per i bambini. La strada pedonale del centro è a firma di un unico sponsor: Cola cola. Non manca proprio nulla: i lampioncini neri, le panchine, i posti per le bici, gli attrezzi per fare sport nel parco, con l’inconfondibile silhouette del famoso marchio onnipresente. Anche qui però non c’è nessuno, sembra che la gente arrivi solo nel fine settimana.

Foto di Samuel Bregolin

Foto di Samuel Bregolin

Quando andiamo a sederci in spiaggia Sofia, 22 anni, studentessa di agraria, ci aiuta a scoprire un altro tassello di questo Paese. Con l’università ha visitato Filadelfia, la capitale della comunità Memmonita nel nord del Paraguay. I Memmoniti sono immigrati tedeschi, che fin dall’inizio del 1900 si sono installati nelle regioni aride del Chaco. Non usano automobili, non amano la tecnologia, riparano i propri abiti e si sposano solo tra di loro. «Siamo andati in un loro » ci racconta Sofia. «Lì incrociano razze di vacche olandesi, che producono molto latte, con altre africane, che resistono bene al caldo. Riescono a produrre latte e formaggio di buona qualità che rivendono nei mercati della capitale».

Torniamo ad Areguá e con Fabian andiamo in cima al Cerro Koy, non è molto lontano ma per salire la collina preferiamo usare un autobus, uno di quelli pieni di colori, con le tendine interne di lana e l’autista che beve perennemente il tereré.

Il Cerro Koy è un patrimonio naturale, così come ricorda la grande scritta all’ingresso del bosco.

Le caratteristiche formazioni rocciose che si trovano qui sono presenti solo in altri due paesi del mondo. “In Canada e in Sudafrica” ci spiega il guardiano che, le mani dietro alla schiena come se fosse a scuola, ripete la lezione di geologia imparata a memoria.

Infine, nel nostro ultimo giorno di permanenza a Areguá, incrociamo quella stagione delle piogge che abbiamo fino ad ora solo temuto: grossi nuvoloni neri carichi di fulmini si avvicinano veloci. Comincia a piovere, d’improvviso siamo nel mezzo dell’acquazzone, i tetti spruzzano acqua, i rigagnoli ricoprono velocemente asfalto e giardini: le strade di ciottolato diventano dei veri e propri ruscelli di acqua e fango.

Gli autobus continuano a circolare con le ruote immerse nell’acqua: sembra un’alluvione! Mezz’ora dopo invece finisce tutto, torna il sole cocente che prima di sera avrà asciugato la città, con i riflessi argentei sulle pozzanghere che mi accecano la vista.

 

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