Il giorno del ricordo, una nota a margine

Da quando fu istituito nel 2004, il Giorno del ricordo, dedicato alle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, è stata una presenza pesante nel pantheon delle celebrazioni storiche italiane.

Pesante, soprattutto perché dalla sua approvazione a larghissima unanimità, in un’atmosfera di forte revisionismo, si staglia di fronte al Giorno della memoria dedicato alle vittime dell’Olocausto, a indicare una implicita comparazione. Ma pesante soprattutto perché viene continuamente accompagnato da un riferimento alla congiura del silenzio che avrebbe fatto scendere un alone sulle tetre cavità carsiche. Un silenzio che, come messo in luce di recente da Gorazd Bajc (http://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Le-foibe-nella-rappresentazione-pubblica-158888), non fu sempre totale: anche la stampa nazionale ne parlò a poca distanza dai fatti, e soprattutto il tema non smise mai di essere caldo a livello locale.

Ma il problema principale riguarda l’assolutizzazione che è stata fatta nell’ultimo ventennio della questione del confine orientale proprio attraverso il Giorno della Memoria che la ha eletta a tragedia nazionale. Quindi, di conseguenza, non se ne parla abbastanza, quanto meriterebbe un “olocausto del popolo italiano”. E proprio questa assolutizzazione fa sì che i numeri nella narrazione mainstream lievitino e siano sempre inseparabili da dettagli orrorifici. Un esempio dal “Corriere della Sera”, 10 febbraio 2015, didascalia della fotogallery – il cui contenuto si può immaginare: “Nel 1945 oltre 10 mila persone furono gettate vive nelle foibe, le cavità carsiche ai confini orientali, o uccise dopo processi sommari dai comunisti di Tito. Le immagini della barbarie”. Lasciando da parte la contabilità dei morti, secondo molte fonti lontana dalla realtà, lasciando da parte il fatto che le vittime siano state gettate vive – alcune di loro lo saranno anche state ma di sicuro non la totalità degli scomparsi –, e poi l’accento sulle barbarie. Slavo = barbaro. Italiano = vittima.

A sparire totalmente in questo discorso è il contesto storico. Una guerra devastante che volgeva alla fine nella quale l’Italia aveva invaso un paese sovrano, la Jugoslavia, dove si era macchiata di alcuni tra i più efferati crimini di guerra della storia militare italiana.

Per difendere alcuni dei suoi criminali, richiesti dai paesi vittime dell’invasione, il nostro paese rinunciò a perseguire i tedeschi che si erano macchiati di crimini di guerra sui suoi cittadini, i cui materiali finirono nel cosiddetto armadio della vergogna. Ovviamente tutto ciò chiaramente non giustifica le esecuzioni sommarie, ma aiuta a inserire la vicenda in un contesto di lungo periodo in cui i silenzi e le reticenze furono molti e dipendevano dalla convenienza del momento.

Poi dopo le foibe si menziona in genere come in una concatenazione automatica l’esodo, nascosto dietro un nome biblico, del quale la narrazione nazionale nostrana continua a parlare in termini di espulsione della componente italiana, perdendo di vista la complessità che caratterizzò le vicende dell’Alto Adriatico.

Nel maggio del 1945 si espellevano le minoranze tedesche da tutta l’Europa orientale, e milioni di persone lasciarono le loro terre, con perdite elevatissime e tra vendette atroci; la Germania occupata si trasformò in un immenso campo profughi. Questo non impressionava particolarmente nessuno perché i tedeschi in quanto nazisti erano colpevoli e quindi lo erano anche i loro civili. Nell’Istria le partenze degli italiani avvennero a scaglioni, seguendo le ridefinizioni del confine e non esiste tuttora prova di un piano di espulsione da parte del governo di Tito, che invece espulse senza alcun tentennamento i tedeschi.

Il che non vuol dire che non ci siano stati soprusi e pressioni sugli italiani, ma che tra i fattori che spinsero alla partenza vi fu uno spettro estremamente ampio di fattori: l’insicurezza, la paura, il ribaltamento degli equilibri di potere precedenti; ma anche una povertà estrema, resa più acuta dalla collettivizzazione, che spingeva molti abitanti a scappare; il senso di claustrofobia provocato da confini che si alzavano e che separavano zone storicamente interdipendenti le une dalle altre.

Molte di queste motivazioni erano condivise anche dai numerosi non italiani o non completamente italiani – in un’area dove le identità ibride erano la norma – che partirono.

Non va dimenticato poi che soprattutto dalla metà degli anni ’50 Trieste rappresentava la possibilità di imbarcarsi per l’Australia e il sogno di una nuova vita in un nuovo mondo. Inoltre, il tentativo di includere la minoranza italiana nella costruzione del nuovo stato jugoslavo finì male anche perché nel 1948, quando iniziò lo scontro tra Tito e Stalin, la maggior parte dei comunisti italiani si schierarono con quest’ultimo, in quanto internazionalisti, e finirono nel mirino di una brutale repressione.

A risultarne fu la partenza della maggior parte della componente italiana dalla costa orientale dell’Adriatico; ma attenzione, non mancarono coloro che scelsero di rimanere. E, anche se numericamente preponderante, il caso degli esuli italiani dalla Jugoslavia non fu unico nel suo genere; accanto a loro arrivarono profughi connazionali dalla Grecia, dalla Turchia, dalla Tunisia, Egitto e Libia. Anche in questi casi, descritti nel libro “La Puglia dell’accoglienza” di Vito Antonio Leuzzi e Giulio Esposito, come in quello della civiltà venezian-giuliana, si trattava della fine di presenze secolari, ma la loro memoria non ha interessato per nulla la narrazione nazionale. Forse perché non erano vittime del comunismo o vittime di quel confine orientale la cui ridefinizione è stata tanto dolorosa e ha magnetizzato tutte le istanze revansciste.

L’irrompere dei nazionalismi novecenteschi nelle aree multinazionali del nostro continente ha distrutto la diversità che caratterizzava in particolare l’Europa orientale e il bacino del Mediterraneo.

La semplificazione si è sostituita alla varietà di comunità che dopo secoli hanno scoperto di non poter più vivere insieme. Sarebbe stato bello dedicare un giorno a questa tragedia universale del secolo appena passato e riflettere sulla lezione dei nazionalismi escludenti – proprio ora che l’Ucraina brucia – anziché continuare a commemorare solo le nostre vittime, le nostre terre irredente, le nostre tombe.



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