Parole in esilio/Ilunga

La prima volta perdono, la seconda assolvo, la terza senza pietà. Tshiluba, Africa Centrale

Vi sono parole che esistono solo se pronunciate in lingue d’origine. Parole che non possono essere tradotte, senza perderne l’incanto. Eppure, qualche volta, nell’ospitarle in una storia,
il loro taciuto significato si svela. E nella rubrica Parole in esilio, si snoderà un filo di racconti dedicati ogni volta a parole in lingue diverse, per restituire con curiosità quel voler conoscere la particolarità e la ricchezza dell’altrui.

Rosso il nostro deserto. Lo dicono, che vive. Ha dune arrugginite, che stanno al vento. Un silenzio sgraziato, da raschiare con gli occhi. Il più antico del mondo. Ma mai antico quanto la quiete che mi vuota sul cuore.

Quando si vive, non la si vuole gratuita. Si ha respiro e passo svelto. Poi, d’un tratto, la si desidera anzitempo. Per paura o per disperazione. O semplicemente, per abbandono.

Ti ho nascosta sotto un panno nero, quando ho saputo. Ma forse, nel silenzio, già sapevo. Solo che vederti sorridere dalla fotografia vecchia, rendeva il rancore più facile a portare. E te, più viva. Ogni tanto, nel passarti davanti, ti scosto. Anche seppellito, il tuo sguardo, mi inasprisce.

A Manu non ho detto nulla. Sa che mi sei esistita, un tempo. Ma non domanda. In realtà, neppure parla spesso. Dice che bastano le mie sole parole, per entrambi. Ed io non so se accusarlo di inedia di parole. O accusare me per lo sperpero. Eppure qualcuna me l’ha insegnata, dal cuore di un’Africa comune. Ma ai suoi taciturni occhi sono abituata. Come mare raro, mi seguono. E raccolgono il dolore che lascio, in fili, per la stanza. Qualche volta, mi traggono anche al sole. A ricordarmi che, al di fuori delle mura, ancora si vive. ‘Bene’ gli rispondo ogni volta. E ritorno a scrivere.

Non sa, Manu. È stato l’esercizio di tutta la vita, inventarmi storie. Le tue, perlopiù. Ma se gli spiegassi, dovrei raccontarti. Ed ancora non ne è il tempo. Dovrei anche dirgli che sei stata la protagonista della mia vita. Io mi sono riservata il racconto. Testimone, per scelta. Oggi sono uscita. Per respirare il vento, ho detto. Ma era una voglia amara. Più, in realtà, volevo ricordare. Ho raccolto, come allora, l’alba tra le costole. Ed anche un pugno di terra cruda. Terra di tenerezza, diceva il padre. L’ho spezzata. Aveva il rosso della mia pelle. Non della tua. Un qualche lontano sangue altrui, ti si schiariva in corpo.

La portavo ovunque, la nostra terra. Namibia. Ha nel suono un dono intatto. A voi, invece, nello sguardo, nasceva l’oceano. Un oceano che lava e perdona, diceva il padre. Come se la mia terra avesse qualche peccato da espiare. Per me era diverso. Un oceano che porta via, anche se perdona.
Quando siete partiti, non vi ho voluti piangere. Perché, con i miei quindici anni, aspettarvi per poco, avrebbe quietato l’assenza. E per non augurarvi una qualche disgrazia nel destino. Ne avevamo già troppe, con la guerra che ci prendeva alle spalle.

Dalla riva, vi ho visti uguali. Volevate salvezza. O un futuro che fosse una certezza. E vi ho perdonati.
E da sempre più lontano mi arrivavano le lettere. Qualche volta si recitavano, come preghiere vizze. Ma non erano mai lunghe abbastanza. E lasciavano un dolore a metà. Pensavo allora che non leggerle mi avrebbe salvato. Ma l’assenza si misura a poche parole. E un ritmo di gesti quotidiani, mi redimeva la nostalgia.

Spesso mi chiamavate a voi. Ma, come sospesa, mi trattenevo per ereditato amore. E si radicavano alla terra arrossata le vene del mio destino. Ogni volta rimandavo. Nei gesti d’ogni giorno cercavo una rinuncia. Una, che mi allargasse gli occhi. Ma continuavo, a sera, a preferire all’esilio, il raccogliere a piene mani una terra sanguigna.

Poi la guerra si è scordata. E con la pace, ho deciso di rimanere. Te l’ho scritto, ora che sapevi leggermi. Mi hai risposto rancorosa, con un rimprovero sottaciuto. Ma non riuscivo a liberarmi. Avevo per questa terra, un sentimento remoto. E te lo spiegai.

Di lì, le nostre lettere furono un racconto a due voci. Dal tuo alfabeto germanico, traducendo, t’inventavo storie. Storie che, poi, avrei raccontato ai bambini, durante le lezioni. Domandavano sempre di chi fossero i vasti occhi soli che avevi in fotografia.

E se anche mi avevi promesso, nelle tue lettere, un ritorno, rimaneva vuoto l’orizzonte. Avevi la parola liquida, anche nelle promesse. E seminavi destini possibili, senza mai sceglierne uno. Me lo raccontavano le tue cartoline, posti differenti e parole uguali. Ma io tacevo ed aspettavo. Facile mi era il perdono, per te che vivevi inquieta. Ed avevi il respiro troppo breve, per poterti concedere tregua.

Poi ho conosciuto Manu. È arrivato dal Congo, come il silenzio, nel deserto. Assoluto. Ed aveva mani lontane e un volto perduto. Ma sfuggiva alle parole. Di solo presente, voleva dire. Mi sono lasciata scegliere, perché non mi volevo un destino in solitudine. Ma, in realtà, penso ora, lo scelsi per quello stesso sentimento remoto che mi legava alla terra. È lui, il volto della mia nostalgia.

Ti volevo, per promessa, vestita di bianco accanto a me, durante la cerimonia. Per dirmi se mi guardava d’amore e se sarei stata felice. Ma avevi smesso di viaggiare. E se anche per due ore ti ho sperata, è rimasta chiusa la porta della chiesa. Non ho detto nulla a Manu e lui non ha domandato. Solo si è portato a casa, sulle spalle, il mio rancore. Ma se l’oceano perdona, il deserto permette ed io, per tormento, ti ho assolta.

Ora, però, stringo le dita, per il tuo ultimo desiderio. E raggrumo il mio respiro. Sei tornata, ma non puoi più darmi le risposte. Senza scelta, mi hai lasciata. Senza annuncio. E come il cielo, senza pietà, ti penso. Vengo a farti compagnia. Ma la terra da cui sei fuggita, non ti è lieve. Io non ti perdono. Per la mancata gioia dei tuoi giorni. Dei nostri, sorella mia.



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