Myanmar: caos a Nordest

Nella regione del Kokang, ribelli e governativi combattono,
in uno scenario che potrebbe trasformarsi
in un Donbass birmano-cinese

tratto da China Files (e scritto per Il Manifesto)

Nord-est birmano, Regione Speciale Kokang. Qui gli scontri tra milizie etniche ribelli ed esercito regolare sono cominciati il 9 febbraio, quando le prime hanno attaccato una caserma dei governativi a Laukkai, capoluogo regionale. Poi, è arrivato il contrattacco e il presidente di Myanmar Thein Sein ha decretato la legge marziale nell’area. Decine di morti finora, da una parte e dall’altra.

Trentamila profughi hanno attraversato il confine cinese, altre migliaia scappano verso nord, in direzione degli Stati Shan e Kachin.

Non sono solo kokang, l’etnia di origine cinese riconosciuta come minoranza birmana; fugge chiunque si sia trovato preso tra due fuochi: lavoratori migranti, contadini provenienti dal centro del Paese che cercano fortuna nelle piantagioni di canna da zucchero, nelle attività forestali e minerarie.

Tutto ruota attorno a un uomo: l’84enne Peng Jiasheng (Pheung Kya-shin in birmano), kokang lui stesso, già leader della guerriglia comunista negli anni Settanta, riconvertitosi poi in uno dei maggiori narcotrafficanti del Sudest Asiatico. Era il 1989, quando un ammutinamento interno a Partito comunista birmano spedì il gruppo dirigente degli intellettuali cittadini a cercare asilo politico in Cina.

L’esercito guerrigliero che occupava le zone a nord-est, che confinano con la Cina, si ridivise secondo linee etniche e si diede alla produzione di eroina. Ma secondo l’esperto di cose birmane Bertil Lintner, Peng aveva già aperto dagli anni Settanta una raffineria di oppio nella zona di foresta sotto il suo controllo. Uomo previdente.

Da vero reuccio indisturbato, nel 1990 legalizzò la coltivazione del papavero nella zona kokang; nei successivi vent’anni, ha trattato da pari a pari con il regime di Yangon (poi Naypyidaw), analogamente agli altri leader etnici trasformatisi in businessmen della droga.

Tutti con eserciti armati fino ai denti dai cinesi durante la precedente fase “rivoluzionaria” e tutti efficientissimi nel ripulire i soldi del narcotraffico e renderli disponibili per preziosi investimenti nel Paese isolato dalla comunità internazionale.

Poi, nel 2009, abbandonato dalla giunta che cercava di darsi una ripulita e attaccato da rivali interni alla guerriglia kokang, è scappato in Cina. Si pensava fosse morto.

Invece è ricomparso con dichiarazioni bellicose lo scorso dicembre e oggi torna, probabilmente per reclamare una fetta di torta e per sfruttare a proprio vantaggio le lungaggini di un processo di pace che, oltre a non riguardare tutti i gruppi etnici, appare in stallo.

In quell’area di Myanmar, il Kachin Independent Army (10mila uomini) è in guerra con il governo dal 2011, gli shan sono sempre a rischio mentre gli Wa – 30mila uomini, così ben riforniti da potersi permettere di vendere armi agli altri – sono al momento in calma apparente, anche perché impegnati a coltivare oppio, produrre metanfetamine e gestire casinò prêt-à-porter per i cinesi che arrivano dall’altra parte del porosissimo confine.

Dietro c’è la grande Cina, che predica calma.

Pechino non può permettersi guerricciole e la tragedia destabilizzante dei profughi alla propria frontiera sud-ovest, dove migliaia di commercianti cinesi riforniscono le etnie locali di tutto il necessario – dal riso ai Kalashnikov giocattolo per i bambini – e dove legname pregiato e giada prendono invece la via dello Yunnan.

Ma Peng Jiasheng ha sicuramente coperture al di là del confine: tacendo del legame di sangue con i kokang, in parecchi ambienti cinesi si ha la sensazione che il governo birmano faccia po’ troppo l’occhiolino a Washington.

Se tutto il nord-est del Myanmar finisse nelle mani di Naypyidaw, ci sarebbe forse il rischio di trovarsi la Nato all’uscio. Un Donbass secondo caratteristiche birmano-cinesi è forse l’ideale per Pechino, che da anni investe e fa affari con tutte le forze in campo, in un salomonico “win-win” (la strategia politico-commerciale della Cina all’estero) alle porte di casa.

Il governo birmano, da parte sua, ha criticato la Cina per non avere chiuso Peng in gabbia quando si trovava sul suo territorio, ma potrebbe ora sfruttare il ras ottuagenario come pretesto per scatenare un’offensiva finale in tutta la regione. Sul fatto che poi sia finale, è ragionevole avere più di un dubbio.

 

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