All’udienza, con Libera

Reportage dall’aula del tribunale di Bologna,
dove si celebra il primo grande processo per associazione mafiosa in Emilia Romagna. In compagnia degli attivisti di Libera

25 febbraio 2015, ore 9,30, Tribunale di Bologna. Come ogni mercoledì, da oramai un anno a questa parte, si tiene un’udienza del “Black Monkey”, il più importante processo di ‘ndrangheta attualmente in corso in Emilia Romagna, con 34 imputati, di cui 8 già condannati e 13 accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso.

Sezione penale, secondo piano, aula 11. Nell’antisala, cappotti scuri, ufficiali di polizia, qualche toga. Le udienze cominciano sempre con un po’ di ritardo. L’aula è grande, luminosa, immancabile domina la scritta “La legge è uguale per tutti”. In fondo, tre file di sedie sono dedicate a chi, come libero cittadino, desidera assistere all’udienza. Grazie a Libera, l’associazione nata nel 1995 per sollecitare la società civile nel contrasto alle mafie, quei posti sono sempre occupati.

«Bisogna venire, a loro dà fastidio che l’aula sia piena». Cristina è consigliera comunale in provincia di Reggio Emilia. Una donna alta, bionda. Indica dei giovani in jeans e giubbotti scuri, capelli corti ingellati. Sono in piedi, accanto alla porta. «Quelli lì sono alcuni degli imputati. Uno è il figlio di Nicola Femia, l’altro il genero». Eccola, la linea che divide noi e loro. È invisibile, ci sono pochi passi. Gli sguardi si incrociano, neutri. «Nicola Femia, invece, sta là, nell’acquario».

L’“acquario” è la gabbia dalle pareti di vetro dentro cui sta, ritto in piedi, il principale imputato del processo, Nicola “Rocco” Femia.

È su di lui che è incentrata l’indagine della Dda di Bologna. Già condannato a 23 anni dalla Corte d’appello di Catanzaro per narcotraffico, nel 2002 Femia si è trasferito in provincia di Ravenna per scontare la misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Secondo il rapporto della Dna, in Emilia Romagna, Femia si è arricchito notevolmente “con attività delittuose di variegata tipologia”.

Esce dalla gabbia di vetro e si siede, circondato dalla polizia penitenziaria, accanto al suo avvocato (diritto concessogli dalla Corte). Secondo l’accusa, Femia era a capo di un vero e proprio sistema criminale che si arricchiva attraverso siti web di gioco illegali e la contraffazione di schede informatiche per le slot machine. Il clan di Femia produceva e distribuiva a decine di sale giochi di tutta Italia schede “speciali”, alcune dette Black Monkey, che permettevano di occultare una parte rilevante dei guadagni realizzati dai gestori. Femia è stato arrestato nel gennaio 2013. I beni sequestrati, tra società e beni mobili e immobili, ammontano a 90 milioni di euro.

Tutto è iniziato nel 2010, quando un cittadino marocchino residente a Bologna trovò il coraggio di denunciare il pestaggio subito dagli uomini di Femia per un presunto debito non onorato. Fu allora che iniziò a venire alla luce un’organizzazione criminale vera e propria, radicata in Italia e all’estero, che coinvolgeva addirittura esponenti delle forze dell’ordine, funzionari degli apparati pubblici e diversi professionisti.

Siamo in Emilia Romagna, la regione che giusto due giorni fa la Direzione nazionale antimafia ha definito, senza giri di parole, «terra di mafia». Il 21 marzo prossimo si celebrerà proprio a Bologna la XX Giornata della Memoria e dell’Impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie, indetta dall’associazione di don Luigi Ciotti.

M. ha 18 anni, è qui con la sua classe, una quinta dell’istituto tecnico E. Fermi di Modena: «Che ci fosse la mafia nella mia città lo avevo sentito dire, ma che fosse proprio così presente non lo immaginavo».

La sua compagna di classe F., invece, che viene da Sorbara, non mostra stupore: «Secondo me questi processi servono a far vedere che fanno qualcosa, ma poi non cambia nulla». B. è meno pessimista: «Ma noi oggi siamo qui, in aula, per dare un segnale, per fargli vedere che siamo presenti».

Ogni settimana, Libera porta nelle aule del Tribunale le classi superiori, come parte di un percorso educativo di conoscenza del fenomeno mafioso. E non solo a Bologna, ma in tutta Italia, da Catania a Firenze. «Le aule dei tribunali sono il posto giusto per guardare in faccia i mafiosi». Enza Rando, legale di Libera nei principali processi di mafia degli ultimi anni, spiega ai ragazzi il senso della presenza all’udienza: «Se voi ritenete che le intimidazioni e le minacce, come quelle fatte ai giornalisti, danneggino la società civile intera, allora ha senso che come parte lesa da questi fatti noi ci costituiamo parte civile e che seguiamo le fasi di questo processo».

L’udienza è molto tecnica e ripetitiva. Il pubblico ministero interroga un teste, e tutto quello che si sente sono numeri riferiti agli atti, intercettazioni. Alcuni ragazzi sono delusi: «Ci aspettavamo un po’ più di movimento», dicono. Ma il movimento, quello vero, è la loro presenza. L’attenzione non scema mai, palpabile sui volti dei militanti di Libera, che prendono appunti, commentano, si scambiano fotocopie. L’aria composta, seria. Vigile.

Alessandra è bolognese e ha 26 anni. Si sta per laureare in giurisprudenza con una tesi sui collaboratori di giustizia, ma l’udienza del processo Black Monkey val bene un giorno di pausa dallo studio.

«Vengo perché è sociologicamente interessante assistere a queste udienze – racconta – la cosa che mi colpisce di più è l’atteggiamento degli imputati, non nascondono il loro senso di superiorità nemmeno davanti alla Corte».

In prima fila, intenta a prendere nota di tutto, c’è Beatrice Fonti, zia di Giovanni Tizian, il giornalista della Gazzetta di Modena che dal dicembre 2011 vive sotto scorta a causa delle intimidazioni proprio di Nicola Femia. «Ti dirò che c’è un giornalista che rompe le balle ad una persona che mi sta aiutando, poi ti dirò chi è. O la smette o gli sparo in bocca». Queste le parole di una telefonata registrata che fecero scattare per Tizian, ora a L’Espresso, il servizio di protezione.

«Io vengo sempre – racconta la zia del giornalista – perché voglio presidiare il luogo dove viene amministrata la legge del popolo. Come Libera non manchiamo mai, ma come vedi non siamo tristi, perché abbiamo dalla nostra parte la verità e la libertà».

 

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