Feingold, il cowboy d’Africa

L’inviato di Obama per la RDC torna negli States,
a fare il senatore. Forse è l’implicita ammissione del fallimento della strategia Usa nel Paese africano

Russ Feingold ci ha messo meno di due anni a tornare indietro. A passare dalla Repubblica Democratica del Congo al Wisconsin, dal ruolo di inviato speciale Usa nella regione africana dei Grandi Laghi alla probabile candidatura per quel seggio al Senato degli Stati Uniti che già era stato suo tra 1993 e 2011.Eppure la sua storia è più complicata di quella raccontata dalla stampa nordamericana:

Feingold non è (solo) il politico di lungo corso che, dopo un’esperienza in quella che si vorrebbe considerare ‘periferia dell’Impero’, tenta di tornare nelle stanze del potere vero.

Il passaggio dell’ex senatore dalle sponde del lago Kivu a quelle del lago Michigan non è soltanto la preparazione di una possibile vittoria interna, ma anche l’emblema di una probabile sconfitta all’estero.

Quando il segretario di stato americano John Kerry, a luglio 2013, affidò a Feingold (nella foto sotto) il dossier della crisi nell’est congolese, non si stava rivolgendo a un compagno di partito rimasto senza incarico, da sistemare in un ruolo internazionale per compensarlo della perdita subita. Basti pensare che la rivista Jeune Afrique ha definito l’ormai ex inviato “il cowboy di Obama”, attribuendogli il merito di aver ridato, col suo atteggiamento da battitore libero, un volto agli Stati Uniti nella regione.

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Difficile dunque pensare a una coincidenza quando si nota che la data di nomina di Feingold seguì di pochi mesi una decisione storica al Palazzo di Vetro dell’Onu: la creazione all’interno della missione delle Nazioni Unite in Congo (Monusco) di una brigata d’intervento rapido. Tremila uomini che, per la prima volta nell’ambito di un’operazione di peacekeeping dei ‘caschi blu’, avevano un mandato esplicitamente d’attacco, per stanare, disarmare e neutralizzare le decine di gruppi ribelli – locali e stranieri – presenti nell’est congolese.

L’approccio si rivelò vincente contro quello che allora sembrava il pericolo più immediato, il Movimento del 23 Marzo (M23), che depose le armi negli ultimi mesi del 2013 – e Feingold giocò un ruolo chiave nelle trattative per la resa. Col passare del tempo, però, l’insieme di difficoltà interne e interessi regionali che ha paralizzato molti tentativi di intervenire nella crisi congolese è tornato a frasi sentire.

E i tremila soldati sudafricani tanzaniani e malawiani della brigata d’intervento rapido hanno finito per trovarsi impantanati nella palude bellica congolese.

Poche le differenze con gli altri 16.400 che contribuiscono a fare della Monusco la più grande forza Onu al mondo, ma anche una delle più criticate. Meno successo ha avuto, ad esempio, l’offensiva contro i ribelli ugandesi Adf-Nalu, secondo il governo di Kinshasa capaci di uccidere all’inizio di gennaio 2014 l’uomo che era diventato il simbolo della riscossa congolese, il colonnello dell’esercito Mamadou Ndala, e ritenuti responsabili anche delle stragi all’arma bianca che proseguono ormai da mesi nel territorio di Beni.

La percezione che qualcosa si sia rotto – in maniera forse non definitiva ma certamente grave – nel meccanismo in cui si sperava per farla finita con la quasi ventennale crisi congolese è arrivata però quando si è trattato di iniziare le operazioni contro un altro gruppo armato, le Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr): guerriglieri hutu che il governo rwandese accusa di condividere l’ideologia dei genocidari del 1994. Tra la scadenza – il 2 gennaio – dell’ultimatum lanciato ai ribelli e l’annuncio dell’offensiva delle forze regolari, il 29 dello stesso mese, sono passate oltre tre settimane. E i primi combattimenti, secondo testimoni presenti sul terreno, sono avvenuti addirittura il 24 febbraio, senza peraltro la partecipazione delle forze Onu.

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La Monusco ha infatti sospeso il suo sostegno alle operazioni contro le Fdlr (ma non a quelle in altre parti del paese) dopo che, tra i comandanti delle operazioni dell’esercito sul campo, sono stati nominati due generali ritenuti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani: Bruno Mandevu e Sikabwe Fall.

In questo contesto suona quasi paradossale l’ultimo ammonimento lanciato da Feingold nella sua veste di inviato Usa. «Fare tutto il possibile per far terminare la minaccia di questo gruppo (le Fdlr rwandesi, ndr) e portare in giudizio i suoi capi è un obbligo per il governo della Rdc, per la regione, per i paesi africani, il Consiglio di sicurezza dell’Onu e i donatori» ha detto il diplomatico parlando all’US Institute for Peace di Washington proprio nelle ore in cui l’esercito congolese si muoveva – senza curarsi del mancato impiego dei caschi blu – contro i ribelli. I toni ispirati dell’appello, in ultima analisi, non sono riusciti a nascondere un fatto:

l’uomo scelto da Kerry, tornando (forse) alla politica interna, ha dato l’impressione di gettare la spugna. Di certificare, dimettendosi, il fallimento della strategia che a parole continuava a sostenere.

Davanti all’incertezza rinnovata dello scenario congolese – di cui l’abbandono di Feingold non è la causa ma un sintomo – all’osservatore resta da chiedersi se si potesse evitare questo nuovo stallo, di cui pagano il prezzo i civili, come quelli massacrati a Beni.

L’impressione è che, date le premesse, il percorso sarebbe stato – e sarà in futuro – comunque ad ostacoli; la soluzione militare e l’interesse (comunque relativo) delle grandi potenze possono portare a successi importanti, come la sconfitta di M23, ma parziali. La guerra e il proliferare di milizie sono manifestazioni del problema, non il suo nucleo. Persino la trasformazione – soprattutto in passato – di parte delle forze armate congolesi in un gruppo combattente non troppo dissimile dagli altri, come dimostrano i casi di Mandevu e Fall, è un fattore derivato.

Le radici vanno cercate per definizione in profondità e lo stesso Feingold – ben prima di diventare il volto dell’impegno Usa nella regione – aveva percorso questa strada, in senso letterale.

«Questo conflitto è alimentato in parte dallo sfruttamento e dal commercio non regolato di alcuni minerali. I profitti di questi sono stati usati per finanziare gruppi armati illegali, che perpetrano abusi orrendi dei diritti umani» aveva detto nel 2009 l’allora senatore presentando, insieme a due colleghi, il Congo Conflict Minerals Act.

Una legge che si proponeva di stroncare il contrabbando di risorse come il coltan, la cassiterite e il tungsteno, utilizzate in varie branche dell’industria a partire da quella elettronica. Ma che oltre alle sanzioni prevedeva anche opportunità di reinserimento per le migliaia di minatori clandestini che si sarebbero trovati senza più un lavoro. Proprio questa parte, tuttavia, è scomparsa nel testo effettivamente approvato dal parlamento e incluso dal senatore Chris Dodd e dal deputato Barney Frank nella bozza di riforma del sistema finanziario statunitense (poi diventata la legge nota appunto come Dodd-Frank Act).

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Guardare ai problemi profondi della società non è qualcosa che possa essere chiesto agli strateghi militari, così come nessuna offensiva potrà sciogliere i nodi della politica interna congolese. La discordia tra esercito governativo e truppe Onu emersa in queste settimane non è un caso isolato. A dividere – a gennaio – governo di Kinshasa e comunità internazionale era stato anche il tentativo del presidente congolese Joseph Kabila di rinviare, attraverso lo svolgimento di un censimento, la data delle elezioni presidenziali: una mossa che gli avrebbe garantito la permanenza al potere oltreil termine del secondo e ultimo mandato, destinato a finire nel 2016.

Gli Stati Uniti, anche attraverso Feingold, avevano manifestato la loro opposizione a questa proposta, poi non approvata sotto la pressione di manifestazione di piazza. Per Kabila, però, la questione resta aperta: lo sprezzante «Guardiamo avanti» con cui il portavoce dell’esecutivo Lambert Mende ha accolto le dimissioni dell’inviato Usa fa immaginare giorni non facili per chiunque sia chiamato a raccogliere l’eredità dell’ex senatore del Wisconsin e per i rappresentanti delle istituzioni sovranazionali.

 

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