Nessun cooperante internazionale in Libia

tratto da Redattore Sociale

Il Paese è nel caos e lavorare per i cooperanti è impossibile. Martin Vane, del Danish refugee council racconta come cerca di gestire la crisi da Tunisi, dove si sono spostate le missioni. Non serve incutere paura sventolando numeri di una possibile invasione di migranti

Nell’inferno della Libia non sono rimasti più occidentali. Armi e bagagli, tutte le ong che si trovavano a Tripoli si sono dovute trasferire in Tunisia. L’ambasciata americana a Malta, addirittura. Martin Vane è il responsabile del Danish Refugee Council Libya (Drc), un’ong danese che si occupa di rifugiati e richiedenti asilo. È stata tra le ultime a lasciare il Paese e ancora lo presidia attraverso i suoi partner locali. L’ultima volta che Vane è potuto entrare in Libia era metà gennaio. Sa bene che il caos in cui è piombato il Paese durerà per molto: “Per l’Occidente, ora il problema è capire in quante persone vorranno partire – spiega -. Molte volte si ritrae uno scenario in cui tutti vorrebbero raggiungere l’Europa. Ma non è così”.

Secondo un rapporto (l’Interagency Rapid Assessment) redatto da Organizzazione internazionale delle migrazioni insieme alle agenzie Onu Unodc, Unhcr, Unicef e World food programme a dicembre 2014 l’86% degli sfollati non sa per quanto resterà in questa condizione ma la stessa percentuale punta a ritornare nella stessa condizione che aveva prima che scoppiasse la seconda crisi libica, nel maggio del 2014.

Non vorrebbe mai prendere un barcone diretto al Sud dell’Europa. Gli allarmismi dalla nostra sponda del Mediterraneo non aiutano a capire la crisi. “Senza programmi di reinsediamento o d’integrazione, non ci sono soluzioni durature per richiedenti e rifugiati, con l’eccezione di pochi rimpatri”, scrive il Drc in un nota.
I numeri parlano di 37-38 mila mixed migrants, ossia migranti di vario genere: economici, richiedenti asilo, rifugiati. È una categoria costruita apposta per le zone di conflitto, dove la distinzione degli status giuridici dei migranti importa poco.

A loro si aggiungono altri 390 mila sfollati, per un totale di 420-430 mila “people of concern”, ossia bisognose di un aiuto. Sono gli sfollati ora il principale target delle ong: per numeri e gravità della situazione.

Il timore esagerato nei confronti della possibile ondata di arrivi ha creato anche dei tabù riguardo possibili soluzioni alla crisi umanitaria, come quella di un corridoio umanitario. Se l’Europa pensa di poter incidere nella crisi portando nel continente qualche centinaio di profughi siriani, sostiene Vane, si sbaglia di grosso. Servirebbe un intervento coordinato, dalla Libia, fino alle missioni di pattugliamento nel Mediterraneo. Ma questa strategia a livello europeo ancora nn si vede.
Il Drc prosegue le sue missioni finanziata da World Food Programme, Danish demining group (un gruppo danese che si occupa di sminamento) e Commissione europea. La missione più importante è ancora in corso a Sabha, la principale città del Sud del Paese. Qui il partner principale è Tahar Zawia, un’ong locale che ha il grande pregio “di garantirsi l’accesso sia nell’est che nell’ovest del Paese – spiega Vane – . Per gli occidentali questo non è solo pericoloso, è proprio impossibile”. Tahar Zawia a sua volta si appoggia su un’ong formatasi dopo la caduta di Gheddafi: si chiama 3F, Free fields foundations, che si occupa di sminamento. Sono loro ad accedere ai registri dei municipi, gli unici presidi di un governo di cui ormai non resta più traccia. Sono poi singoli municipi a iscrivere le famiglie alle liste degli sfollati e a chiedere l’intervento delle ong. “I partner sono molti – commenta Vane – ma le capacità d’intervento molto ridotte. Non c’era società civile sotto Gheddafi, poi con la sua caduta c’è stato un picco di ottimismo che ha riportato nel Paese organizzazioni estere che pensavano di poter implementare la loro capacità di costruire, rafforzare i legami con i locali. Ora che tutti gli stranieri sono stati evacuati altrove, l’organizzazione è uno dei problemi principali”.

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